Le mosche del comunismo
di Sergio Bertelli*
da Ideazione di marzo-aprile 2006
Nella storia della nostra intellighenzia di sinistra vi sono, non dirò
delle pietre miliari, ma almeno dei paracarri, che segnano la strada
della sua evoluzione. Ovviamente, il primo cippo sarà rappresentato dal
congresso di Livorno del 1921, che sancì la scissione del socialismo con
la nascita del Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale.
È nota l’attenzione che dedicò ad esso, ed al gruppo torinese che ne fu
tra i promotori, riunito attorno a Gramsci e a Terracini, Piero Gobetti.
Ma l’Italia viveva il “biennio rosso” e, come reazione ad esso, furono
in molti a credere nel “listone”, salvo risvegliarsi col delitto
Matteotti.
Alcuni studenti torinesi, riuniti attorno al loro professore, Umberto
Cosmo, ebbero il coraggio di rispondere alle offese di Mussolini nei
confronti di Benedetto Croce («un imboscato della storia»), con una
lettera aperta che fu all’origine del manifesto, promosso da Giovanni
Amendola, in risposta all’appello di alcuni intellettuali fascisti
riuniti a congresso a Bologna nell’aprile del ’25. Ma quando si capì che
la svolta dittatoriale del colpo di Stato del 3 gennaio (le leggi
eccezionali), non avrebbe trovato un argine costituzionale nella figura
del re, e che ci si avviava anzi verso una stabile diarchia, tra
fascismo e monarchia, furono in molti, tra i firmatari di quel manifesto
che, anziché impegnarsi nella battaglia politica, si rinchiusero in una
sorta di torre d’avorio.
«Sono sicuro – scrisse Giovanni Gentile quando si trattò per gli
insegnanti di giurare fedeltà, oltre al re, anche al regime – che,
tranne quattro o cinque [...] giureranno in buona coscienza, lealmente,
e proveranno che dal 1925 al 1929 anche l’Italia intellettuale ha fatto
cammino, e l’antimanifesto va buttato, finalmente, in soffitta». In
effetti, solo undici furono i professori universitari che rifiutarono il
giuramento loro imposto. Ai cattolici, Pio XI offrì la scappatoia di
intendere la dizione “regime fascista” nel senso di “governo dello
Stato”; ma lo stesso Croce, a quanti gli si rivolgevano angosciati per
consiglio, suggerì di piegarsi «per continuare il filo dell’insegnamento
secondo l’idea della libertà».
Non parrebbe, tuttavia, che quel filo fosse stato trasmesso intatto.
Almeno, a sentire quanto diceva un giovane reduce dalla prigionia nel
dopoguerra, rivolgendosi direttamente ad Alcide De Gasperi, passato
indenne lungo gli anni del regime, nel rifugio della Biblioteca
Vaticana: «È vero che noi giovani fummo educati in clima fascista, è
vero che fummo fascisti. Ma di quelli che ci credettero sul serio, cioè
uomini migliori di quelli che ci speculavano sopra e non peggiori di voi
anziani che, essendo antifascisti, non riusciste né sempre provaste a
liberare l’Italia dalla tirannide».
Le rotte dell’intellighenzia di sinistra, da un totalitarismo all’altro
Un secondo momento di rottura fu determinato dalle leggi razziali, agli
inizi del 1938. Quanti ne realizzarono la gravità? Ma non sembra che
molta attenzione si fosse manifestata di fronte al patto russo
sovietico, siglato da Molotov e Ribbentrop, a Mosca, nell’agosto del
’39; né che l’aggressione alla Finlandia, nel novembre, che pure suscitò
la condanna di Umberto Terracini dal confino, avesse suscitato
particolare emozione fra i nostri intellettuali. Benché insofferenti del
regime (tanto da essere attentamente sorvegliati dalla polizia), essi
non si peritarono di partecipare ai Littoriali, di collaborare ad una
rivista quale Primato, sotto le ali protettrici di Giuseppe Bottai e di
don Giuseppe De Luca, o all’Enciclopedia italiana, diretta da Giovanni
Gentile. Né avvertirono la gravità della partecipazione ai convegni di
Weimar, promossi dall’Unione internazionale degli scrittori presieduta
da Joseph Goebbels.
Naturalmente, la disfatta italiana dell’8 settembre ’43 richiese delle
scelte nette. Chiusa l’esperienza del “lungo viaggio attraverso il
fascismo”, la maggioranza optò per il partito comunista, spostandosi da
un totalitarismo all’altro.
Il referendum del 1946 vide schierati i nostri intellettuali per
l’opzione repubblicana e, due anni dopo, essi furono pronti ad entrare
nell’Alleanza della cultura, schierandosi per il Fronte popolare, la
coalizione social-comunista che aveva per logo il faccione di Garibaldi.
Si chiamavano Libero Bigiaretti, Sibilla Aleramo, Natalino Sapegno,
Luigi Russo, Delio Cantimori, Galvano Della Volpe... Con loro erano i
più giovani Mario Alicata, Pietro Ingrao, Dario Puccini, Carlo
Muscetta... L’operazione dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci
dava, ai loro occhi, una parvenza di rispettabilità ad un marxismo
risciacquato nelle acque del Golfo di Napoli. L’idillio continuò anche
quando, scomparso Stalin nel marzo 1953, scoppiarono violente
dimostrazioni e scioperi in Bulgaria nel maggio, una rivolta a Plzen, in
Cecoslovacchia, ai primi di giugno, e poche settimane dopo, con maggior
ampiezza, in Germania, causando un intervento diretto dell’Armata Rossa
per sedare i disordini.
Vi fu allora qualcuno, fra tanti intellettuali “organici”, che ebbe un
qualche ripensamento? Eppure non può dirsi che mancassero informazioni
sull’urss. André Gide lo aveva avvertito sin dal 1936, col suo Retour de
l’Urss; Guy Vinatrel aveva pubblicato, nel 1949, la propria
testimonianza su L’Urss concentrationnaire; Buio a mezzogiorno (Darkness
at Noon), di Arthur Koestler, tradotto in ben trentatré lingue, era
apparso in Italia per i tipi della Mondadori nel 1946; Vicktor
Kravchenko aveva “scelto la libertà” nel 1947; La fattoria degli animali
di George Orwell era apparsa in Italia nel 1953 per i tipi della
Mondadori; il volume a più mani su Il dio che è fallito, sarebbe stato
pubblicato da noi nel 1957.
Chi avesse voluto, si sarebbe ben potuto documentare. Invece, eravamo
stati deliziati da incredibili reportage dall’Urss. Così Corrado Alvaro
poteva scrivere: «Ho sentito sulla bocca di molti russi, parlando di
avvenimenti truci nel mondo, la frase “fortunatamente noi gli orrori li
abbiamo passati”, e cioè le stragi, il sangue, le guerre civili. Questo
è il loro più grande bene». E Roberto Bertoni (che aveva capito tutto),
rivendicare la similarità tra fascismo e comunismo. Libero Bigiaretti,
arrivato alla Kolyma (cioè nelle terre del Gulag), non si accorgeva di
nulla e descriveva «appartamenti puliti, quasi eleganti [...] Le
camerate (dodici letti ciascuna) sono spaziose, luminose e gaie, non
hanno niente del collegio o della caserma». Una descrizione talmente
idilliaca che ha qualcosa di macabro. Ma, come scriveva Calvino,
«Militare nel Partito è il nostro modo di esistere». Così si sarebbe
potuto cadere nel lirismo più smaccato, come succedeva al poeta Alfonso
Gatto: «Diciamola pure “rossa” quest’Emilia ormai salutata dalla luce di
un mondo che sorge. È il colore del sereno. Vi spunta la stella dei
braccianti che navigano la terra per tutta la vita, la luna spiccata
come una falce».
Ci volle il rapporto segreto di Nikita Kruscev al XX Congresso, perché
si costringessero tante “mosche cocchiere” ad un profondo ripensamento
all’interno del loro mondo: «Il 1956 non era stato solo un trauma
interno al mondo comunista, ma si era riflesso sulla cultura di
sinistra, introducendo elementi nuovi di “revisionismo” che in altre
epoche erano rimasti isolati, col suo groviglio di proposizioni
irrisolte, un naturale terreno di coltura». Si arrivò così all’appello a
Giuseppe Di Vittorio perché, nella sua veste di segretario
dell’internazionale sindacale, si recasse in Ungheria a constatare de
visu il carattere della rivolta, e alla lettera indirizzata da centouno
intellettuali romani alla Direzione del Pci, «una presa di posizione
etico-politica».
Speranze mal riposte, quando proprio Togliatti sposava in pieno la tesi
di Stalin dell’aggravamento della lotta di classe via via che si
procedeva nella realizzazione del socialismo. In un fondo su l’Unità e
in un corsivo siglato col solito pseudonimo su Rinascita, il leader
comunista spiegava come fosse assurdo credere che «esistendo oggi le
condizioni della competizione pacifica, non vi saranno più altre forme
di lotta, non potranno più esservi rotture rivoluzionarie violente [...]
Questo è un serio errore, perché porta al disarmo ideale e potrebbe
anche portare al disarmo pratico delle forze rivoluzionarie che avanzano
[...]». Oggi sappiamo che si dovette proprio a Togliatti la pressione
sui dirigenti sovietici per l’intervento militare in Ungheria (“un
dovere di classe”), e che lo stesso Memoriale di Jalta fu dato alle
stampe in funzione anti-krusceviana.
Pur tuttavia, lo strappo del 1956 si rivelò maieutico anche al di là
dell’area partitica. Non a caso, furono gli anni della nascita o del
rinnovamento di riviste che intendevano, comunque, continuare a muoversi
nel mondo della sinistra, quali Ragionamenti, pubblicato da Roberto
Guiducci, Franco Fortini, Alessandro Pizzorno e Franco Momigliano;
Problemi del socialismo di Lelio Basso; Passato e presente, promosso da
Antonio Giolitti dopo la sua uscita dal Pci; Tempi moderni di Fabrizio
Onofri, anch’egli uscito da quel partito dopo uno scontro pubblico con
Togliatti; il settimanale Corrispondenza socialista attorno ad Eugenio
Reale, una figura di spicco nella leadership comunista (con Luigi Longo,
egli era stato il rappresentante italiano alla costituzione del
Cominform) e Michele Pellicani, raggiunti da un rinsavito Alfonso Gatto
e da numerosi altri ex. Sul fronte dell’estrema, la diaspora degli
intellettuali comunisti avrebbe portato alla nascita di riviste quali
Quaderni rossi di Renato Panzieri (già direttore di Mondo operaio),
Classe operaia diretta dall’operaista Mario Tronti; La Sinistra di Lucio
Colletti (con venature da IV Internazionale).
Sulla passata militanza comunista e sulle prospettive strategiche della
sinistra si interrogava lo stesso Giolitti con un saggio affidato
all’editore Einaudi: Riforme e rivoluzione, suscitando un duro attacco
su l’Unità da parte di Valentino Gerratana, il quale lo accusava di aver
portato il dibattito al di fuori delle istanze di partito. Come se non
si fosse appena visto che spazio potesse essere assicurato a chi avesse
voluto discutere all’interno del Pci! Il caso di Valdo Magnani, deputato
e segretario della Federazione di Reggio Emilia, colpevole di aver
chiesto un dibattito aperto sul titoismo, espulso dal partito assieme ad
Aldo Cucchi, altro deputato comunista che aveva solidarizzato con lui,
risaliva ad appena cinque anni prima e sarebbe stato difficile
dimenticare il giudizio sprezzante di Togliatti sui due: «Anche nella
criniera del più nobile destriero possono annidarsi dei pidocchi». Ma
ancor più recente era stata l’esperienza di Fabrizio Onofri, membro del
Comitato Centrale del Partito, il quale, quando aveva chiesto di poter
intervenire su Rinascita in vista del futuro congresso, si era visto
pubblicare il proprio articolo con un titolo sprezzante, dettato dallo
stesso Togliatti: “Un inammissibile attacco alla politica del Partito
comunista italiano”.
Budapest 1956, la catastrofica posizione della dirigenza del Pci
Davvero, come sosteneva Togliatti, si poteva concludere che «la sostanza
del regime socialista non andò perduta, perché non andò perduta nessuna
delle precedenti conquiste, né, soprattutto, l’adesione al regime delle
masse di operai, contadini, intellettuali che formano la società
sovietica»? A quel passato Giolitti sarebbe riandato, “quasi con
rabbia”, nelle lettere idealmente indirizzate alla nipote Marta: «Il
prezioso, faticosamente accumulato e amministrato patrimonio di consensi
e partecipazione degli intellettuali “organici” e “simpatizzanti” fu
devastato non tanto dagli eventi del 1956, precorritori e annunciatori –
per chi voleva capirli – di quelli del 1989, quanto piuttosto dalla
catastrofica posizione assunta allora dal gruppo dirigente del Pci. Uso
a ragion veduta l’aggettivo “catastrofica”, perché l’incapacità del
partito di cogliere quella che si presentava come un’occasione storica
per recidere, finalmente, il “legame di ferro” e sciogliere il nodo
della doppiezza determinò – non solo per il Pci e per la sinistra, ma
per l’Italia – la catastrofe di una democrazia anchilosata e di una
sinistra impotente per la durata di una generazione: trentatré anni, dal
1956 al 1989».
In una seduta, che immagino assai tesa, della Direzione del Pci, quella
del 20 giugno 1956, Togliatti ebbe il coraggio di denunciare «alcune
manifestazioni di vacuo disfattismo culturale e ideologico» chiedendo
che la discussione fosse responsabile, dimostrando di aver perso davvero
il polso della situazione. Ma fu proprio la sua forte leadership a
impedire che, dall’interno del partito, emergessero figure capaci di
coagulare un ripensamento critico. Non ne ebbe la forza Di Vittorio, al
quale pure i centouno si rivolsero, così come anni dopo non ne ebbe la
forza Giorgio Amendola, al quale guardarono i miglioristi (un magazine
del tempo, Firenze sera, nel febbraio del 1962, introdusse un suo
servizio su quel gruppo con un titolo in copertina che diceva: “Il club
dei miglioristi. Rifondazione della sinistra o via salottiera al
socialismo?”) .
Uscito dal Pci, nel marzo del ’58 Fabrizio Onofri cercò di coinvolgere
un ampio numero di amici e simpatizzanti attorno ad una sua impresa
editoriale (prendendo con sé, come segretario di redazione, Renzo De
Felice), tanto da scrivere, in un primo numero pilota: «È la prima
volta, crediamo, che una rivista nasce in Italia con la collaborazione e
l’apporto diretto di un numero così ampio di personalità e di lettori:
attraverso una consultazione che s’è svolta a tutti i livelli –
dall’operaio di fabbrica allo specialista – e in cui uomini delle più
varie tendenze politiche e culturali (ma tutti orientati verso il
rinnovamento e il progresso della nostra società nazionale) hanno
liberamente espresso le proprie esigenze e formulato i propri
suggerimenti».
L’iniziativa non ebbe un grande successo e solo due anni dopo il
periodico riprendeva le pubblicazioni con una nuova serie, che sarebbe
andata avanti per altri quattordici numeri trimestrali, sino al
settembre 1963, rivolgendosi alla sinistra democratica e aprendo il suo
primo numero con un saggio sulle “Modificazioni strutturali e politiche
del Partito comunista italiano al suo 9° congresso”, presentato come
rapporto del Centro italiano di ricerche e documentazione, del quale la
rivista era adesso espressione, e attribuibile al suo stesso direttore.
Dei centouno intellettuali romani firmatari della lettera indirizzata
alla Direzione del Pci, molti preferirono un’uscita silenziosa non
rinnovando la tessera per il 1957, seguendo il consiglio di Delio
Cantimori. Altri, invece, fecero un pubblico mea culpa, mea maxima culpa
e rientrarono disciplinatamente nei ranghi: gli Spriano, gli Asor Rosa.
Così, per Spriano, Kruscev diveniva «un maramaldo» ed egli troverà un
supporto al proprio «ritorno all’ordine» (forte dello «spirito di
partito» che lo pervadeva e che gli riconosceva Togliatti), nelle
statistiche: il 96 per cento degli operai non seguono gli intellettuali,
«rifiutano anche la scossa che viene loro dalla presa di posizione di un
dirigente popolare come Giuseppe Di Vittorio».
Furio Diaz, a distanza di anni, pur non vedendo spiragli di libertà
intellettuale in un partito «che teneva fede a uno stalinismo di ferro
anche dopo la morte del dittatore e il rapporto Krusciov», esprimeva il
dubbio «che fossimo noi i cattivi politici, e che avevano ragione quei
nostri amici i quali con più decisione proseguivano la via imboccata e
la proseguirono anche dopo il 1956 e la nostra defezione […] Molte volte
mi sono chiesto se la mia specifica inclinazione illuministica, e con me
di molti altri intellettuali divenuti sempre più “apolidi” dopo il ’56,
fosse in parte all’origine di un distacco così radicale, di uno spirito
critico così aspro verso la vita pratica che ci circondava».
Se per “vita pratica” Diaz intendesse il successo di pubblico, la
visibilità sui mass media, un eventuale laticlavio, certo si può
concedergli che chi non si piegò, non ebbe più una sponda che lo
accogliesse, divenne una vox clamantis in deserto. Persino Antonio
Giolitti, che pure fu accolto (obtorto collo) nel psi, non riuscì a
mantenere e a far vivere a lungo la rivista che si coagulò allora
intorno a lui, avendo Carlo Ripa di Meana come direttore responsabile.
Passato e presente ebbe infatti una breve vita, dal 1958 al 1960, pur
avendo a collaboratori figure di rilievo: da Leo Valiani a Claudio
Pavone, da Luciano Cafagna a Ester Fano, Armanda Guiducci, Enzo
Collotti, Alessandro Pizzorno, Cesare Cases, Giuliano Amato.
L’intrinseca debolezza del socialismo italiano, perennemente spaccato
nei due tronconi riformista e massimalista, fu la poderosa causa
dell’insuccesso dei molti tentativi messi in atto a quel tempo per
trovare il quid consistam della sinistra italiana. Un’altra esperienza
di coagulo di fuorusciti dal Pci, simile a quella messa in piedi da
Giolitti, fu, come accennavo, Corrispondenza socialista. Il primo numero
del settimanale veniva stampato il 9 giugno 1957. Ricorderà Giuseppe
Averardi: «Conobbi Reale ai primi del 1957. Venivo dalle Botteghe Oscure
e da Il Contemporaneo, il prestigioso settimanale della commissione
culturale del Pci [...] Ci organizzammo come potevamo, ed eravamo in
tanti e tanti vennero dopo. Discutevamo [...] del riscatto politico di
tanti ex comunisti italiani, di impegno civile, di patria tradita, di
fiducia nella rinascita di una sinistra italiana non più ipotecata da
Mosca [...] Ma la situazione era tremendamente difficile [...] Nasceva
così il nostro settimanale Corrispondenza socialista, col progetto di
non mandare disperse le immense energie che la rivoluzione ungherese
aveva liberato, in Italia, dalla cappa dello stalinismo».
Nessun dubbio che il clima fosse piuttosto gelido. Quando la redazione
di Corrispondenza socialista illustrò il progetto editoriale a Ignazio
Silone, questi vide più lontano di quanto loro stessi non pensassero:
«Voi sognate ad occhi aperti. Il Pci non è pronto. Non fatevi illusioni.
Nenni si è fatto battere nel congresso di Venezia. Ci vorranno anni per
portare il Pci fuori dalle secche». Conosceva l’uomo, ricordava quanto
un giorno gli aveva detto Tasca: «Nenni riassume in sé tutto quello che
c’era di negativo in Serrati, una certa demagogia, una certa
superficialità, una certa aria di fare il finto tonto quando si discute
di cose serie, una certa maniera di evitare di andare in fondo alle cose
appigliandosi a degli elementi marginali, a dei pettegolezzi, a dei
sentimentalismi». Nel suo attaccamento al patto di unità d’azione, egli
sarebbe stato il becchino del psi, senza nemmeno riuscire ad evitare che
i sovietici gli finanziassero contro la scissione del Psiup.
Debbo rendere atto a Silone che la sua rivista, Tempo presente, offrì le
proprie pagine ai dissidenti che uscivano dal Pci, ripercorrendo
l’esperienza che lui stesso aveva già compiuto. In un articolo
pubblicato in Svizzera nel febbraio del ’42, egli aveva scritto che
l’uscita dal partito equivaleva a una piccola morte. Ecco perché la
situazione traumatica dell’ex comunista può ricordare quella dell’ex
frate. Nessuna chiesa l’avrebbe più accolto. Ma collaborare a Passato e
presente sarebbe stato un dare ragione a Togliatti, che aveva bollato
quanti chiedevano un dibattito aperto come delle persone passate al
nemico. Era noto come, secondo il principio di sostenere le sinistre non
comuniste, per l’Italia gli Stati Uniti avessero deciso di dare il loro
appoggio proprio a Tempo presente, la rivista fondata e diretta,
dall’aprile 1956, da Ignazio Silone e da Nicola Chiaromonte,
trasformandola nell’organo della sezione italiana del Congresso per la
libertà della cultura, anche se allora nessuno avrebbe potuto immaginare
(penso lo ignorassero gli stessi direttori del periodico) che dietro il
Dipartimento di Stato c’era la Central Agency. Si tenga del resto
presente che la scelta di sostenere Silone, da parte americana, non era
affatto recente. Occorre tuttavia riconoscere che la preponderanza
dell’attività pubblicistica ed editoriale finanziata dai sovietici fu
tale che Tempo presente non riuscì mai a contrastare efficacemente
l’appeal esercitato nell’intellighenzia italiana dall’operazione messa
in piedi da Palmiro Togliatti attorno ai Quaderni del carcere
gramsciani. La rivista del Congresso non fu mai capace di uscire da quel
limbo nel quale erano rinchiuse altre pubblicazioni d’area liberal,
quali Il Mondo di Mario Pannunzio e Comunità di Alberto Olivetti.
La scarsa fortuna di Tempo presente fu condivisa dalle altre riviste
messe in piedi dai dissidenti. Esse non trovarono nei socialisti la
sponda sulla quale avrebbero potuto approdare. Furono lasciate in mezzo
al guado. Resterebbe da domandarsi: quale fu il costo della diaspora?
Quante energie appena liberate andarono disperse, bloccando quel
ripensamento critico che pure sarebbe stato indispensabile? De Felice
cercò di perseverare nell’impegno preso con Fabrizio Onofri, iniziando
una nuova collaborazione con Il nuovo osservatore, un quindicinale che
voleva aprire alla collaborazione della dc col psi, diretto da Giulio
Pastore (il ministro della Cassa per il Mezzogiorno) e che aveva come
redattore responsabile Vincenzo Scotti. Ma forse il suo maggiore impegno
fu la rivisitazione del nostro recente passato, coi volumi dedicati alla
biografia di Mussolini. Quanto a Delio Cantimori, egli si rinchiuse nei
propri studi, appartato come un novello Spinoza («quando bellatores
sanguine fuerint saturi»), dando libero sfogo ai suoi pensieri nelle
lettere estemporanee indirizzate al “Caro Rossi” (a Francesco Cesare
Rossi, direttore di Itinerari) periodicamente apparse su quella rivista
fra il 1960 e il 1964.
Arrivò il 1968 e la primavera di Praga. Sembrò un deja vu, ma sarebbe
stata una magra consolazione dire, con Robert Conquest: «Io ve l’avevo
detto, razza di imbecilli». La stagione riformista era ormai spenta,
mentre avanzavano i cattivi maestri e stavamo per entrare negli anni di
piombo.
Lucio Colletti attraversò un lungo cammino travagliato, per infine
approdare a Forza Italia, assieme a Piero Melograni. Ma quanti altri si
allontanarono dalla battaglia politica, quante intelligenze furono
sottratte ad una revisione culturale, che pure sarebbe stata importante
per la sinistra italiana? Se oggi lamentiamo un’egemonia degli
ex-post-comunisti su larga parte della cultura italiana, nel
giornalismo, nella scuola, nelle università, ciò si deve, a mio parere,
alla pavidità di tanti dirigenti di primo piano del Pci e al tradimento
che fu perpetrato dal Partito socialista, quando rigettò in mezzo al
guado quanti intendevano approdare alle sue sponde, contribuendo ad una
rifondazione della sinistra italiana che era pur necessaria. Una lunga
agonia, durata trent’anni, e che non si è ancora conclusa.
03 ottobre 2006
* Sergio Bertelli, ordinario di Storia moderna all’Università di Firenze
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