La colpa sovietica
di Mark Kramer*
da Ideazione di marzo-aprile 2006
La morte del dittatore di lungo corso dell’Unione Sovietica Joseph
Stalin, nel marzo del 1953, diede subito impeto al cambiamento nei paesi
del blocco comunista. A poche settimane dalla sua morte, i suoi
successori spronarono (e, ove necessario, obbligarono) i governi est
europei a promulgare un vasto Nuovo Corso di riforme politiche ed
economiche.
L’introduzione improvvisa di questi cambiamenti e la brusca impennata di
aspettative nell’Europa orientale, causò scioperi e manifestazioni di
piazza in Bulgaria nel maggio del 1953, una rivolta in Cecoslovacchia
all’inizio di giugno e un’insurrezione molto più vasta nella Germania
dell’Est due settimane dopo. Le autorità riuscirono a reprimere una
violenta rivolta a Plzen e i disordini in altre città cecoslovacche l’1
e il 2 giugno, ma nella Germania orientale il governo e le forze di
sicurezza persero ben presto il controllo della situazione quando
centinaia di migliaia di persone, il 17 giugno, insorsero contro il
dominio comunista. Per schiacciare la rivolta le truppe sovietiche
furono costrette a intervenire in maniera massiccia e in tutta la
Germania orientale.
Il ricorso alla potenza militare sovietica nella Germania dell’Est ha
risolto il problema immediato che l’Unione Sovietica si trovava ad
affrontare nell’Europa orientale, ma non ha conferito maggiore coerenza
alla politica sovietica, né ha eliminato la prospettiva di ulteriori
insurrezioni nel blocco sovietico. Anche se la caduta di un importante
funzionario, Lauretii Beria, alla fine di giugno del 1953 e la nomina
formale di Nikita Krushev a capo del Partito comunista sovietico (Pcus)
nel settembre del 1953 avevano un po’ mitigato l’instabilità della
politica interna sovietica, la lotta per la leadership continuò a
riverberarsi sui rapporti fra l’Urss e l’Europa orientale negli anni
successivi. Nel breve periodo in cui Georgii Malenkov fu primo ministro,
dal marzo del 1953 al febbraio del 1955, il governo sovietico incoraggiò
un significativo allentamento dei controlli economici e politici
nell’Europa dell’Est, così come si stava facendo nella stessa Unione
Sovietica. Nella regione ebbe fine il violento terrore di massa.
Dopo il giugno del 1953 le riforme nei paesi del blocco orientale non
furono vaste come quelle proposte prima della rimozione di Beria, ma
rappresentavano tuttavia un significativo allontanamento dallo
stalinismo. In una regione come l’Europa orientale, che era stata
oppressa così duramente durante l’era staliniana, l’improvvisa adozione
del Nuovo Corso amplificò inevitabilmente il potenziale per rivolte
sociali e politiche. La maggior parte dei principali leader di Mosca,
però, erano troppo invischiati negli affari interni e nella lotta per il
potere per valutare correttamente le condizioni sempre più instabili del
blocco orientale. Molti funzionari sovietici si limitarono a sperare che
le rivolte in Cecoslovacchia e nella Germania dell’Est del 1953
rappresentassero un’anomalia e non il segno premonitore degli ulteriori
disordini esplosivi del futuro.
I dissidi all’interno della dirigenza sovietica
L’entità dell’errore di valutazione dei leader sovietici riguardo la
situazione dell’Europa orientale appare evidente dall’approccio confuso
che il principale rivale di Malenkov, Nikita Krushev, adottò
inizialmente. Per avere la meglio su Malenkov nella lotta per la
leadership fra la fine del 1954 e l’inizio del 1955, Krushev aveva
temporaneamente parteggiato per i sostenitori della linea dura, e questo
spostamento si riverberò immediatamente in tutto il blocco. Per ordine
di Krushev, i governi est europei rallentarono o invertirono il corso di
molte riforme economiche e politiche che avevano attuato dopo la morte
di Stalin e in Ungheria, nell’aprile del 1955, fu deposto il primo
ministro riformista, Imre Nagy, per opera del leader neostalinista del
partito dei lavoratori ungheresi, Mátyás Rákosi, che due anni prima era
stato obbligato dalle pressioni sovietiche a cedere la carica di primo
ministro a Nagy. Poiché il nuovo primo ministro ungherese, András
Hegedüs, era un personaggio molto più debole di Nagy, Rákosi riuscì
facilmente a riacquisire un ruolo politico dominante nel paese e a
disfare molte delle riforme da poco messe in atto. In seguito Krushev,
conversando con i leader cinesi, riconobbe che uno degli «errori più
gravi» che aveva commesso nel 1955, era stato quello di essere tornato
ad «appoggiare quell’idiota di Rákosi».
L’improvviso crollo delle aspettative popolari in Ungheria e in altri
paesi dell’Europa dell’Est – aspettative suscitate dal nuovo corso degli
ultimi due anni – aveva generato forte malcontento popolare. Dopo il
giugno del 1953, Malenkov era riuscito a non far venire a galla il
malcontento diffuso nell’Europa orientale, procedendo con misure tese a
migliorare le condizioni di vita, aumentare i beni di consumo e dare
risposte alle preoccupazioni del pubblico; ma, all’inizio del 1955,
Krushev obbligò Malenkov a farsi da parte (sostituendolo alla carica di
primo ministro con Nikolai Bulganin) e iniziò a ridurre la portata e il
ritmo delle riforme post-staliniste, aumentando senza volerlo il
potenziale per rivolte destabilizzanti nell’Est europeo.
Disinnescare la minaccia di instabilità nell’Europa orientale non era
facile come nell’era staliniana. L’Unione Sovietica non poteva più
ricorrere a metodi stalinisti, per garantire l’ortodossia del blocco.
Sebbene fossero possibili tagli all’economia, era impensabile un ritorno
al terrore dilagante; né lo avrebbero voluto Krushev e i suoi colleghi.
Krushev, quindi, modificò un po’ il suo approccio, tentando di
rimpiazzare la subordinazione politica dell’Europa orientale, che era
stata possibile ai tempi di Stalin, con la coesione ideologica ed
economica. Avanzò il concetto di un commonwealth socialista
(sotsialisticheskoe sodruzhestvo) nel quale i partiti comunisti est
europei avrebbero avuto il diritto di scegliere la «loro via al
socialismo» – avrebbero avuto, cioè, un po’ più libertà d’azione nelle
questioni interne – se avessero continuato a «basare tutte le proprie
attività sugli insegnamenti del marxismo-leninismo». Krushev sembrava
credere che il sostegno popolare per i governi dell’Europa orientale
sarebbe cresciuto se questi avessero avuto più indipendenza in politica
interna, ma voleva garantire all’Unione Sovietica il controllo a lungo
termine del blocco promuovendo l’integrazione economica e militare. Con
questi obiettivi in mente, Krushev tentò di risanare le relazioni con la
Iugoslavia e di riavvicinarla all’area sovietica, di dare maggiore
sostanza al Consiglio per la mutua assistenza economica (cmea) e di
promuovere un più concreto rapporto militare sovietico-est europeo,
istituendo l’Organizzazione del Patto di Varsavia nel maggio del 1955.
L’offerta di riavvicinamento con la Iugoslavia rivestiva particolare
importanza per Krushev, in parte perché poteva usarla come un cuneo
contro uno dei suoi rivali interni, Vyacheslav Molotov. Nel 1948 Stalin
e Molotov avevano provocato un’aspra divisione con la Iugoslavia,
cercando poi di liberarsi del leader iugoslavo, Josip Broz Tito. I vari
sforzi per rimuovere Tito, alla fine, si rivelarono vani, ma Stalin
rimase caparbiamente ostile alla Iugoslavia fino alla fine. A pochi mesi
dalla sua morte, però, il 16 giugno del 1953, il suo successore decise
di ripristinare le relazioni diplomatiche con il paese. Quest’iniziativa
rappresentò il primo tentativo di mettere fine a circa un lustro di
polemiche e recriminazioni. Malgrado ciò, la portata della mossa fu
limitata dal fatto che non prevedeva una ripresa dei legami fra i
partiti comunisti dei due paesi. Nel Pcus Molotov e alcuni altri
rimasero saldamente contrari a qualsiasi possibilità di perseguire una
riconciliazione con i comunisti iugoslavi.
Nel 1954, Krushev iniziò a preparare il terreno per un più completo
riavvicinamento con la Iugoslavia e intensificò gli sforzi nel 1955 per
superare l’opposizione di Molotov. Il 26 maggio del 1955, dieci giorni
dopo che era tornato dalla Polonia per la firma del Patto di Varsavia,
si recò a Belgrado per una serie di incontri con Tito. Nel comunicato
rilasciato il 2 giugno alla fine degli incontri – che diventò noto come
la Dichiarazione di Belgrado – le due parti si impegnavano a rispettare
le «differenti nature interne, di sistemi sociali e di forma di sviluppo
socialista». La dichiarazione, inoltre, impegnava le parti a non
interferire negli affari interni dell’altro «per nessun motivo». La
visita e la dichiarazione congiunta furono importanti per Krushev non
solo perché costituirono un rilevante successo politico, ma anche perché
gli permisero di accelerare i suoi attacchi a Molotov. Nel plenum del
comitato centrale del Pcus, che Krushev riunì nel luglio del 1955, poco
dopo il suo ritorno da Belgrado, i delegati espressero fiumi di critiche
verso la «ridicola», «profondamente fuorviata» ed «erronea» concezione
di Molotov sulle relazioni con la Iugoslavia.
I rapporti fra Urss e Iugoslavia continuarono a migliorare nei mesi
seguenti grazie al “discorso segreto” che Krushev tenne al ventesimo
congresso del Pcus, nel febbraio del 1956, e nel quale condannò
esplicitamente la politica di Stalin nei confronti della Iugoslavia,
definendola «arbitraria» ed «erronea».
Il 20 marzo, il principale quotidiano iugoslavo, Borba, pubblicò un
riassunto del discorso segreto, accompagnato da un commento estremamente
positivo. Il mese successivo, Krushev sciolse il Bureau d’informazione
comunista (cominform), dal quale Stalin aveva espulso la Iugoslavia nel
1948. Anche se, dopo l’espulsione della Iugoslavia, il cominform era
diventato per lo più un’organizzazione vuota, il suo smantellamento era
chiaramente teso a tranquillizzare i leader iugoslavi riguardo a «future
scomuniche». Quando Tito ricambiò con una lunga visita in Unione
Sovietica nel giugno del 1956, la riconciliazione fra le due parti aveva
fatto tali progressi che venne rilasciato un comunicato congiunto che
lodava «la diversità di forme dello sviluppo socialista» e affermava «il
diritto dei diversi paesi di seguire percorsi differenti di sviluppo
socialista». Il comunicato ripudiava l’eredità stalinista, indicando che
nessuna delle parti avrebbe «tentato di imporre all’altra la sua visone
dello [...] sviluppo socialista».
Il disgelo in Europa centrale e la nascita del Patto di Varsavia
Krushev riuscì anche a raggiungere una sistemazione in Austria, paese
che era stato uno dei principali motivi di controversia fra Est e Ovest
dalla fine della seconda guerra mondiale. Sotto Stalin, l’Unione
Sovietica aveva insistentemente messo in relazione le proposte di un
trattato di pace austriaco con altre questioni come la composizione
della disputa riguardo Trieste e la risoluzione della questione tedesca.
La possibilità di una neutralità dell’Austria, proposta per la prima
volta negli anni Quaranta, era allettante per molti a Mosca e nella
maggior parte delle capitali occidentali, oltre che nella stessa
Austria. Ma a Mosca alcuni irriducibili come Molotov e Lazar Kaganovich
si opponevano fermamente all’idea, se questa implicava il ritiro delle
truppe sovietiche dall’Austria. Inizialmente anche Krushev era poco
propenso ad accettare la proposta della neutralità dell’Austria e del
ritiro delle truppe, ma all’inizio del 1955 era giunto a considerare la
definizione della questione austriaca come un modo per disinnescare un
potenziale punto di esplosione fra Est e Ovest, eliminare la presenza di
truppe britanniche e francesi dall’Europa centrale e dare spinta ai
negoziati sulla Germania, da lungo tempo in fase di stallo, utilizzando
il caso austriaco ad esempio di come la neutralità potesse essere
applicata ad uno Stato tedesco unito.
In ambiti ristretti, Molotov e altri funzionari sovietici continuavano a
opporsi tenacemente alla prospettiva di un ritiro delle forze militari
sovietiche dall’Austria, e Molotov tentò di far deragliare tutta la
questione di un trattato austriaco all’inizio del 1955, quando ne
discusse il Presidium del Pcus. Alla fine, però, Krushev e i suoi
sostenitori riuscirono ad avere la meglio, sostenendo che la rimozione
delle truppe americane, britanniche e francesi dall’Austria avrebbe più
che compensato il ritiro delle forze sovietiche. Krushev insinuò che
«l’insistenza di Molotov sulla necessità di mantenere le nostre truppe
in Austria» dovesse nascere da «un desiderio di iniziare una guerra».
Avendo superato i principali ostacoli interni, le autorità sovietiche,
nel marzo e nell’aprile del 1955, condussero dei colloqui bilaterali con
il governo austriaco, definendo cosa si intendeva con neutralità. I
colloqui bilaterali furono presto seguiti da una conferenza a quattro e,
il 15 maggio del 1955, dalla firma formale del Trattato dello Stato
austriaco. L’evento significò un trionfo personale per Krushev e per la
politica estera sovietica in generale.
Inoltre, l’istituzione del Patto di Varsavia il 14 maggio del 1955, il
giorno precedente la firma del Trattato austriaco, impedì agli
oppositori interni di Krushev di sollevare preoccupazioni sulle
implicazioni del ritiro delle truppe sovietiche dall’Austria. Fino al
maggio del 1955, la giustificazione apparente dello spiegamento militare
sovietico in Ungheria e Romania era stata la necessità di mantenere
legami logistici e di comunicazione con le forze sovietiche in Austria.
La creazione del Patto di Varsavia fornì un motivo per mantenere gli
schieramenti in Ungheria e Romania anche dopo che tutte le truppe
sovietiche avevano abbandonato l’Austria. La firma del Patto voleva
essere principalmente un contrappeso simbolico all’ingresso della
Germania occidentale nella nato, ma la legittimità che conferì alla
presenza delle truppe sovietiche era parte di un ampio sforzo sovietico
teso a codificare le strutture politiche militari fondamentali dei
rapporti fra l’Urss e l’Europa orientale. Invece di limitarsi a
conservare il meccanismo ideato da Stalin, che si basava in maniera
sproporzionata sul terrore e la coercizione, Krushev cercò un approccio
meno dominante che, sperava, gli avrebbe permesso una maggiore autonomia
interna nell’Europa orientale.
I tentennamenti della politica sovietica in Europa orientale
Malgrado il successo dell’apertura alla Iugoslavia, la conclusione del
Trattato austriaco e l’istituzione del Patto di Varsavia, la politica di
Krushev verso l’Europa orientale rimase errata nel suo complesso. I
tentennamenti dell’Unione Sovietica fra la riforma e le restrizioni sia
interne che all’estero, invece di promuovere la “coesione” del blocco
orientale, contribuirono direttamente all’instabilità della regione,
soprattutto in Ungheria e Polonia. All’inizio del 1956, le pressioni
sociopolitiche nell’Europa orientale avevano raggiunto un punto
pericoloso e aumentarono ulteriormente in seguito alla rivelazione non
intenzionale del discorso segreto di Krushev durante il ventesimo
congresso del partito sovietico. Anche se il discorso si riferiva
soprattutto agli sviluppi all’interno dell’Unione Sovietica,
inevitabilmente minò le posizioni di molti leader europei che avevano
aderito rigidamente ai principi stalinisti, come Mátyás Rákosi e
Boleslaw Bierut avevano fatto in Ungheria e Polonia (Rákosi fu cacciato
definitivamente nel luglio del 1956 e dovette rifugiarsi in Unione
Sovietica, Bierut avrebbe probabilmente avuto lo stesso destino, se non
fosse morto improvvisamente nel marzo del 1956, a quanto sembra di
infarto e polmonite). Il discorso di Krushev ebbe anche l’effetto di
incoraggiare i dissidenti e i critici dei regimi est-europei, generando
chiari segni di instabilità nei ranghi comunisti. La grande popolarità
di una delle vittime delle purghe staliniste in Polonia, Wladislaw
Gomulka, e la persistente influenza dell’ex primo ministro in Ungheria,
Imre Nagy, aumentarono l’incertezza. L’instabilità politica, quindi, si
intrecciò al malcontento seguito al ripristino di dure politiche
economiche.
Quando, alla fine del giugno del 1956, nella città polacca di Poznan
l’agitazione sfociò nella violenza, si avviò un periodo di quattro anni
di crescenti disordini. L’esercito e le forze di sicurezza polacche
riuscirono a piegare la rivolta a Poznan, ma i due giorni di
combattimenti costarono almeno 73 morti e oltre 700 feriti gravi. Gli
scontri causarono anche danni agli edifici, ai sistemi di trasporto e ad
altre proprietà pubbliche pari a milioni di zloty. Almeno trenta carri
armati dell’esercito polacco, dieci blindati per il trasporto delle
truppe e una dozzina di camion militari vennero distrutti o resi
inutilizzabili durante l’operazione – una testimonianza dell’intensità
della battaglia. Oggi si sa che alcuni ufficiali polacchi cercarono di
opporsi alla decisione di aprire il fuoco, ma fu tutto inutile perché le
forze di sicurezza volevano obbedire agli ordini e perché i comandanti
sovietici (e i loro alleati polacchi) dominavano ancora l’establishment
militare polacco.
I leader sovietici trassero lezioni molto diverse dalla crisi di Poznan.
Durante un incontro del Presidium del Pcus, il 12 luglio del 1956,
Krushev sostenne che la ribellione era stata istigata dalle «attività
sovversive degli imperialisti, [che] volevano provocare la disgregazione
e distruggere [i paesi socialisti] uno per uno»20.
D’altro canto i toni dell’incontro dimostrano che Krushev e i suoi
colleghi erano consapevoli della situazione esplosiva che si andava
sviluppando in Ungheria e Polonia. Il 13 luglio, il Presidium del Pcus
inviò in Ungheria uno dei suoi membri anziani, Anastas Mikoyan, uno
degli uomini più vicini a Krushev, per una valutazione di prima mano.
Malgrado questo, nei mesi seguenti la politica sovietica nella regione
rimase esitante e incerta, in parte perché Krushev era ancora sotto la
pressione interna degli irriducibili del Pcus, che avevano stretto forti
legami con i leader stalinisti dell’Europa Orientale. Le oscillazioni
della politica interna sovietica continuavano, quindi, a intorbidire i
legami fra i blocchi.
Questa dinamica contribuì ad accelerare la crisi che scoppiò in Polonia
e Ungheria nell’ottobre del 1956.
(Traduzione dall’inglese di Barbara Mennitti)
03 ottobre 2006
* Mark Kramer, direttore del Cold War Studies
Center all’Università di Harvard e Senior Fellow del Davis Center for
Russian and Eurasian Studies
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