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		Una manovra contro giovani e ceto medioErano anni, infatti, 
		in cui nelle leggi di bilancio (quali quelle concepite nel 1978) 
		entravano articoli in cui c’era di tutto e di più: da fermate 
		obbligatorie di due Eurostar al giorno a Parma, a sovvenzioni speciali 
		per le cooperative di produzione e lavoro per il provolone a Benevento. 
		Un documento che avrebbe dovuto essere uno dei più alti atti di 
		indirizzo di governo diventava una legge omnibus e veniva in effetti 
		formata nelle trattative che venivano effettuate in Commissione Bilancio 
		della Camera, allora presieduta, non senza acume, da Paolo Cirino 
		Pomicino. Con il disegno di legge all’attenzione del Parlamento, il 
		senso delle riforme dell’ultimo scorcio degli anni Ottanta non solo è 
		svanito interamente, ma la mediazione e la legge omnibus è stata 
		partorita a Palazzo Chigi, proprio dal governo, prima ancora che si 
		arrivasse nelle aule di Camera e Senato (dove, è cronaca di questi 
		giorni, verrà ancora trasformata). Il Parlamento ha ricevuto un testo 
		che equivale ad un tomo della Enciclopedia italiana; lo stesso Esecutivo 
		ha già annunciato modifiche; è difficile prevedere dove si arriverà 
		entro la fine dell’anno (data entro cui il disegno di legge deve 
		diventare legge), sempre che l’Esecutivo regga alle tensioni che 
		sottintendono le complesse mediazioni con cui si è giunti al testo. 
		Quindi, siamo alle prese con una Finanziaria “vecchia” come impianto e 
		come struttura ancora prima che come contenuti. Nel volumone, poi, gli 
		artifici contabili sono tali e tanti che è difficile esprimere un 
		giudizio di merito su quello che il governo Prodi ha proclamato essere 
		il suo obiettivo di fondo: portare dal 4,8 per cento del Pil (stimato 
		per l’anno in corso) al 2,8 per cento (nel 2007) l’indebitamento netto 
		delle pubbliche amministrazioni.di Giuseppe Pennisi
 da Ideazione di novembre-dicembre 2006
 
 Giuliano Amato non lo dice 
		ma probabilmente acconsente, o più precisamente concorda: questa 
		Finanziaria non è per «un’Italia più moderna e più giusta», lo slogan da 
		lui coniato e lanciato nella primavera del 1980. Non è neanche la 
		Finanziaria snella, al limite di un solo articolo, da lui preconizzata 
		quando alla fine degli anni Ottanta, da ministro del Tesoro, pilotò la 
		riforma dei documenti di politica economica e della legge sul bilancio 
		annuale e pluriennale dello Stato, proprio per evitare che la 
		finanziaria assomigliasse «alla giubba di Arlecchino» (G. Amato Due anni 
		al Tesoro il Mulino, 1989) e fare, invece, sì che desse indicazioni 
		puntuali sui saldi di bilancio e sulla strategia per raggiungerli, 
		affidando a norme specifiche (i “collegati”) aspetti organizzativi o 
		strutturali del funzionamento dello Stato.
 
 Modernizzazione addio
 
 È, comunque, una Finanziaria 
		che non contribuisce a modernizzare l’Italia in quanto ha, in sostanza, 
		recepito l’invito del sito www.appellodegliecononomisti.com 
		(un’associazione di economisti di sinistra creata per la bisogna) di non 
		prestare attenzione alla riduzione del rapporto tra stock di debito 
		pubblico e pil (per contenere le riduzioni alla spesa di parte 
		corrente). Tale invito si basa su un teorema teorico fine (di Luigi 
		Pasinetti) che tuttavia si fonda su una premessa oggi per nulla 
		realistica: che il saggio di crescita sia identico al saggio di 
		interesse. Al contrario, stiamo andando, nel mondo, in Europa e 
		soprattutto in Italia, verso aumenti dei saggi di interesse a fronte di 
		crescita modesta. Quindi, il fardello del debito (se non risolto) 
		minaccia di essere un freno sempre maggiore allo sviluppo ed alla 
		modernizzazione e pone a repentaglio i risparmi degli italiani investiti 
		in titoli di Stato (su cui spira aria di declassamento).
 Non contribuisce alla giustizia sociale poiché l’aggravio tributario (e 
		da parte dello Stato e da parte degli enti locali) incoraggerà elusione 
		ed evasione, nonché una riduzione delle ore effettivamente lavorate 
		(penalizzando ulteriormente lo sviluppo). Lo documentano studi ocse ed 
		analisi di Edward Prescott, premio Nobel del 2004, nonché lavori 
		recentissimi dell’Università di Colonia (quali il 
		Finanzwissenschaftliche Diskussionsbeiträge Paper No. 06-5) e di Zurigo 
		(quali il KOF Working Paper No. 141) che gli estensori della finanziaria 
		avrebbero dovuto leggere e meditare. Inoltre impone un sistema di 
		aliquote tributarie – pessima idea effettuare per decreto legge una 
		riforma che avrebbe richiesto un lungo e meditato dibattito parlamentare 
		– che nulla ha a che fare con il “Pareto improving tax sistem”, tema 
		dell’ultimo lavoro di Volker Grossmann (Università di Zurigo) e Panu 
		Poutvaara (Università di Helsinki), due dei maggiori specialisti europei 
		della materia, e mette sotto le scarpe i principi di Kant e Rawls in 
		materia di tutela dei più deboli.
 Il compito dell’Esecutivo era, senza dubbio, arduo: conciliare crescita 
		(di cui si vedono i primi segni) con risanamento di una finanza pubblica 
		in difficoltà da anni ma a cui ha dato un brutto colpo il cosiddetto 
		“spacchettamento” dei ministeri con costi aggiuntivi stimati sino allo 
		0,3-0,5 per cento del Pil.
 
 Giovani e ceti medi: chi paga di più le scelte del governo
 
 I primi commenti sul ddl (ed 
		il decreto legge fiscale che ne è parte integrante) hanno riguardato le 
		sue implicazioni sulla distribuzione del reddito. Il governo sostiene 
		che la manovra avrà effetti positivi sulle fasce più basse della scala 
		dei consumi, migliorandone il tenore di vita. L’opposizione argomenta, 
		invece, che la manovra penalizza principalmente il ceto medio. Né 
		governo né opposizione – occorre sottolineare – hanno presentato analisi 
		quantitative, pur annoverando tra le loro file economisti che in passato 
		ne avevano realizzate. In queste analisi, su una matrice di contabilità 
		sociale allora molto semplificata, venivano effettuate simulazioni 
		econometriche tramite un modello computabile di equilibrio economico. 
		Dalla fine degli anni Novanta l’istat dispone di una matrice di 
		contabilità sociale aggiornata. Proprio sugli effetti distributivi delle 
		politiche tributarie, da oltre due lustri, vengono effettuate 
		periodicamente analisi di questa natura da parte di un gruppo di 
		econometrici e specialisti di scienza delle finanze, guidato da Amedeo 
		Fossati. Un vantaggio della metodologia e della tecnologia è che tali 
		analisi possono venire realizzate in tempo reale e forniscono risultati 
		trasparenti. Negli ultimi dieci anni la metodologia è stata 
		ulteriormente affinata e velocizzata nelle sue applicazioni operative, 
		come dimostra un lavoro fresco di stampa dell’Università di Lovanio. 
		Analogamente, alla Università di Milano La Bicocca sono state messe a 
		punto, e pubblicate, nuove tecniche per la stima dell’esclusione 
		sociale, dati utili al governo per dare corpo alla sua posizione sugli 
		effetti distributivi della manovra o che, di converso, potrebbero 
		smentirlo. Quindi, sarebbe essenziale che il governo, il quale ha lo 
		scettro ed i dati, facesse funzionare i propri computer e fornisse le 
		cifre in modo che si possa fare una disanima approfondita. Sino ad 
		allora, resta unicamente il fatto inequivocabile di 70 aumenti, 
		ritocchi, nuovi adempimenti tributari in capo quasi esclusivamente al 
		ceto medio ed alle categorie professionali.
 Pochi hanno sottolineato come, più ancora del ceto medio, i penalizzati 
		sono i giovani (coloro che si affacciano al mercato del lavoro e, per 
		certi aspetti, anche le generazioni ancora non nate). Si dà gran lustro 
		a qualche zuccherino – come un “fondo” per le politiche giovanili, 
		sgravi per le palestre e simili – ma sulla base del vastissimo 
		articolato del disegno di legge (circa 220 articoli), oltre che del 
		decreto legge e dei primi testi dei cosiddetti “collegati”, si possono 
		fare le prime stime quantitative.
 
		In primo luogo, non avere voluto incidere 
		sul debito previdenziale pone un’ipoteca molto forte sul futuro dei più 
		giovani. Se non interverranno correttivi, prima della fine della 
		legislatura, il debito previdenziale (a normativa e stime demografiche 
		vigenti) aumenterà dal 130 per cento del pil alla metà degli anni 
		Novanta, al 150 per cento di oggi, al 180 per cento circa nel 2011 o giù 
		di lì. L’incremento è esponenziale perché tale è il tasso di 
		invecchiamento. Ciò vuol dire che chiunque sarà alla guida del vascello 
		dell’Italia nel 2012 dovrà effettuare una correzione non graduale (come 
		ancora possibile e fattibile) ma severissima, colpendo inevitabilmente 
		le giovani generazioni (e quelle future).Questo è un aspetto noto agli attuari ed ai previdenzialisti ma poco 
		conosciuto dall’opinione pubblica. Merita di essere posto al centro del 
		dibattito parlamentare sul disegno di legge. Tanto più che pure altri 
		punti del disegno di legge colpiscono i giovani. Incrociando i dati 
		Istat sull’occupazione per fasce di età e quelli prodotti dallo stesso 
		ministero dell’Economia e delle Finanze sugli effetti della manovra per 
		fasce di reddito, risulta che l’80 per cento circa dei giovani con meno 
		di 35 anni svolgono attività di lavoro autonomo o di collaborazione a 
		progetto: sono in gran parte i giovani a costituire quel 30 per cento 
		circa dell’occupazione italiana non “dipendente”. Su questi ultimi cade 
		pesante la scure del fisco e dell’aumento dei contributi sociali (per 
		finanziare una previdenza di cui godranno, al meglio, a livelli 
		bassissimi). Le simulazioni del ministero indicano un aggravio annuo di 
		€ 162 per un single che guadagna € 20.000 l’anno e di € 80 per uno 
		sposato con coniuge e un figlio a carico (ammesso che sappia 
		destreggiarsi nella giungla di deduzioni e detrazioni). Siamo a netti in 
		busta paga attorno a € 1000 euro al mese, non certo adeguati per farsi 
		una pensione privata di scorta – possibilità, comunque, resa ormai quasi 
		irraggiungibile dopo lo storno degli accantonamenti all’Inps e, di 
		fatto, la chiusura, sul nascere, di un sistema privato di previdenza 
		complementare. Ammesso che i genitori vogliano donare al giovane o alla 
		giovane coppia l’appartamento in cui vivere, scatta immediatamente 
		l’incremento dell’imposta di registro e gradualmente l’ici più pesante 
		derivante dagli aggiornamenti catastali, per non parlare delle imposte 
		di scopo che Comuni grandi e piccoli si troveranno a introdurre 
		soprattutto sugli immobili (se non altro per facilità di esazione).
 Il quadro diventa 
		ancora più cupo se da queste notazioni micro-economiche si passa a 
		quelle macro-economiche. Simulazioni effettuate dall’Oxford Economic 
		Model for Italy (uno strumento econometrico distinto e distante dalle 
		nostre beghe) prevede che l’eventuale approvazione ed attuazione del ddl 
		frenerebbe la crescita nel 2007, portandola al di sotto dell’1 per cento 
		con una perdita di 40.000 occupati rispetto al tendenziale. I giovani, 
		si sa, sono i primi a perdere il lavoro in questi casi. Estrapolazioni 
		effettuate dall’Associazione Economia Reale portano il totale degli 
		occupati in Italia a 22,6 milioni (a ragione della politica fiscale del 
		ddl) invece di 22,750 del tendenziale. Incrociando ancora una volta i 
		dati istat, si può ipotizzare che due terzi di questi 150.000 saranno 
		giovani, senza lavoro e senza prospettive previdenziali ma con la 
		prospettiva di essere tartassati se trovano un’occupazione.  
		L'obiettivo mancato della crescita
 Ciò porta, inevitabilmente, 
		a parlare di quello che sarebbe dovuto essere il grande obiettivo della 
		finanziaria: sorreggere la crescita. Non c’è stato dibattito o quasi su 
		questo argomento tanto più importante in quanto non si può distribuire 
		ciò che non si produce. La Relazione previsionale e programmatica (rpp) 
		delinea un tasso di crescita dell’1,3 per cento per il 2007 (al 
		ministero si dice che si spera in un 1,7 per cento). Una crescita 
		dell’1,3 per cento è leggermente superiore alle stime diramate proprio 
		il 29 settembre dai 20 maggiori istituti econometrici internazionali (il 
		cosiddetto “consensus”). Quale che sia l’obiettivo effettivo del 
		governo, la crescita è inferiore all’1,8 per cento della media per 
		l’area dell’euro prevista dal “consensus”, nonché del 2,5 per cento che 
		sarebbe da considerarsi normale per un’economia matura come quella 
		dell’Italia. Si potrebbe affermare che il governo ammette che, almeno 
		nel breve termine, la manovra non darà stimoli alla crescita. Ed in 
		effetti è quanto di solito avviene quando viene aumentata la pressione 
		fiscale e non vengono ridotte le spese. È anche ciò che di solito 
		avviene quando le spese ridotte o tagliate sono principalmente quelle in 
		conto capitale, la vera leva per la futura crescita. La manovra ha tutte 
		la caratteristiche di essere deflazionista: ossia di riportarci alla 
		crescita rasoterra che è stata anche una delle determinanti dei nostri 
		problemi di finanza pubblica.
 Un altro punto importante riguarda la scarsa attenzione al debito 
		pubblico in senso stretto, non solo a quello previdenziale. Alberto 
		Quadro Curzio, non certo un economista di parte, lo indica come 
		l’ostacolo principale alla crescita in un breve ma eloquente saggio 
		pubblicato sulla rivista della Università Cattolica di Milano proprio 
		alla vigilia della messa punto della Finanziaria. Secondo le mie stime, 
		seguendo il percorso tracciato nella Finanziaria, ci vorranno tra i 25 
		ed i 30 anni per portare il debito pubblico dell’Italia (escludendo il 
		“debito contingente previdenziale”) dal 108 al 70 per cento del pil – un 
		livello pur sempre superiore al 60 per cento stipulato nel patto di 
		stabilità. Tutto ciò non può non dare brividi a chi deve classificare la 
		qualità dei titoli di Stato italiani. Un declassamento dei titoli 
		causerebbe un ulteriore impoverimento del ceto medio che per decenni ha 
		tenuto un tasso elevato di risparmio e dato fiducia all’acquisto di 
		titoli pubblici.
 Cosa fare? Non si 
		suggerisce certo di seguire la Grecia, che ha mostrato un eccesso di 
		fantasia, rivalutando, alla vigilia della sua Finanziaria, le stime 
		della contabilità economica nazionale per includere il sommerso: 
		all’Eurostat si sono accorti alla fine dell’ultima settimana di 
		settembre che la rivalutazione riguardava in gran misura il valore 
		aggiunto della prostituzione (ed attività affini). Ed hanno bocciato il 
		riconteggio del pil fatto da Atene.Si può adesso cambiare rotta ed impedire che l’Italia diventi meno 
		moderna, più povera e soprattutto più iniqua?
 Alcuni di questi correttivi sono chiari: a) una riforma che incida sul 
		debito previdenziale degli italiani (ora già al 150 per cento) del pil; 
		b) regole certe per il pubblico impiego; d) privatizzazioni e 
		liberalizzazioni effettive delle municipalizzate; c) un federalismo 
		sanitario al tempo stesso rigoroso e solidale. Quest’ultimo punto è 
		specialmente importante. C’è, infatti, il pericolo che i contribuenti, 
		già tartassati dal superdecreto Visco, alla fine pagheranno lo scotto 
		della contrazione dei trasferimenti agli enti locali con aumento dei 
		balzelli regionali, comunali e provinciali e con le nuove “imposte di 
		scopo” con le quali l’Esecutivo ha pensato di addolcire la pillola dei 
		circa 3,5 miliardi di euro di riduzione dei trasferimenti a comuni, 
		province ed altre autonomie. Il risultato sarebbe che al “salasso Visco” 
		si aggiungerebbero altre prese di sangue: Ici e imposte locali più 
		salate, nonché alcune ancora tutte da inventare. Ove si fosse completata 
		la fase di transizione relativa all’applicazione del Titolo V della 
		Costituzione (approvato frettolosamente dal centrosinistra nell’ultimo 
		scorcio della XIII Legislatura), le spese degli enti locali (stipendi, 
		prestazioni sociali e contributi a investimenti privati) sarebbero pari 
		al 21 per cento del pil (quasi il 45 per cento della spesa pubblica 
		complessiva), mentre le risorse tributarie delle amministrazioni 
		interessate sarebbero pari al 17-18 per cento del pil. Il difetto sta, 
		quindi, nel manico: il federalismo demagogico con cui Prodi pensava di 
		vincere le elezioni del 2001. Nel medio e lungo periodo, non c’è 
		alternativa ad una nuova revisione della Costituzione per contenere i 
		danni allora fatti.
 Nel frattempo, però, 
		anche senza intaccare gli organici (ed il personale a collaborazione), 
		si possono fare economie ed evitare di spremere ulteriormente gli 
		italiani. Adesso gli enti locali fanno ricorso all’e-procurement per 
		meno del 25 per cento degli acquisti di beni e servizi; con poca 
		concorrenza tra fornitori, comprano a prezzi più alti del dovuto. 
		Inoltre, comuni, province ed altre autonomie dispongono di un vasto 
		capitale in immobili di pregio ed in partecipazioni alle municipalizzate 
		(stimate in € 5-6 miliardi). I documenti più recenti sulle 
		privatizzazioni e liberalizzazioni in Italia (da quelli del gruppo di 
		ricerca Astrid, animato da Franco Bassanini a quelli di Società Libera e 
		dell’Istituto Bruno Leoni) documentano che gli enti locali sono stati i 
		grandi assenti dal percorso in atto dalla metà degli anni Novanta. Non 
		che si possa fare in un anno ciò che non si è fatto in dieci; tuttavia, 
		si potrebbe avviare un buon inizio. Milano ha dato l’esempio vendendo 
		Metroweb. Sta alle altre città grandi e piccole (Roma in primo luogo) 
		mostrare di non essere da meno.Altro comparto sono i trasporti pubblici, i cui sussidi sono molto più 
		alti della media europea; con un programma di aumenti programmati (e 
		tariffe speciali per le fasce di reddito più basso) si ridurrebbero i 
		disavanzi, spesso abissali. Economie potrebbero risultare anche da un 
		miglior coordinamento: ad esempio, in Umbria (una regione di 800.000 
		abitanti) a fine estate erano in corso una mezza dozzina di festival di 
		musica classica. Un’altra area sono le relazioni internazionali dove 
		spesso le autonomie si sono mosse senza sapere l’una cosa faceva 
		l’altra; ad esempio, due regioni hanno contemporaneamente proposto alla 
		stessa città del Kosovo di costruire (e donare) ciascuna un ospedale con 
		identica capacità di posti letto. La stangata è evitabile. Se la carenza 
		di risorse acuisce la fantasia nella direzione giusta. Occorre, però 
		guardare anche e soprattutto a riforme strutturali del modo di fare 
		politica di finanza pubblica. Interessante il caso dell’Austria, 
		caratterizzato da un bipolarismo imperfetto di coalizioni litigiose dove 
		negli ultimi anni oltre a ridurre disavanzi e debito pubblico si sono 
		realizzate riforme di questo tipo: l’imposta sugli utili netti delle Spa 
		portata dal 34 al 25 per cento e soprattutto la possibilità di 
		contabilizzare le perdite delle sussidiarie all’estero; drastica 
		riduzione delle aliquote sui redditi di lavoro (ora il 40 per cento dei 
		dipendenti non paga imposte sul reddito); riassetto del sistema 
		previdenziale (con l’abolizione delle pensioni di anzianità. Adesso 
		l’Austria cresce a tassi annui tra il 2 ed il 3 per cento (tra i più 
		elevati nell’area dell’euro) ed ha un tasso di disoccupazione del 5 per 
		cento.
 
		Il modello austriaco
 La chiave di volta è stato 
		il metodo per riformulare il bilancio dello Stato. Le caratteristiche 
		essenziali sono due: bilanci pluriennali (4 anni); riclassificazione 
		delle poste di spesa. La prima è prevista dalla normativa italiana ma 
		disattesa: il bilancio triennale presentato con la Finanziaria è 
		diventato una formula di stile in quanto il dibattito nel governo, e tra 
		governo e Parlamento, si concentra unicamente sul primo dei tre anni. La 
		seconda consiste nel classificare le voci in grandi aggregati, più 
		importanti (ai fini sia della comunicazione sia delle scelte politiche) 
		dei due tradizionali – di parte corrente ed in conto capitale: a) le 
		spese per il passato (ad esempio, interessi sul debito, pensioni), b) le 
		spese per l’esistente (stipendi e acquisti di beni e servizi per la 
		pubblica amministrazione); c) le spese per il futuro (infrastrutture, 
		istruzione, ricerca). Il programma contiene obiettivi annuali sia per 
		restare nei vincoli europei sia soprattutto per aumentare c), contenendo 
		invece a) e b). Qualsiasi emendamento alla Finanziaria viene 
		immediatamente quantizzato (l’informatica lo rende facilissimo) in 
		termini di implicazioni sulle tre grandi categorie, in modo tale che chi 
		vuole privilegiare l’esistente od il passato (rispetto al futuro) se ne 
		assume, in piena trasparenza, la responsabilità, in seno al governo, in 
		Parlamento e di fronte all’opinione pubblica. I risultati? La 
		proporzione (sul totale) delle spese per il passato è diminuita non solo 
		grazie ai bassi tassi di interesse (frutto dei mercati più che di scelte 
		pubbliche), ma anche ad una drastica riforma delle pensioni (chi si 
		opponeva veniva indicato come “anti-futuro”). Pure le spese per 
		l’esistente sono state contenute: ora meno della metà dei dipendenti 
		pubblici sono “funzionari” con contratti sino alla pensione con 
		conseguente flessibilità. Sono aumentate, invece, quelle per “il 
		futuro”, soprattutto infrastrutture e ricerca. Se Prodi queste cose non 
		le sa, si può informare dati i suoi frequenti contatti con Karl Krammer, 
		portavoce del Cancelliere austriaco (quando i socialdemocratici erano al 
		governo) e in tempi più recenti anche dirigente di Telecom Italia a 
		Vienna prima di creare una Spa di consulenza economica e politica che fa 
		da cerniera tra le socialdemocrazie europee.
 
		14 novembre 2006
 
 Giuseppe Pennisi, responsabile dell’area economia del 
		settore pubblico alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione
 
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