| 
      
      Grandi opere: un metodo nuovodi Giuseppe Pennisi
 
 All’inizio del terzo millennio le infrastrutture ed il loro 
		potenziamento sono, ancora una volta, al centro del dibattito italiano 
		ed europeo. Lo erano già state circa dieci anni fa quando l’Unione 
		europea (Ue), allora ancora chiamata Comunità europee (al plurale, al 
		fine di distinguere le differenti Comunità che ancora albergavano 
		nell’area di quella che stava diventando l’Ue), si accingeva a dare vita 
		all’euro. Dalla fine degli anni Ottanta, nei paesi Ocse in generale e 
		soprattutto in Europa, l’andamento economico sfiorava la stagnazione; il 
		costo dell’unificazione tedesca, e del supporto ai paesi in transizione 
		dal piano al mercato nell’Europa centrale ed orientale, minacciava di 
		farla scivolare in recessione; i tassi di disoccupazione erano elevati 
		ed in aumento. Un’Europa senza crescita sarebbe stato il contesto meno 
		proficuo per il complicato percorso delineato a Maastricht per 
		sostituire le monete nazionali con l’euro e dare corpo all’unione 
		monetaria. In questo contesto, la Commissione presieduta da Jacques 
		Delors presentò un Libro Bianco su “crescita, competitività ed 
		occupazione” che poneva l’accento tra l’altro su un vasto programma di 
		reti transeuropee (in gergo giornalistico, Trans European Network, o, in 
		sigla, Ten). L’enfasi era sul breve e medio periodo: la spesa per 
		infrastrutture veniva giustificata principalmente in quanto leva per 
		utilizzare capacità e produttività solo parzialmente impiegata, 
		piuttosto che per accrescere lo stock di capitale e, quindi, la 
		produttività e la competitività generale del sistema.
 
 Il programma sembrava fosse rimasto sulla carta; in effetti, la 
		laboriosa attività di progettazione, soprattutto tecnico-ingegneristica 
		(ma pure di analisi economica), è proseguita nel corso degli ultimi 
		dieci anni. Nel marzo 2000, al Consiglio europeo di Lisbona, l’idea è 
		stata rilanciata con una strategia basata, piuttosto che su 
		infrastrutture fisiche, su un drastico ammodernamento tecnologico, 
		segnatamente tramite la tecnologia dell’informazione e della 
		comunicazione; la strategia avrebbe dovuto rendere, nell’arco di dieci 
		anni, l’Europa l’area più competitiva della comunità internazionale. 
		Queste idee sono state riprese, aggiornate ed affinate nell’“Azione 
		europea per la crescita” presentata dall’Italia durante il semestre 
		luglio-dicembre 2003 in cui Roma ha avuto la responsabilità di 
		presiedere gli organi di governo dell’Ue; esse sono state prontamente 
		recepite in un documento analogo della Commissione europea. Tanto il 
		documento dell’Italia quanto quello della Commissione interpretano i 
		programmi di rilancio economico articolati sulle infrastrutture non solo 
		come strategie di breve periodo, per attivare capacità produttiva 
		parzialmente utilizzata, ma anche e soprattutto come veicolo per aumento 
		dello stock di capitale e, quindi, per il miglioramento della 
		produttività e della competitività di sistema.
 
 Negli ultimi mesi del 2003, tra la Commissione, da un lato, ed i paesi 
		dell’Ue, dall’altro (nonché in seno ai principali Paesi dell’Eu) ci sono 
		stati contrasti anche vivaci su quali reti (o Ten) dovessero essere 
		considerate prioritarie oppure giudicate preparate più compiutamente e 
		dovessero, quindi, essere attuate prima delle altre. Il Documento per la 
		programmazione economica e finanziaria 2004-2007 sottolinea come due 
		“corridoi”, il n. 5 ed il n. 8, abbiamo grandeinteresse diretto per 
		l’Italia anche in quanto attraversano il territorio nazionale. Lo ha 
		anche il corridoio n. 10 con le sue connessioni ai corridoi n. 5 e n. 8. 
		In questa sezione, non entriamo deliberatamente sulla maggiore o minore 
		importanza (sotto il profilo economico) di questo o quel “corridoio 
		europeo” o di questo o quello spezzone o tratto di corridoio. Cerchiamo, 
		invece, di affrontare temi di più vasto spessore e di più lungo periodo 
		quali il ruolo della finanza di progetto (nell’articolo di Scandizzo) 
		per convogliare capitale privato verso le infrastrutture europee ed 
		italiane, la funzione del sistema bancario nella promozione degli 
		investimenti in infrastrutture (in quello di Pedone), la crescente 
		importanza delle regioni e degli altri enti locali (in quello di Maiolo 
		e Tria).
 
 In questa nota introduttiva, ci si rivolge nel dettaglio a quattro 
		argomenti raramente trattati esplicitamente nel dibattito sulle 
		infrastrutture in Italia ed in Europa ma tuttavia sottostanti gran parte 
		delle discussioni: • Quali sono le caratteristiche dei programmi di 
		infrastruttura nell’Europa e nell’Italia in questo primo scorcio di 
		secolo ventunesimo ed in che modo si differenziano da quelle, ad 
		esempio, dei programmi del secolo scorso. • La complementarità tra 
		infrastrutture che possiamo chiamare “old” (quelle in calcestruzzo, 
		mattoni o rotaie) e quelle che possiamo chiamare “new” (quali la 
		tecnologia dell’informazione e della comunicazione in generale e le 
		autostrade dell’informazione in particolare). • Quale è il livello di 
		governo al quale è preferibile prendere decisioni in merito al 
		finanziamento delle infrastrutture (le istituzioni dell’Ue, le 
		istituzioni statuali nazionali, le istituzioni regionali e locali). • 
		Come valutare infrastrutture che combinano “old” e “new economy”, 
		utilizzano investimenti pregressi e hanno lunghi periodi di gestazione.
 
 Le infrastrutture nel Ventunesimo secolo
 
 In primo luogo, nei paesi industriali a reddito medio-alto ed elevato, 
		le infrastrutture del secolo che sta iniziando hanno caratteristiche 
		molto differenti da quelle delle infrastrutture realizzate nel 
		diciannovesimo e nel ventesimo secolo. Lo sottolineava già circa dodici 
		anni fa, Alice Rivlin a lungo alla guida del Congressional Budget Office 
		degli Stati Uniti: la spesa pubblica in conto capitale, e la spesa 
		privata ad essa associata, riguardano sempre meno la realizzazione di 
		nuove infrastrutture (aprire strade o ferrovie, costruire centrali 
		elettriche) con forti esternalità ed interdipendenze per le attività 
		produttive (e, quindi, con rientri poco differiti nel tempo) e sempre 
		più la manutenzione straordinaria e l’ammodernamento del parco di 
		infrastrutture esistenti, oppure il collegamento e l’innalzamento degli 
		standard per “spezzoni” o tratti di infrastrutture costruite in un arco 
		di diversi decenni e secondo standard tecnici ed economici molto 
		differenti, oppure ancora investimenti per la qualità della vita 
		(ripristino ambientale, sanità, risorse umane).
 
 Le Ten costituiscono un grande schema di ammodernamento e di 
		miglioramento di infrastrutture in gran parte esistenti in quanto 
		attuate nel corso degli ultimi due secoli, se non anche prima. A metà 
		del diciannovesimo secolo, in parallelo con i primi programmi di 
		infrastrutturazione (principalmente per i trasporti) in Francia, gli 
		ingegneri-economisti della “grande école” di Ponts et Chaussées, come 
		Jules Dupuit, cominciarono a riflettere su questi temi impostando le 
		basi dell’analisi economica dell’investimento pubblico quale ancora, in 
		linea di massima, seguita in gran parte dei paesi industriali e 
		rivisitata nei suoi aspetti di fondo solo circa trent’anni fa.
 
 Ciò comporta difficoltà sia concettuali sia tecniche. Da un lato, sotto 
		il profilo concettuale, diventa più difficile delimitare l’ambito stesso 
		del progetto quale formazione di capitale fisico ed intervento di 
		politica economica di quanto non fosse quando si era alle prese con 
		infrastrutture del tutto o principalmente nuove: si pensi, ad esempio, 
		ad investimenti per il miglioramento idrogeologico-ambientale in Italia 
		centrale necessariamente imperniati sul Canale emiliano-romagnolo (che 
		risale, in varia misura, all’epoca napoleonica) oppure 
		all’ammodernamento del corridoio tirreno-adriatico che non può 
		prescindere dalla via Flaminia e dal Passo del Furlo aperti in epoca 
		romana. Sotto il profilo tecnico-contabile ciò implica ripensare le 
		convenzioni e le prassi a proposito del trattamento dei costi pregressi 
		(“costi accantonati” nel linguaggio tecnico); tali costi diventano parte 
		essenziale del disegno progettuale e, quindi, se ne deve tenere, in modo 
		appropriato, conto nel calcolo economico. Esempi analoghi si possono 
		fare per tutte le Ten, e per tutti i “corridoi” dell’iniziativa per la 
		crescita, italiana ed europea, articolata sulle infrastrutture.
 
 “Old” e “new economy” nelle infrastrutture europee
 
 Nei dibattiti europei sulle Ten, e negli stessi comunicati dei Consigli 
		dei capi di Stato e di governo dell’Ue in materia, appaiono impostazioni 
		concettuali differenti od anche divergenti (in seno all’Ue) su cosa 
		debba intendersi per “reti” e sulle strategie e misure specifiche in via 
		di formulazione ed attuazione in materia Ten. Ad esempio, al Consiglio 
		europeo tenuto a Bruxelles a metà ottobre 2003, e dedicato in gran 
		misura ai programmi per le infrastrutture, è apparso chiaro che per 
		“reti” i paesi latini intendono principalmente calcestruzzo e ferro 
		(autostrade, porti, ferrovie), mentre i paesi dell’Europa del Nord 
		(guidati da Berlino, ma con il supporto vagamente celato di Parigi) 
		puntano sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (banda 
		larga, digitale terrestre, e simili). Sono differenze concettuali, non 
		solo di enfasi su cosa debbano essere le “reti” del 21simo secolo. Senza 
		dubbio, è possibile, anzi essenziale, coniugare calcestruzzo e ferro con 
		high tech. Ma il divario concettuale persiste per ragioni sia di diverso 
		grado di sviluppo delle infrastrutture fisiche (in generale, i Paesi 
		latini ne sono meno dotati di quelli del Nord Europa), sia di differente 
		struttura dei settori produttivi (nei paesi latini, le costruzioni e 
		l’industria pesante hanno un ruolo maggiore, nella struttura della 
		produzione, di quanto hanno nei paesi nordici), sia di radicate 
		tradizioni culturali, su cosa debba intendersi per infrastruttura (la 
		determinante più forte). È sintomatica, ad esempio, la poca attenzione 
		relativa che pure in Italia ha avuto il Wsis (World Summit on the 
		Information Society, Vertice mondiale sulla Società dell’Informazione) 
		tenuto a Ginevra all’inizio di dicembre.
 
 In effetti, da un lato le autostrade dell’informazione, per fare un 
		esempio, e le autostrade in asfalto sono sempre più complementari (si 
		pensi ai telepass ed ai sistemi di pilotaggio satellitare). Da un altro, 
		le infrastrutture, anche ventunesimo secolo saranno sempre di più una 
		combinazione di “old” e “new economy”; ciò avviene, negli Usa, già in un 
		comparto che pure oltreatlantico rappresenta per molti aspetti il 
		“vecchio” del “vecchio” (nell’infrastrutturale): il trasporto merci 
		tramite camion, anche nel ramo dove predominano i cosiddetti 
		“padroncini”. Ciò vuole dire, però, nuove sfide nell’allestire e nel 
		valutare i programmi di infrastrutture.
 
 I livelli di governo per le decisioni sulle 
		infrastrutture
 
 Sino ad un paio di secoli fa, l’intervento pubblico per le 
		infrastrutture riguardava principalmente quelle con finalità militari 
		(le vie consolari romane) o di ordine pubblico (gli sventramenti di 
		Parigi e di Madrid nel diciannovesimo secolo) oppure la ricostruzione di 
		centri urbani dopo calamità naturali come i terremoti (quali quelle di 
		Lisbona o di Catania nel diciottesimo secolo). Gli obiettivi erano 
		chiari e semplici; e tali erano anche i pertinenti criteri di 
		valutazione, nonché le sedi delle decisioni su cosa finanziare e cosa 
		non finanziare. Gran parte del parco infrastrutturale veniva, tuttavia, 
		concepito e realizzato da privati che facevano ricorso a quelle che oggi 
		si chiamano tecniche di finanza di progetto (pagamento di pedaggi, 
		finanziamento su prestiti obbligazionari o tramite ricorso al credito 
		bancario).
 
 A partire dal diciannovesimo secolo, con la crescente consapevolezza di 
		esternalità ed interdipendenze delle infrastrutture, nonché dei vincoli 
		tecnico-finanziari alla loro realizzazione da parte di privati, 
		l’intervento dello Stato in materia di quelle che venivano chiamate 
		“opere pubbliche” si è fatto sempre più diffuso ed incisivo. Si è 
		verificata una progressiva discrasia, però, tra meccanismi decisionali 
		(spesso altamente centralizzati), da un lato, e metodi e tecniche di 
		analisi che richiedendo una vastissima gamma di informazioni tecniche, 
		economiche, finanziarie, istituzionali, domandano, invece, livelli 
		decisionali molto vicini a coloro che concepiscono e realizzano i 
		progetti (i soli in grado di possedere le informazioni necessarie e di 
		padroneggiarle). Lo sottolineava, nella metà del diciannovesimo secolo, 
		proprio Jules Dupuit nel saggio citato; lo hanno ribadito coloro che 
		circa trent’anni orsono hanno rivisitato, in modo fondamentale, i metodi 
		e le tecniche di analisi per l’allestimento e la valutazione degli 
		investimenti pubblici; lo si riafferma ancora nei testi più utilizzati 
		in Italia negli anni Ottanta e Novanta su questi argomenti.
 
 Tuttavia, anche nel nostro paese, sino a tempi recenti il meccanismo di 
		decisione e di allocazione delle risorse per infrastrutture è rimasto 
		molto accentrato; anzi, nella prima esperienza di introduzione 
		sistematica di tecniche di analisi basate sul calcolo economico, quello 
		che più ha fatto difetto è stato il meccanismo centrale di allocazione. 
		Il problema non riguarda solo l’ammontare e lo spessore delle 
		informazioni da padroneggiare (ostacolo che può essere alleviato grazie 
		alla capacità della tecnologia dell’informazione e della comunicazione) 
		ma concerne come e da chi vengono determinati gli obiettivi di politica 
		economica e sociale in base ai quali allestire e valutare le 
		infrastrutture. Le metodologie e le tecniche di analisi, anche quelle 
		sviluppate negli anni Settanta ed Ottanta, soffrono di un doppio 
		problema: da un lato richiedono una specificazione degli obiettivi di 
		politica economica così dettagliata da essere raramente “fattibili” 
		(specialmente se effettuate dal centro); da un altro, se (come spesso 
		avviene) tale specificazione non viene effettuata o viene effettuata in 
		maniera generale ed approssimativa, finiscono con essere poco 
		“credibili”. I tre livelli di decisione ora afferenti alle Ten 
		(comunitario, statale e regionale/locale) rendono ancora più difficile 
		la specificazione di un set unico od univoco di obiettivi e, quindi, la 
		definizione di parametri per l’allestimento e la valutazione dei 
		progetti di infrastruttura. I prezzi o valori “economici” per il calcolo 
		“economico” corrispondono agli obiettivi “economici” (in gergo tecnico 
		economico, ne sono “duali”).
 
 I metodi per la valutazione delle infrastrutture
 
 In un libro appena uscito, e scritto a quattro mani con P. L. Scandizzo, 
		si cerca di uscire da questo ingorgo, prendendo l’avvio dalla 
		constatazione che nel fare analisi economica occorre sì applicare i 
		metodi, le tecniche e le procedure progressivamente affinate nel passato 
		ma soprattutto guardare alla revisione metodologica in atto, soprattutto 
		quando si è alle prese con “grandi reti”. Il concetto di progetto di 
		intervento pubblico in generale e nelle infrastrutture in particolare e, 
		quindi, di metodologia di valutazione, ha subìto un’evoluzione 
		significativa. Negli anni Trenta, è stato, per lo più legato all’idea di 
		formazione di capitale fisico. Dall’inizio degli anni Settanta, grazie 
		all’apporto della manualistica Unido, Ocse e Banca mondiale ricordata in 
		precedenza, si afferma un nuovo concetto di progetto quale strumento di 
		politica economica (che può comprendere anche la formazione di capitale 
		fisico, ma non deve necessariamente includerla), da valutarsi alla luce 
		di una funzione di benessere sociale (ossia degli obiettivi della 
		società quali definiti nei documenti programmatici di governo od 
		ipotizzati dal “valutatore”). Si sta ora sviluppando un concetto ancor 
		più nuovo: l’intervento ed il progetto pubblico vengono visti come 
		“opportunità” di politica economica poiché l’intervento pubblico può 
		creare o distruggere opportunità (in gergo, “opzioni reali”), ossia 
		alternative (cugine, sotto molti aspetti, delle “opzioni” finanziarie di 
		chi opera sui mercati dei titoli derivati).
 
 In un contesto economico sempre più caratterizzato dall’incertezza, ciò 
		consente di tenere conto degli aspetti dinamici dell’incertezza 
		medesima. Ciò rende possibile ricavare una funzione di obiettivi 
		“oggettiva” dalle “opzioni” (di “creazione” e di “distruzione” di 
		opportunità) che l’intervento comporta per gli interessati (in gergo, 
		gli stakeholder) , invece di lasciarla alla visione “soggettiva” del 
		“valutatore”. La metodologia è particolarmente adatta al supporto di 
		decisioni in un quadro istituzionale fortemente marcato da devoluzione. 
		In parallelo con la pubblicazione del volume citato, la Scuola superiore 
		della pubblica amministrazione (Sspa) ha cominciato, con la Banca 
		mondiale, il ministero dell’Economia e Finanze (Mef) e l’Università di 
		Roma “Tor Vergata”, una vasta sperimentazione su progetti concreti; vi 
		stanno aderendo altri ministeri ed alcune regioni. Sono stati iniziati 
		contatti con la Banca europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo e con 
		il Banco interamericano per lo Sviluppo. Il risultato complessivo sarà 
		quello di giungere, con la collaborazione sia delle amministrazioni 
		italiane sia delle maggiori istituzioni finanziarie internazionali, ad 
		una manualistica il cui impatto e la cui incidenza nella professione si 
		prospetta analogo a quello delle innovazioni effettuate all’inizio degli 
		anni Settanta.
 
 Cosa implica questo per l’analisi economica delle Ten? In primo luogo, 
		c’è un aspetto importante di politica e di democrazia: si pone fine alla 
		figura spuria del “valutatore” (a volte sociologici privi di 
		dimestichezza con tecniche quantitative di analisi) ed alla “arroganza”, 
		spesso opaca, di obiettivi progettuali definiti dal “valutatore” 
		medesimo: gli obiettivi vengono, invece, ricavati dalle “opzioni” 
		(analizzate in modo quantitativo, quindi trasparente) per le principali 
		categorie di “stakeholder”. In secondo luogo, c’è un altro aspetto 
		politico: la valutazione con “opzioni reali” diventa strumento di 
		devoluzione poiché può essere effettuata solamente in una struttura di 
		governo altamente decentrata, non in una in cui un “valutatore” 
		(«apolitique, apatride et irresponsabile», avrebbe detto Charles De 
		Gaulle) siede in un ufficio burocratico. In terzo luogo – ed è questo 
		l’aspetto più rilevante sotto il profilo dell’analisi economica –, il 
		metodo consente di tenere conto, in maniera rigorosa e trasparente, di 
		dimensioni che spesso sfuggono all’analisi quando si è alle prese con 
		interventi di lunga gestazione. Lo si è visto a proposito dell’analisi 
		economica della “rete” Torino-Lione, elemento essenziale del corridoio 
		n. 5; se valutata con le procedure un po’ ammuffite dei servizi della 
		Commissione europea, esponeva indicatori di convenienza economica 
		insoddisfacenti; gli indicatori diventavano invece molto elevati se 
		analizzata con il metodo che tiene conto delle “opzioni” che grazie alle 
		rete si aprono per le maggiori categorie di stakeholder.
 
 16 gennaio 2004
 
 
 |