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        Uno solo è l’esame che contadi Antonio Carioti
 
 Di fronte all’animata vigilia del primo Congresso di An, viene da 
        chiedersi se Gianfranco Fini non abbia, nella primavera scorsa, commesso 
        forse un errore snobbando il duello per il Campidoglio e la sfida per il 
        governo di Roma lanciata da Walter Veltroni. Eppure, la storia remota e 
        recente della destra italiana avrebbe dovuto suggerire al leader di An 
        che si trattava di un’occasione da non perdere, proprio per quella 
        legittimazione definitiva del suo partito cui, giustamente, tanto tiene. 
        Un’occasione forse ancora più determinante dell’incarico da vice-premier 
        o della stessa nomina alla Convenzione europea. Facciamo qualche passo 
        indietro. Giorgio Almirante lo ricordava spesso, nei suoi appassionati e 
        affollati comizi: vedere piazza Colonna riempirsi di militanti missini, 
        due anni e mezzo dopo la morte del duce, gli era sembrato un vero 
        miracolo. Era il 10 ottobre 1947, si teneva la manifestazione di 
        chiusura delle elezioni comunali nella capitale, dopo una campagna che 
        aveva visto le uscite pubbliche della Fiamma sempre disturbate, a volte 
        anche impedite, dall’intervento degli attivisti di sinistra. Anche quel 
        giorno finì a botte, con tafferugli protrattisi a lungo perfino davanti 
        a Montecitorio. Ma poi le urne regalarono al Msi, nato da meno di un 
        anno e ancora molto gracile, un risultato lusinghiero: il 4 per cento e 
        tre consiglieri, determinanti per la successiva elezione del sindaco 
        democristiano Salvatore Rebecchini. Affermandosi a Roma tra mille 
        difficoltà, il partito dei reduci di Salò aveva così conquistato un 
        proprio spazio politico, che poi sarebbe riuscito a presidiare 
        ininterrottamente, tra alti e bassi, per circa mezzo secolo. Fino alla 
        svolta del cosiddetto “sdoganamento”.
 
 Anche per quella operazione, come tutti ricordano, Roma fu assolutamente 
        decisiva. Lo straordinario successo della candidatura a sindaco di Fini 
        e l’emozionante testa a testa con Rutelli, sul finire del ’93, chiusero 
        di fatto l’epoca della preclusione pregiudiziale verso il Msi e 
        fornirono a Berlusconi lo spunto per la mossa politica da cui nacque il 
        primo nucleo della coalizione che oggi governa l’Italia. C’è di più. Se 
        ripercorriamo gli eventi che ci separano dalla vittoria dell’Ulivo del 
        1996, ci accorgiamo che per ben due volte elezioni amministrative 
        incentrate su Roma sono state fondamentali sia per la riscossa del 
        centrodestra, sia per l’affermazione di An come forza di governo. Nel 
        dicembre 1998 il Polo non attraversava un momento felice. Il 
        centrosinistra aveva appena portato a casa l’ingresso dell’Italia 
        nell’Unione monetaria e anche le vicende susseguenti alla caduta di 
        Prodi, con il passaggio di numerosi parlamentari del centrodestra nello 
        schieramento opposto, sembravano confermare la fragilità della 
        coalizione guidata da Berlusconi. Per giunta l’avvento di D’Alema a 
        Palazzo Chigi era letto universalmente come la piena consacrazione dei 
        postcomunisti, traguardo da cui An restava ancora lontana. E l’appello 
        di Francesco Cossiga per l’aggregazione di un centro “distinto e 
        distante” dalla destra non lasciava intendere nulla di buono per Fini e 
        i suoi.
 
 In un clima del genere, la vittoria di Silvano Moffa nella corsa alla 
        presidenza della provincia di Roma, in precedenza guidata dal 
        centrosinistra, fu un autentico raggio di luce in quel buio inverno. Per 
        quanto l’astensionismo massiccio potesse indurre a svalutare il 
        significato della prova, si trattava di un segnale in netta 
        controtendenza, un successo il cui merito andava in larga prevalenza 
        all’impegno della base militante di An. Roma aveva dimostrato che la 
        destra poteva vincere di nuovo. Ancor più significativo, com’è ovvio, fu 
        il voto per la regione Lazio nel 2000. Non è esagerato dire che la 
        disfatta inflitta da Francesco Storace al presidente uscente Badaloni fu 
        determinante per imprimere a quella tornata elettorale un marchio 
        inequivocabile e per indurre D’Alema a gettare la spugna. Il fatto poi 
        che un uomo di aperta provenienza Msi avesse battuto un candidato 
        centrista dimostrava in modo patente che il baluginare della Fiamma non 
        spaventava l’elettorato. Ancora una volta Roma si dimostrava terreno 
        propizio per la lunga marcia di An verso un ruolo da protagonista. Con 
        questi precedenti alle spalle, la battaglia per il Campidoglio dello 
        scorso anno, in un contesto nel quale la vittoria della Casa delle 
        libertà alle politiche appariva quasi una certezza, poteva essere la 
        Waterloo del centrosinistra, un autentico colpo di grazia. Bisognava 
        però che Fini avesse il coraggio di scendere in lizza, mettendosi 
        personalmente in gioco, contro un avversario di alto profilo come 
        Veltroni. Se il leader di An fosse riuscito a superare in campo aperto 
        il segretario uscente dei Ds, il suo prestigio si sarebbe accresciuto a 
        dismisura. Avrebbe vinto in proprio, non all’ombra di Berlusconi. E chi 
        mai avrebbe potuto più assegnare alla destra post-missina un grado di 
        legittimazione inferiore rispetto alla sinistra postcomunista?
 
 Inoltre, da primo cittadino della capitale, Fini avrebbe avuto 
        un’opportunità preziosa per mettere in mostra doti di amministratore e 
        di “uomo del fare”, liberandosi della fastidiosa nomea di politico puro 
        che ancora gli rimane appiccicata addosso. E avrebbe acquisito un ruolo 
        di prima grandezza nel processo di trasferimento di poteri dal centro 
        alle autonomie territoriali, che si sta rivelando uno dei passaggi più 
        delicati di questa fase della vita pubblica italiana. La stessa 
        tessitura di contatti per normalizzare i rapporti con il mondo ebraico, 
        trovandosi ad amministrare la città con la comunità israelitica di 
        maggior rilievo, sarebbe risultata più agevole. Certo, correre per il 
        Campidoglio contro Veltroni avrebbe potuto implicare anche la 
        possibilità di fallire. E a quel punto il presidente di An, sconfitto 
        per la seconda volta nella medesima competizione, rischiava di apparire 
        nella sgradevole figura dell’eterno perdente. Ma la stoffa di un leader 
        si misura soprattutto dalla sua capacità di rischiare, di sottoporsi al 
        giudizio inappellabile dell’elettorato. Nulla giovò di più all’immagine 
        di Craxi della sua dichiarazione che si sarebbe dimesso da capo del 
        governo se gli italiani avessero abrogato per via referendaria il 
        decreto sulla scala mobile.
 
 Queste considerazioni valgono poi particolarmente oggi, in un quadro di 
        democrazia maggioritaria contrassegnato dalla crescente 
        personalizzazione della vita politica. Ed è curioso che il leader di An, 
        partito antesignano nel sostenere il presidenzialismo, si sia comportato 
        invece secondo gli schemi più usuali della prima Repubblica, puntando 
        tutto sul conseguimento di una carica tipica dei governi di coalizione 
        in regime proporzionalistico come la vicepresidenza del Consiglio. 
        Veltroni è stato vice di Prodi, ma era anche responsabile di un settore 
        cruciale come la cultura. Persino in epoca di tardo pentapartito, i capi 
        delle delegazioni socialiste al governo solitamente non si 
        accontentavano della vicepresidenza: Giuliano Amato fu il numero due di 
        Giovanni Goria, ma anche ministro del Tesoro; Claudio Martelli fu il 
        vice di Giulio Andreotti, ma nel contempo ricopriva l’incarico di 
        guardasigilli. Invece Fini, non avendo un proprio campo d’azione 
        definito, viene inevitabilmente offuscato dalla straripante personalità 
        di Berlusconi: più o meno è nella condizione in cui si trovava Sergio 
        Mattarella (chi se lo ricorda più?) nei confronti di D’Alema.
 
 I risultati sono davanti agli occhi di tutti. La presenza di An 
        nell’esecutivo appare un po’ sbiadita, al di là dell’operato e dei 
        risultati politici dei singoli ministri. E’ paradossalmente più visibile 
        la Lega, malgrado abbia circa un terzo dei voti raccolti da An, perché 
        Bossi, con l’audacia corsara che lo contraddistingue, ha piazzato i suoi 
        uomini sui fronti caldi dove la linea del governo incontra resistenze 
        più aspre: lavoro e giustizia. Forse la situazione potrebbe mutare se 
        Fini riuscisse ad approdare alla Farnesina, il che però non sembra 
        dietro l’angolo. Quanto alla nomina nella Convenzione europea per le 
        riforme istituzionali, implica soprattutto un lavoro di approfondimento 
        e mediazione, più da studioso o da diplomatico che da politico. 
        D’altronde qui affiora un’altra questione spinosa. Fini non potrebbe 
        assumere una responsabilità operativa di governo adeguata al peso di An, 
        così come non avrebbe potuto fare il sindaco di Roma, senza lasciare la 
        guida del partito, o quanto meno nominare un reggente dotato di poteri 
        effettivi: eventualità rispetto alle quali si mostra assai 
        recalcitrante. Siamo insomma di fronte a una doppia difficoltà che ha 
        forse generato un circolo vizioso. Fini ha dovuto rinunciare a cercare 
        un’investitura popolare forte a Roma per puntare le sue carte sul 
        governo nazionale, dove la partita si presentava più facile e più 
        importante dal punto di vista della visibilità. Ma poi, la volontà di 
        rimanere anche formalmente a capo di An lo ha trattenuto dal rivendicare 
        un ministero chiave. Ne è conseguita una condizione di scarsa 
        incisività, probabilmente non estranea alle recenti flessioni elettorali 
        subite dalla destra nel Mezzogiorno.
 
 Difficile pensare che questa fase di difficoltà possa essere superata 
        solo con ulteriori passi verso un’omologazione in senso moderato. 
        Cancellare dal simbolo la Fiamma e il riferimento al Msi, per poi 
        aderire al Partito popolare europeo, significa spingersi lungo una china 
        al termine della quale nulla distinguerà più An da Forza Italia: tanto 
        varrebbe progettare apertamente la fusione. Ma così si rischia di 
        lasciare scoperto a destra uno spazio sempre più ampio, senza 
        conquistare ulteriori consensi al centro. L’esperienza rovinosa 
        dell’alleanza con Mario Segni alle europee dovrebbe aver insegnato ad An 
        che non le conviene affatto scolorire ancora un’identità già molto 
        impallidita. Fini ha ragione nel cercare di caratterizzare il suo 
        partito come “destra di governo”. Ma il modo migliore per farlo è, 
        appunto, misurarsi concretamente nella gestione della cosa pubblica, 
        anche partendo da un mondo delle autonomie locali che è destinato a 
        contare sempre di più. Non si diventa credibili come governanti 
        spegnendo la Fiamma o rimangiandosi gli elogi tributati al duce. Forse 
        non basterebbe neppure abiurare l’eredità di Almirante. Quando si 
        scontano fallimenti di portata epocale come quelli dei totalitarismi 
        novecenteschi – lo sanno bene i Ds – sul piano ideologico gli esami non 
        finiscono mai. Ma alla fine, l’unico esame realmente risolutivo, in 
        politica, è quello che si sostiene davanti agli elettori. Sottrarvisi 
        per troppa cautela non è una dimostrazione di saggezza né di 
        lungimiranza.
 
 4 aprile 2002
 
 (da Ideazione 2-2002, marzo-aprile)
 
 
 
 
 
 
 
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