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        La destra e l’anomalia italianaforum con A. James Gregor, Pasquale Serra, Dino 
        Cofrancesco, Roger Griffin a cura di Riccardo Paradisi
 
 Il percorso che la destra democratica italiana ha intrapreso dal 
        congresso di Fiuggi del 1995 – da quando cioè dalle ceneri del Msi è 
        nata Alleanza nazionale – è ancora in corso. Si tratta di un fenomeno 
        che, per le sue importanti implicazioni politiche – An è un partito di 
        governo, i suoi uomini siedono ai vertici delle istituzioni e governano 
        in importanti realtà comunali e regionali – ha cominciato a destare un 
        interesse non superficiale tra i politologi e gli studiosi. L’inclusione 
        di quello che Piero Ignazi aveva definito il “polo escluso” ha rimesso 
        in moto un ambito di ricerca che oltre a poter contribuire all’analisi 
        del presente della destra italiana, potrebbe offrire spunti circa le 
        ipotesi del suo futuro. Sarà quello di Fini un partito 
        liberal-conservatore o un movimento di destra cattolico-sociale? An 
        entrerà nel Partito popolare europeo? Manterrà la sua autonomia oppure 
        deciderà di confluire in una più vasta aggregazione di centro-destra? 
        Quale di queste prospettive dovrebbe essere la più coerente, quella più 
        utile al Paese, quella più conseguente alla tradizione storica, quella 
        più conveniente al successo politico? In questo forum ne abbiamo parlato 
        con quattro studiosi che da anni analizzano le dinamiche e la cultura 
        della destra italiana: A. James Gregor, docente di Scienza della 
        politica all’Università di Berkeley; Pasquale Serra, storico del 
        pensiero politico e ricercatore al Centro per la Riforma dello Stato; 
        Dino Cofrancesco ordinario di Storia del pensiero politico 
        all’Università di Genova; Roger Griffin, professore di Storia moderna 
        dell’Università di Oxford.
 
 Domanda – Partiamo da un paradosso: nel ’900 italiano non è esistita una 
        forza politica dichiaratamente di destra. La “destra storica” – al di là 
        della formula – ha germinato la sinistra radicale e il liberalismo 
        laico. Quanto al fascismo si percepiva come movimento con origini 
        rivoluzionarie e di sinistra e al limite come esperienza di superamento 
        delle categorie di destra e sinistra. Non si è mai definita di destra la 
        Dc. Con la nascita di An può dirsi superata l’anomalia italiana di una 
        destra latitante o se vogliamo dispersa?
 
 Gregor – A mio giudizio non è la storia la guida migliore per orientarsi 
        nella politica italiana anche perché chi cerca nella storia nazionale 
        dell’Italia può trovarvi davvero ciò che vuole. Giovanni Gentile per 
        esempio ha trovato due anime nel Risorgimento, una delle quali, quella 
        nazionalista, eroica, e tragica, si sarebbe incarnata nel fascismo. 
        Norberto Bobbio invece ha identificato due Italie: una sofisticata, 
        laica e politicamente liberale e l’altra retrograda e pervasa dal 
        familismo amorale. Credo che Giuseppe Prezzolini sia stato più corretto 
        sostenendo, invece, come in Italia sia sempre esistita una corrente 
        sotterranea di conservatorismo emerso in diversi momenti in forme 
        diverse. In circostanze estreme questa corrente si è potuta manifestare 
        anche in forme radicali, come nel caso dell’estrema destra. Mi sembra, 
        però, che Gianfranco Fini abbia cercato di fare di An lo strumento 
        politico moderno del conservatorismo descritto da Prezzolini: 
        pragmatico, riformista, politicamente realista, rispettoso della memoria 
        storica, incline ai valori tradizionali, attento alla giustizia e 
        all’equità.
 
 Tutto ciò passa per la rinuncia alle velleità di ogni genere di utopia o 
        di radicalismo. E questo dimostra che Alleanza nazionale ha assunto una 
        chiara posizione politica che non ha nulla a che fare col fascismo 
        storico. Il quale d’altra parte deve ormai essere riconosciuto e 
        studiato come una manifestazione storica e non attraverso un approccio 
        demonologico e strumentale. Se il nodo del problema è capire che cosa 
        sia stato realmente il fascismo e che cosa del fascismo sopravvive nella 
        cultura politica italiana, sono i luoghi della ricerca intellettuale che 
        devono rispondere a una simile domanda. Per quanto riguarda, invece, la 
        dimensione politica oggi nessuno in buona fede può avere problemi a 
        sostenere che An sia una forza di destra che con piena legittimità 
        partecipa al confronto politico nel duro contesto – fatto di così grandi 
        idiosincrasie – dell’Italia democratica di oggi.
 
 Serra – Penso che il problema della destra sia stato riproposto 
        all’attenzione del pubblico intellettuale in maniera fuorviante. Vi 
        accenna la stessa domanda, del resto, quando suggerisce che la sostanza 
        del problema non verte più sui rapporti tra destra e fascismo, anche se 
        io sarei più cauto nel considerare tale rinnegamento del fascismo come 
        una novità o una prerogativa di An, perché lo stesso discorso, forse, 
        potrebbe essere fatto anche per quanto riguarda il Msi o per alcuni 
        settori di esso. Sottolineo questo punto, perché sono convinto che il 
        modo come si configura, nella modernità, il rapporto tra presente e 
        tradizione (un modo, per dirlo in una battuta, che è tutto sbilanciato 
        sul presente e su di noi, su come noi ci prospettiamo il futuro) fa sì 
        che la domanda centrale che dobbiamo porci nell’analisi della destra non 
        è tanto «a quale fonte» questo soggetto si riferisce, quanto, piuttosto, 
        «che cosa vuol dire» quel soggetto politico quando si riferisce a quella 
        fonte. Per la stessa ragione non riesco ad essere d’accordo quando si 
        afferma che nel ’900 italiano non è mai esistita una forza politica 
        dichiaratamente di destra, perché non solo ritengo che possono esistere 
        e darsi destre che non si definiscono tali semplicemente perché il 
        contesto in cui operano sconsiglia l’uso di questa etichetta, ma ritengo 
        anche che esiste una varietà di destre, e che la novità dell’oggi 
        consiste semplicemente in un mutamento radicale della sua forma: dopo il 
        1995 noi siamo passati da una destra che teneva conto del dato di massa 
        della società ad una che, forse, pensa che può finalmente non tenerne 
        più conto, se non nella forma del populismo, di un populismo non più 
        pensato, però, come l’ombra della democrazia, ma come uno strumento da 
        giocare contro di essa.
 
 E vengo al tema del fascismo, che è il versante implicito della domanda, 
        per ribadire, molto brevemente, che l’evoluzione di An, di cui stiamo 
        parlando, non coincide con la fine della questione del fascismo, sia 
        perché non è la destra ma la società, il soggetto o il motore in grado 
        di decidere la chiusura o l’apertura di questo problema, sia perché la 
        storicizzazione del fenomeno fascista, che pure deve esserci, non può 
        spingersi fino al punto di prospettare una sorta di strutturale 
        incomunicabilità fra tempi storici diversi, perché questo vorrebbe dire 
        non solo respingere il fascismo fuori dalla storia, ma decretare la fine 
        di ogni interesse del nostro presente per il fascismo stesso, il che, 
        credo, non è, nel senso che è possibile, invece, che la nostra società, 
        nella sua odierna disperazione, possa approssimarsi alle soglie di esso. 
        Il punto che andrebbe indagato, dunque, non è tanto come la destra si 
        colloca di fronte al fascismo, ma come si colloca, invece, e quali 
        funzioni svolge, rispetto alla odierna crisi della democrazia. E qui la 
        situazione non mi sembra molto incoraggiante: perché vi è da un lato una 
        sinistra che continua a sradicare la società e dall’altro una destra che 
        sta lì ad aspettare gli esiti di questo processo. È esattamente in 
        questa cultura dello stare ad aspettare che io vedo, oggi, il 
        “problema-An” e, insieme, il suo limite.
 
 Cofrancesco – Partirei dalla comparazione col “caso francese”. Che la 
        destra in Francia, a differenza che in Italia, abbia sempre posseduto 
        una sua precisa fisionomia è infatti vero, ma solo a livello culturale. 
        Per quanto riguarda, invece, il sistema politico, la Francia presenta 
        una caratteristica inequivocabile di delegittimazione sostanziale di 
        ogni partito e movimento politico di destra che l’accomuna 
        sostanzialmente all’Italia. Né da loro, né da noi c’è mai stata una vera 
        destra di governo, a meno che nella categoria non si vogliano 
        comprendere le formazioni parlamentari moderate, notabiliari e 
        liberal-conservatrici. Il fatto è che il momento cruciale, nello 
        sviluppo di un sistema politico, che gli studiosi designano come 
        “costruzione della nazione”: la Rivoluzione francese, il Risorgimento 
        italiano, è stato segnato da un’ideologia decisamente progressista 
        (ispirata al momento individualistico e razionalistico dell’illuminismo) 
        in base alla quale era la capacità di innovazione – il mutamento 
        radicale – l’unico parametro di legittimità di un governo e di una 
        classe politica.
 
 Ne è derivato che la legittimità riguardasse quasi esclusivamente il 
        “regime politico” – le istituzioni e i valori etico-politici e 
        costituzionali che ne sono a fondamento – non la “comunità politica” e 
        la sua storica “ragion di Stato”. C’è però una differenza cruciale tra 
        la Francia e l’Italia. Nella prima, in virtù della “costruzione dello 
        Stato”, che ha preceduto di secoli quella della nazione, la comunità 
        politica non è mai stata messa seriamente in discussione; nella seconda, 
        a causa della sovrapposizione delle due fasi (costruzione dello Stato e 
        costruzione della nazione avvenute negli stessi anni), ogni insuccesso 
        del regime politico ha fatto vacillare il senso stesso dell’appartenenza 
        allo Stato nazionale.
 
 Va detto – contrariamente ad una corrente, sia pure ragguardevole, 
        dell’ormai ampia storiografia revisionista – che il fascismo italiano si 
        collocò ontologicamente a destra, non in riferimento ai significati 
        classici della dicotomia destra/sinistra, bensì in riferimento al 
        disegno dichiarato di voler fondare consenso e obbedienza su una 
        legittimità riferita, prevalentemente, alla “comunità politica” e non al 
        “regime politico” (dove trovano posto i conflitti tra conservazione e 
        progresso). La tragedia della dittatura e della sconfitta militare ha 
        però, com’era inevitabile, quasi azzerato lo spazio di una destra che, 
        come quella conservatrice inglese, rappresentasse la continuità della 
        nazione attraverso le generazioni, il senso delle tradizioni, stili di 
        vita e di governo la cui scomparsa sarebbero una perdita netta non solo 
        per gli inglesi ma per l’intero Occidente.
 
 Per quanto riguarda Fini, Alleanza nazionale oggi è politicamente un 
        partito, per tanti aspetti, come gli altri – An ha espresso buoni 
        ministri e sottosegretari – ma culturalmente è rimasto, per così dire, 
        in mezzo al guado. Non a caso molte sezioni del vecchio Msi, dopo 
        Fiuggi, si sono date come nome Giorgio Perlasca, uno straordinario “uomo 
        della strada” ma del tutto estraneo all’arena politica (anche se 
        combattente in Spagna e con tessera del Pnf). Un segno inequivocabile di 
        disagio.
 
 Griffin – Dobbiamo essere cauti di fronte all’idea secondo cui ci 
        sarebbe una via naturale verso un sistema democratico che comprende 
        partiti politici di destra e sinistra distinti, maturi e ideologicamente 
        consistenti. Ogni Stato-nazione europeo ha avuto il suo percorso 
        particolare che ha visto il passaggio da organizzazioni politiche 
        dinastiche a reggimenti politici democratici e ospita una configurazione 
        particolare di forze e partiti di destra alcuni dei quali anche con 
        radici storiche in correnti ideologiche che sarebbero adesso considerate 
        antidemocratiche. La maggior parte dei partiti politici ha, al suo 
        interno, componenti e tendenze conflittuali che potrebbero addirittura 
        accostarsi, nelle ali estreme, a forme di estremismo illiberale o 
        antiparlamentare. Uno studio comparativo dei partiti in paesi differenti 
        come Spagna, Olanda, Austria e America ne darebbe una conferma.
 
 La nozione di un’“anomalia italiana” va dunque trattata con cautela. A 
        mio avviso, date le origini di buona parte dei suoi membri e dei suoi 
        leader, e data l’ideologia del Msi, non si può dire che Fiuggi abbia 
        visto la nascita di una destra democratica italiana se non nel senso 
        della democratizzazione di un preesistente partito neofascista. E 
        questo, almeno all’origine, forse soprattutto per ragioni tattiche e 
        programmatiche (malgrado l’arrivo di alcuni sinceri non fascisti 
        provenienti dalla Dc) funzionali a coprire il vuoto lasciato dal 
        collasso della Dc. Da quel momento Fini ha dovuto fare attenzione a 
        tenere fuori il fascismo (come del resto il post-socialista Blair è 
        stato abile ad emarginare l’ala di socialismo intransigente nel New 
        Labour) ma è significativo che debba la sua credibilità e la sua 
        legittimazione all’alleanza con un partito di destra liberale come Forza 
        Italia di Berlusconi.
 
 Si dovrebbe anche sottolineare che ogni nazione europea è così legata a 
        uno spazio economico politico globale che lo spazio di manovra di 
        qualsiasi partito con aspirazioni rivoluzionarie di rinascita nazionale 
        o di creazione di un’alternativa radicale al moderno Stato-nazione 
        capitalista e parlamentare, è limitato (persino la concezione di Tony 
        Blair di una “terza via” è straordinariamente utopica e non realizzabile 
        in pratica: nessun politico moderno può apportare cambi strutturali in 
        uno Stato che fa parte di una comunità globale di nazioni ed economie 
        senza poi essere ostracizzato da quella stessa comunità e da qui essere 
        destinato al tracollo). Ipotizzare una deriva fascista in qualsiasi 
        nazione europeizzata sarebbe oggi totalmente anacronistico e utopico, 
        così che l’esplicita abiura nelle tesi di Fiuggi è forse segno più di 
        pragmatismo e di buon senso che di una reale mutazione. Tuttavia è 
        quanto di più vicino ci possa essere ad una “Bad Godesberg” della destra 
        italiana: un’abiura, cioè, di quella ideologia rivoluzionaria di 
        palingenesi nazionale che era propria del fascismo.
 
 All’interno di An hanno trovato domicilio tre filoni di pensiero che 
        oggi sono considerati gli elementi costitutivi della destra italiana: il 
        filone liberal-nazionale, quello cattolico-sociale e quello 
        nazional-conservatore. Esiste un denominatore comune tra queste anime? 
        Il dibattito che si è aperto dentro An sull’opportunità di entrare nel 
        Ppe è l’indice che esistono differenti impostazioni. Come spiegare 
        questa situazione?
 
 Gregor – Quando noi parliamo in termini generali di gruppi politici in 
        una società democratica cerchiamo di identificare gli elettori 
        potenziali ai quali un partito politico potrebbe fare appello. Negli 
        stessi Usa, come nel caso dell’Italia, c’è una particolare area di 
        opinione che in generale sostiene la riduzione della pressione fiscale, 
        le virtù civiche del lavoro, della responsabilità e della famiglia, che 
        si oppone alle libertà sessuali, allo spreco dei fondi pubblici e al 
        dilagare del crimine. I conservatori poi, generalmente, coltivano un 
        sentimento di orgoglio nazionale pur essendo lontani dagli estremismi 
        sciovinisti e dalla xenofobia. Negli Usa il movimento conservatore trova 
        espressione nel partito repubblicano e partecipa alle regole della 
        normale alternanza al potere. Io immagino che An esiti ancora a entrare 
        nel contenitore europeo dei conservatori perché un’alleanza 
        comporterebbe delle difficoltà per un partito che è ancora considerato 
        neofascista. Agli occhi di molti europei infatti – inclusi molti 
        italiani – An appare come un partito su cui graverebbe un peso di 
        responsabilità storiche. E non manca chi arriva a considerare An erede 
        di un movimento che si era alleato con la Germania di Hitler. Molti 
        intellettuali di sinistra insistono propagandisticamente su questi 
        aspetti soprattutto dopo il totale collasso del marxismo internazionale. 
        An per il momento non dispone dei mezzi per respingere questo tipo di 
        grossolanità e di generalizzazioni, purtroppo potenti e efficaci perché 
        continuamente e universalmente ripetute.
 
 Serra – Non credo che tra i tre filoni vi sia realmente un denominatore 
        comune (né credo, d’altronde, che i singoli filoni rappresentino 
        realmente qualcosa di più delle elaborazioni di singole personalità), 
        non solo perché non può esistere un denominatore comune senza una 
        sintesi culturale, ma anche perché dalla politica dello stare ad 
        aspettare non è possibile elaborare una cultura intesa come qualcosa di 
        diverso dagli umori della società. Da qui, forse, lo scetticismo e le 
        resistenze di alcuni settori del partito; uno scetticismo, credo, 
        legittimo e giustificabile (e che investe punti essenziali della 
        politica e della antropologia di An), anche se non mi è chiaro né dove 
        va o vuole andare tale resistenza, né il modo come si configura, poi, il 
        rapporto tra resistenza e politica.
 
 Cofrancesco – Debbo essere sincero, non credo che le tre anime, alle 
        quali si fa cenno, siano davvero così distinte e rilevanti; anche se per 
        coloro che partecipano intensamente alla vita di An, si tratta di 
        questioni cruciali. Scommetto che un lettore medio del Secolo d’Italia 
        non se ne sia neppure accorto. Quelle distinzioni diventano qualcosa 
        quando si fondano su simboli, su tradizioni, su “individualità 
        cosmico-storiche”, per dirla col vecchio Hegel, che hanno forgiato 
        l’anima della nazione. Nella ridotta misura in cui anche in Italia hanno 
        avuto qualche significato, si tratta, oltretutto, di filoni assimilati 
        ma in gran parte ideologicamente estranei al fascismo storico. I 
        liberal-nazionali erano, sic et simpliciter, la “destra” del più ampio 
        movimento liberale; i nazional-conservatori costituivano la componente 
        autoritaria e antidemocratica del movimento nazionalista; i 
        social-cattolici rappresentavano quella parte del cattolicesimo 
        militante che, dinanzi alle lacerazioni sociali e culturali indotte 
        dalla modernizzazione, pensavano a una nuova comunità organica – 
        caratterizzata da qualche forma di corporativismo. Il rifiuto di molti 
        quadri e militanti di An di confluire in un grande contenitore europeo 
        alternativo alla sinistra – in cui ciascuno di quei tre filoni, se 
        avessero una reale consistenza, troverebbe il proprio “luogo naturale” – 
        è la dimostrazione dell’accennata difficoltà di raggiungere la sponda 
        occidentale.
 
 Griffin – Il denominatore comune di queste anime è l’anticomunismo, 
        l’avversione all’egualitarismo e l’esaltazione – in spirito, però, 
        radicalmente anti-thatcheriano – del primato della società 
        sull’individuo. L’unione, però, è cementata soprattutto dal pragmatismo: 
        questi filoni sono cioè uniti da ciò che non vogliono piuttosto da ciò 
        che sono. La loro prospettiva è del resto la costruzione di un nuovo 
        partito che traduca in consenso il peso politico acquisito nell’era 
        post-tangentopoli. C’è da dire che la componente che resiste 
        all’associazione o all’assimilazione con il conservatorismo britannico 
        tiene indubbiamente un profilo più ideologicamente coerente rispetto a 
        coloro che invece caldeggiano questa scelta, dato il tipo diverso di 
        destra rappresentata dall’autentica tradizione conservatrice liberale 
        (che nel suo passato e nel suo presente ha anche una componente razzista 
        ed elitaria ma mai fascista). Il punto è che il partito conservatore 
        britannico è più antistatalista di quanto potrà mai essere An, non 
        perché più di destra ma perché esso è, in virtù di un’ormai assimilata 
        tradizione storica, più genuinamente liberale, nell’accezione cavouriana 
        che nel diciannovesimo secolo si è data a questo termine.
 
 In Italia si è ormai consolidato un polo di centro-destra, denominato 
        Casa delle Libertà e composto da Lega, Forza Italia, Ccd e da Alleanza 
        nazionale. Il problema che si sta ponendo però An in questo momento è 
        quale dovrebbe e potrebbe essere l’apporto specifico della destra 
        all’interno della coalizione. Di quali princìpi specifici An potrebbe e 
        dovrebbe farsi portatrice all’interno dell’area del centro-destra 
        italiano?
 
 Serra – Sono convinto che la destra potrebbe fare molto o molto di più: 
        potrebbe, per esempio, porre con forza il tema della nazione e della 
        tradizione nazionale; pensare, poi, all’interno di questo tema il 
        problema del pluralismo e quello dell’eguaglianza sociale, economica, 
        territoriale fuori dalla retorica populistica; potrebbe inoltre mettere 
        al centro il tema della sovranità rispetto ad un mondo sempre più 
        dominato dal disordine; potrebbe anche porre legittimamente il tema 
        dell’autorità o dell’ordine, se solo fosse capace di legarlo 
        integralmente alla tematica dello Stato di diritto, piuttosto che usarlo 
        contro di esso; potrebbe, infine, uscire dalla cultura del rancore e 
        della vendetta, che ancora in essa permane, anche perché con tale 
        cultura non è possibile affrontare nessuno dei temi che ho prima 
        elencato. Potrebbe fare, ma, forse, non riesce a fare: ed è questo il 
        punto che andrebbe spiegato.
 
 Cofrancesco – Per svolgere un ruolo specifico e significativo, An 
        dovrebbe diventare un partito liberal-conservatore nazionale, inteso 
        soprattutto a rifondare (ma in senso decisamente a-fascista se non 
        antifascista) una contestata legittimità comunitaria – l’Italia come 
        comunità di destino innanzitutto! – in un’epoca in cui gli Stati 
        nazionali debbono, da un lato, rinunciare a molte prerogative della 
        vecchia sovranità e, dall’altro, attrezzarsi seriamente al fine di 
        ritagliarsi, nel nuovo ordine sovranazionale europeo e atlantico, uno 
        spazio e un ruolo adeguati. An, in altre parole, dovrebbe essere il 
        partito custode delle idealità risorgimentali e determinato a farle 
        valere in ogni grande occasione della vita nazionale, sia pure 
        reinterpretandole alla luce di nuovi tempi e di nuove esigenze.
 
 Fedeltà al Risorgimento significa farsi carico dei bisogni e delle 
        aspettative di tutta la nazione, nelle sue varie articolazioni 
        orizzontali e verticali (sociologiche e geografiche, tanto per 
        intendersi): ad esempio, mettere da parte il mercato e i suoi imperativi 
        quando sono in gioco i posti di lavoro di migliaia di italiani ma, 
        altresì, intervenire con forza allorché alleati di governo, come la Lega 
        Nord, non sembrano rispettare la bandiera italiana. Va detto che davanti 
        ai vilipendi al tricolore, An si è mostrata piuttosto sobria e 
        pragmatica, non ha difeso Mazzini e Cattaneo e, poi, esaltando i caduti 
        di El Alamein, per bocca del ministro Tremaglia, si è ben guardata dal 
        ricordare che, grazie anche a quella sconfitta, oggi viviamo in una 
        democrazia che, per quanto carente, è saldamente legata all’Europa e 
        all’Occidente.
 
 Griffin – Considero false le premesse di questa domanda perché 
        implicherebbero che An sia oggi un partito con un alto grado di coerenza 
        ideologica e di credenziali democratiche tipiche di una tradizionale 
        formazione liberale. Personalmente, credo in realtà che il ruolo che ora 
        occupa An all’interno della politica italiana sia un esempio 
        notevolmente riuscito di “entrismo”. Nel caso specifico del Msi-An 
        questa strategia ha implicato la tattica di usare una politica 
        democratica e di alleanza con forze genuinamente di destra (ieri i 
        monarchici oggi i cristiano-democratici) come un modo di porre fine 
        all’estrema marginalizzazione del fascismo a cui il Msi aveva dovuto 
        necessariamente resistere sin dalla sua fondazione nel 1946. 
        Appropriandosi del ruolo di forza democratica e postfascista molti 
        elementi in An hanno seriamente cominciato a crederci, sicchè oggi molti 
        sinceri democratici possono trovare rispettabile An.
 
 A proposito di legittimità e presunto passato fascista non sono stati 
        pochi a contestare ad An la frettolosità con cui a Fiuggi è stata 
        archiviata una tradizione politica che aveva strutturato la cultura e la 
        mentalità del Msi. Non ci sarebbe stato, secondo questi critici, un 
        dibattito articolato all’altezza della svolta avvenuta. A Fiuggi – è 
        stato detto – il Msi da partito di ispirazione neofascista è diventato, 
        nel volgere di una notte, un partito postfascista e addirittura 
        antifascista (recuperando Croce, Sturzo, addirittura Gobetti). Alla luce 
        di queste considerazioni, l’evoluzione di An è davvero un dato reale e 
        compiuto? E al di làdelle petizioni di principio come giudicare An alla 
        luce dell’azione politica dispiegata nelle amministrazioni comunali e 
        regionali dove la destra governa?
 
 Gregor – Il congresso di Fiuggi ha reso esplicito quello che ormai nella 
        destra italiana era diventato sempre più evidente lungo il corso degli 
        anni. Ricordo quando, molti anni fa, Giorgio Almirante fu ospite a 
        Berkeley all’istituto di studi internazionali dell’Università della 
        California: in una risposta a una domanda che gli venne rivolta apparve 
        evidente a chi lo ascoltava che i cambiamenti nelle posizioni politiche 
        del Msi non erano né superficiali né occasionali ma già profondi e 
        strutturali. Prima di Fiuggi i corporativisti avevano già preso una 
        posizione indipendente nei confronti del Msi, così come i radicali di 
        destra si erano sentiti gradualmente sempre più estranei a questa realtà 
        e gli evoliani, infine, avevano finito col darsi alle pratiche 
        misteriosofiche e alla contemplazione delle verità trascendenti più che 
        alla politica.
 
 Dall’inizio degli anni Novanta era insomma evidente che il Msi stava 
        sviluppando prospettive nuove. A quel punto la composizione del partito 
        era già cambiata anche attraverso il ricambio generazionale. Fini ha 
        semplicemente preso atto di questa realtà. In ultima analisi quindi, 
        secondo me, questo nuovo corso di Fini non solo è reale ma è anche 
        corretto: An ha definito se stessa come una forza di centro-destra 
        all’interno di un sistema di competizione democratica. Il rischio, 
        naturalmente – come ha rilevato Stenio Solinas alcuni anni fa – è che in 
        questo nuovo corso politico manchino “visioni del mondo” e passioni 
        ideali. Ma in fondo è questo che si richiede a una forza politica di 
        centro-destra o a un partito di destra liberal-conservatrice che si 
        muove all’interno di un sistema politico di democrazia rappresentativa.
 
 Serra – Nel volgere di una notte An non ha archiviato la tradizione 
        politica fascista, ma la tradizione impolitica e la cultura del ghetto 
        che aveva strutturato sin dalle origini l’esperienza del Msi. Secondo 
        me, però, lo ha fatto senza pensarci, perché in quel passaggio ha 
        pensato a tutto la società, la quale nel giro di un paio di mesi ha 
        portato il ghetto al governo, semplicemente cambiandolo di segno. Questo 
        è, secondo me, An: una invenzione della società. Non vi è, dunque, un 
        problema di legittimità, per quanto riguarda An, quanto, piuttosto, un 
        problema di responsabilità, la quale si dà solo fuori dal ghetto, 
        laddove si esce dal recinto del proprio sé e si incomincia a definire un 
        proprio ruolo nazionale. In questo senso, e forse, solo in questo senso, 
        si può dire che l’evoluzione di An non è ancora compiuta.
 
 La cosa, come è ovvio, è penalizzante innanzitutto per la stessa An, la 
        quale rischia di offrire di sé un’immagine sempre più sfuocata, o 
        comunque sempre meno distinguibile da quella dei suoi stessi alleati di 
        governo, i quali non a caso – penso innanzitutto a Forza Italia – stanno 
        erodendo parte dei suoi consensi e dei suoi insediamenti tradizionali al 
        Sud. Su questo punto i malumori e le critiche della cosiddetta destra 
        sociale credo che colgano nel segno. E qui diventa cruciale il problema 
        della revisione culturale, nel senso che se An non riesce a fare nessuna 
        delle cose che elencavo nella risposta precedente, e che sarebbe suo 
        interesse fare, è proprio perché non ha compiuto una vera revisione 
        culturale, una rielaborazione del proprio sé, del proprio rapporto col 
        mondo, con gli altri, con la storia, in assenza della quale è 
        semplicemente il ghetto che va al governo, mentre per pensare fino in 
        fondo nazione e democrazia è esattamente la cultura e l’antropologia del 
        ghetto che occorrerebbe mettere radicalmente in questione.
 
 Cofrancesco – A Fiuggi, il partito avrebbe dovuto, per usare celebri 
        metafore, risollevare la bandiera nazionale caduta nel fango, per colpa 
        del fascismo, del suo attacco alle libertà statutarie, delle sue 
        alleanze, delle sue guerre. Ripeto ancora una volta, avrebbe dovuto 
        giocare la difficile carta di una legittimazione riferita alla “comunità 
        nazionale” (“siamo il partito che ha a cuore gli interessi storici e 
        permanenti della nazione e, proprio per questo, condanniamo il ventennio 
        che li ha compromessi”). In tal modo, non sarebbe stata rinnegata del 
        tutto l’eredità del fascismo (interpretabile, ad esempio, come “risposta 
        sbagliata a problemi drammaticamente reali”) ma, nello stesso tempo, si 
        sarebbe lanciato un segnale inequivocabile di accettazione senza riserve 
        della democrazia liberale.
 
 Griffin - Non sono in condizione di giudicare il comportamento di An nel 
        governo. Non fa parte del resto del mio campo di ricerche. Nel 1995 però 
        ho pubblicato nel Journal of Political ideology un’analisi dettagliata 
        delle tesi di Fiuggi. L’articolo dimostrava che An rappresentava ancora 
        un ibrido di liberalismo di destra (o almeno dichiaratamente 
        anti-socialista), di fascismo storico e di neofascismo (del resto i 
        riferimenti nelle tesi ad alcune figure come Giovanni Gentile, il più 
        importante filosofo del regime fascista, Carl Schmitt e Julius Evola ne 
        sono la dimostrazione). Il risultato sarebbe un “fascismo democratico”; 
        il che è storicamente una contraddizione non meno di quanto lo fosse una 
        volta un marxismo democratico o lo siano stati, sin dal loro primo 
        apparire, un monarchismo e un cattolicesimo democratici.
 
 Questo equivoco tra l’altro non riguarda solo la profonda contraddizione 
        tra il ruolo che An vuol giocare adesso sul palcoscenico parlamentare e 
        le origini del partito che affondano nel Msi; ma implica anche le 
        tensioni irrisolte tra un radicalismo antidemocratico – implicito in una 
        concezione organicistica della nazione italiana come nel bisogno urgente 
        di rigenerazione – e un gradualismo democratico che si limita a 
        contrastare le conseguenze della disgregazione sociale e il tramonto 
        delle identità culturali sotto la spinta di forze come la 
        globalizzazione, il materialismo e il multiculturalismo.
 
 In Italia, periodicamente si torna a parlare di cultura di destra. 
        Prezzolini diceva che le anime della destra sono un’infinità. Tra le 
        tante destre possibili quale, secondo voi, dovrebbe essere il filone 
        culturale più utile allo sviluppo di una destra democratica?
 
 Gregor – Il catalogo dei nomi nella tradizione della destra italiana è 
        noto a ogni studente italiano: per limitarsi ai più rappresentativi, ci 
        sono Machiavelli e Guicciardini, Vilfredo Pareto e Roberto Michels, e 
        poi Prezzolini assieme a tutti gli altri realisti e anti-utopisti della 
        tradizione italiana. Meno chiara è la lista dei portavoce della 
        tradizione idealista che costituisce una forte componente antiscientista 
        (non antiscientifica) della cultura della destra italiana. Comunque, qui 
        dobbiamo sicuramente annoverare almeno Croce e Gentile oltre a Ugo 
        Spirito, la cui rilettura non arrecherebbe nessun danno morale o 
        culturale agli italiani. Comunque, in un paese democratico nessun 
        governo e nessun partito politico possono e devono rappresentare tout 
        court una tradizione culturale. Il movimento delle idee va lasciato agli 
        individui e alle scelte personali.
 
 Serra – Secondo me una cultura di destra, in senso specifico, elaborata, 
        cioè, autonomamente dalla destra, non solo non sembra esprimersi, ma 
        quando essa stava, in qualche modo, prendendo forma (penso ad alcune 
        esperienze legate negli anni Ottanta alla rivista Proposta o allo stesso 
        tentativo di revisione culturale elaborato e sperimentato da Rauti nella 
        seconda metà degli anni Settanta), con l’intento di portare 
        consapevolmente la destra sul terreno della democrazia e su quello, non 
        meno impegnativo, della modernità, è stata anche combattuta dalla 
        teorica dell’immobilismo di Almirante, dalla quale discende questa 
        destra: una destra che quanto più non è in grado di fare i conti fino in 
        fondo col passato tanto più è incapace di farli col presente e, cioè, di 
        proporre una idea complessiva dell’Italia, di definire una politica 
        nazionale.
 
 Questa è la destra reale, una destra che non ha mai fatto i conti con la 
        propria storia e che, proprio per questo, non ha la libertà (la quale si 
        da solo quando si ha certezza di sé e del proprio posto nel mondo), di 
        prendere decisioni difficili, come quelle che prima elencavo, o di 
        assumersi responsabilità e, cioè, di rischiare, di osare, di cambiare. 
        Non è solo questione di potere, che pure c’è, ma qualcosa di più: è 
        questione di cultura, in assenza della quale si può anche stare al 
        governo per vent’anni, ma, per dirla con Gramsci, non si fa epoca.
 
 Cofrancesco – Il revisionismo storiografico alla Renzo De Felice e 
        quello all’Augusto Del Noce offrono solidi materiali intellettuali di 
        riflessione e di rifondazione culturale, ma – a parte Marcello Veneziani 
        e qualcun altro – non se n’è accorto nessuno. Alleanza nazionale, in 
        definitiva, ha senso come torysmo italiano: al di fuori di questa 
        collocazione ideologica non avrebbe, secondo me, alcun avvenire. Il 
        guaio è che, il suo, sarebbe un torysmo senza Disraeli e senza Churchill 
        giacché anche quei pochi simboli che potrebbe trovare nella nostra 
        storia – penso a Sidney Sonnino – non hanno alcuna presa 
        sull’immaginario collettivo. La scommessa è difficile, me ne rendo 
        conto, ma, come dicevano gli antichi: hic Rhodus, hic salta.
 
 Griffin – Non possiamo confondere il tentativo in atto sin dagli anni 
        Settanta di creare in Italia una cultura di destra con la necessità di 
        creare una cultura politica di destra democratica. Il primo – indagato 
        anni fa in un ottimo libro di Furio Jesi che si chiamava appunto Cultura 
        di destra – si è sviluppato come risposta all’eurocomunismo e alla nuova 
        sinistra europea sotto l’influenza, da una parte, della Nouvelle Droite 
        francese e, dall’altra del tentativo – successivo al fallimento 
        nostalgico – di creare una cultura intellettuale appropriata alla realtà 
        degli anni Sessanta e al nuovo ingresso dei giovani sulla scena 
        politica. Un tentativo di colmare un deficit storico della società 
        civile italiana che può essere fatto risalire al Risorgimento quando le 
        forze di destra (la Chiesa e gran parte dell’aristocrazia) erano quasi 
        interamente antidemocratiche. In più, non possiamo dare per scontato il 
        fatto che sia possibile identificare a destra una cultura ideologica 
        utile alla costruzione di una destra democratica.
 
 Questa mi sembra francamente una visione semplicistica di come le 
        tradizioni democratiche autentiche si sono sviluppate nel passato (come 
        se alcune nuove pubblicazioni, libri o congressi possano creare un nuovo 
        tipo di cultura politica, una visione dell’importanza delle idee nel 
        plasmare la realtà sociale che si avvicina più all’utopismo idealista 
        che alla vera tradizione liberale europea). Io penso invece che il 
        fattore più importante per creare una vera cultura democratica in 
        Italia, nel senso più idealistico e umanistico del termine e che 
        abbracci naturalmente i poli della destra e della sinistra, debba essere 
        un processo generale che inserisca la storia italiana contemporanea in 
        un più vasto contesto storico europeo e globale. Per il momento le 
        risposte del grande pubblico ai grandi eventi – come per esempio il G8 
        di Genova, l’immigrazione di massa extracomunitaria, la guerra del 
        Golfo, gli attacchi di Al Quaeda negli Usa o l’emergenza ambientale – 
        sono troppo condizionate dalla miopia, che in inglese viene chiamata 
        ‘brevetempismo’, difetto che il sistema scolare e la cultura media di 
        massa tendono a rafforzare piuttosto che a combattere. Se le reazioni 
        del pubblico fossero invece determinate da una reale comprensione della 
        tragedia umana ed ecologica che si sta producendo a livello globale e 
        dalla necessità di soluzioni sopranazionali – oltre la destra e la 
        sinistra tradizionali – l’Italia sarebbe finalmente in grado di creare 
        una vera destra democratica “sana”, cioè conservatrice di cose che 
        valgono la pena di essere conservate per il bene dell’intera umanità. È 
        una critica che vale per tutte le democrazie occidentali e la Gran 
        Bretagna non è un’eccezione.
 
 4 aprile 2002
 
 (da Ideazione 2-2002, marzo-aprile)
 
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