| 
        
        
        Il welfare state del futurodi Nicola Iannello
 
 Le librerie italiane rigurgitano di libri sulla globalizzazione. Anzi, 
        sarebbe meglio dire di libri contro la globalizzazione. L’uscita di un 
        volume con un approccio positivo verso questo fenomeno va quindi 
        salutata con soddisfazione. In effetti, la globalizzazione è diventata 
        la parola “feticcio” della nostra epoca, capace di suscitare passioni e 
        azioni, anche al di là dell’effettiva comprensione di ciò che sta a 
        indicare. E’ davvero difficile rintracciare una qualche elaborazione 
        concettuale nella composita galassia “no global”, dove vengono 
        riproposti ferri vecchi e ciarpame vario dell’ideologia 
        anti-capitalistica. Il campo che sostiene la globalizzazione ha invece 
        un arsenale perfettamente efficiente di concetti pronti all’uso; 
        l’attuale integrazione planetaria dell’economia grazie a fatti epocali 
        come la fine del blocco comunista, la rivoluzione informatica, il boom 
        delle “tigri asiatiche”, il crollo dei costi di trasporto, è inscritta 
        nel codice genetico del capitalismo: l’economia di mercato è globale per 
        definizione: l’attività del marcante pratese Francesco Datini a cavallo 
        tra ’300 e ’400 (tra Italia, Spagna e Provenza, nei campi 
        dell’industria, del commercio e delle banche) contiene in nuce tutti gli 
        sviluppi successivi dell’iniziativa privata. E un economista brillante e 
        profondo come Frédéric Bastiat aveva già detto tutto quello che si può 
        dire di buono sulla libertà di commercio (e tutto quello che si può dire 
        di male sul protezionismo) un secolo e mezzo fa.
 
 Gli argomenti attuali dei contestatori della globalizzazione sono di una 
        povertà concettuale sconcertante tale da non dover esser presi in 
        considerazione: il capitalismo è sfruttamento, le multinazionali 
        affamano i lavoratori, le transazioni finanziarie impoveriscono i già 
        poveri, etc. Pensare che i bambini pakistani possano giovarsi del 
        boicottaggio contro la Nike o la Coca Cola da parte di loro pasciuti 
        fratelli maggiori occidentali è una di quelle pie illusioni che nutrono 
        la stoltezza delle anime belle. In effetti, accade per la manodopera del 
        terzo e quarto mondo di oggi ciò che accadde per gli operai delle prime 
        fabbriche all’alba della Rivoluzione industriale in Europa: masse rurali 
        disperate e affamate hanno un’occasione per migliorare le loro 
        condizioni di vita.
 
 E proprio queste ricadute sul mondo del lavoro stanno modificando 
        profondamente il quadro politico delle democrazie industriali 
        dell’Occidente. Le differenze sociali anche profonde tra paesi sempre 
        più interconnessi a livello economico pongono in concorrenza le 
        istituzioni politiche; come conseguenza della maggior possibilità di 
        circolazione di idee, capitali, uomini, informazioni, anche i governi 
        entrano nel gioco della competizione. Sotto minaccia di fenomeni come la 
        “delocalizzazione” delle imprese, la politica è chiamata a produrre 
        risposte efficienti pena la perdita di redditi da tassare, attività da 
        regolamentare, individui da governare. Non a caso molti paventano che la 
        globalizzazione pone a repentaglio lo Stato sociale se non la democrazia 
        stessa (il teatrino fatto in Italia sull’articolo 18 dello Statuto dei 
        lavoratori dovrebbe insegnare qualcosa). E la retorica popolustica (vedi 
        Le Pen) mette in un unico calderone, demonizzandoli, globalismo e Unione 
        Europea, senza capire che si tratta di dinamiche profondamente diverse.
 
 Tutto questo, senza dubbio, indebolisce le capacità di intervento della 
        mano pubblica, sia a livello nazionale, sia a livello di “cartelli tra 
        Stati”, come appunto nel caso dell’Ue, fino a imporre un ripensamento 
        del ruolo delle politiche sociali e del lavoro e della politica tout 
        court. Ma a risultare idebolita è in special modo tutta quella struttura 
        corporativa, consociativa e parassitaria che unisce classe politica, 
        burocrazia, sindacati, grande industria assistita. Di fronte a sfide 
        epocali, trincerarsi nella difesa di “diritti acquisiti” magari 
        accusando di “dumping sociale” paesi che cercano di uscire da livelli di 
        vita bassissimi è un atteggiamento conservatore se non reazionario. Al 
        mondo non vi è nulla di “acquisito” una volta per tutte, anzi, l’uomo 
        deve battersi senza interruzione per migliorare la propria condizione. 
        Arroccarsi a difesa dei propri privilegi – politici, professionali, 
        generazionali – di fronte alla sfida della globalizzazione è la peggior 
        risposta che si possa dare ai problemi dell’epoca presente. I “no 
        global” che chiedono la Tobin Tax e il presidente Usa Bush che introduce 
        dazi sull’importazione dell’acciaio percorrono la stessa strada 
        sbagliata; a dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che la logica della 
        globalizzazione è più nei fatti che nelle teste e che il mondo è ben 
        lontano, purtroppo, dall’essere quel mercato globale che tanti 
        denunciano.
 
 25 aprile 2002
 
 n.iannello@tin.it
 |