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        Il secolo antiamericanodi Pino Bongiorno
 
 Da molti il Novecento è stato definito il “secolo americano”. E a 
        ragione, a parer mio. Gli Stati Uniti d’America, infatti, hanno 
        rappresentato nel XX secolo, pur con tutti i limiti e gli errori di 
        un’impresa umana e pertanto imperfetta, il paese che ha salvato il 
        pianeta dagli imperialismi ereditati dall’Ottocento, prima, e dai 
        totalitarismi nazifascista e comunista, poi. Mentre l’Europa imboccava 
        scorciatoie, vagheggiava paradisi socioeconomici, si affidava a vari 
        uomini della provvidenza, gli Stati Uniti hanno tenuto ben ferma la 
        barra su quella “religione della libertà” che dal 1776 orienta la loro 
        convivenza civile, mai allontanandosi dall’idea che la società 
        democratica e aperta è quella che garantisce la maggior quantità di 
        diritti e assicura le forme più tollerabili di vita comune, né da quella 
        secondo cui l’economia di mercato, con tutti gli argini e le protezioni 
        necessari, è la sola in grado di produrre e distribuire benessere sempre 
        crescente e per più individui.
 
 Eppure, nonostante queste credenziali, o forse proprio per queste 
        credenziali, il paese a stelle e strisce si è attirato, durante il 
        “lungo” Novecento, più inimicizie che simpatie, più riserve che 
        attestati di stima, più alleanze di comodo che appoggi convinti. “Siamo 
        tutti americani”, come si sente ripetere ossessivamente dall’11 
        settembre scorso, eppure l’America e gli Americani non ci hanno mai 
        persuasi del tutto. Già all’inizio del secolo, dopo che gli Stati Uniti 
        si sono imposti sia nella guerra ispano-americana del 1898 sia nella 
        prima guerra mondiale, l’homo americanus è considerato negli schifiltosi 
        ambienti europei un barbaro contemporaneo, interessato soltanto alla 
        materia e alle cose, invece che allo spirito e alle idee così amati nel 
        vecchio continente. E anche in seguito, sebbene sembri farsi strada una 
        sorta di “mito americano”, il paese d’oltreoceano è identificato 
        nell’immaginario collettivo con gli elettrodomestici per tutti, la 
        vendita a rate, l’utilitaria, le case riscaldate, la spregiudicatezza 
        femminile, la rozzezza, il chewing gum, il consumismo, ecc. Gli Stati 
        Uniti sono percepiti come la terra dell’uomo comune, 
        dell’uomo-qualunque, dell’uomo senza qualità. Il loro avvento mette 
        fuori gioco quelle aristocrazie dello spirito su cui l’Europa ha 
        costruito le sue fortune, costituisce lo scacco della Kultur e il 
        trionfo dell’uomo-massa, affida al mercato e alla secolarizzazione 
        quelle chiavi, per raggiungere il benessere e per parlare alle 
        coscienze, che fino ad allora hanno gelosamente posseduto Stato e 
        Chiesa, e spesso addirittura Stato e Chiesa insieme. Rappresentano 
        un’anomalia, un paese senza storia che brucia le tappe e si pone, dopo 
        poco più di un secolo di vita, come modello politico, economico e 
        civile. Per tutti questi motivi la loro affermazione è stata vissuta con 
        fastidio, anche quando i loro successi sono stati i nostri, e una 
        malcelata sopportazione ha sempre accompagnato le scelte comuni.
 
 L’Italia, in particolare, non ha mai smesso di provare, durante il suo 
        tormentato Novecento, un viscerale, direi consustanziale, 
        antiamericanismo. Già nel secolo precedente il giudizio sugli Stati 
        Uniti è caratterizzato dalla combinazione “di altezzoso disprezzo e di 
        diffidenza ostile”. Successivamente i gruppi intellettuali fiorentini, 
        che si raccolgono intorno alle riviste “La Voce” e “Leonardo”, danno 
        vesti teoriche a questo rifiuto. Prezzolini e Ojetti criticano la 
        massificazione sociale ed estetica, il pragmatismo e il ‘culto’ 
        tecnologico della società americana, fino a spingersi alla contestazione 
        delle radici politico-filosofiche della modernità tout court. Anche gli 
        emigranti, che pure affluiscono in America in proporzioni da esodo 
        biblico e in un primo momento pensano di essere arrivati nella “terra 
        promessa”, restituiscono l’immagine di un paese xenofobo, in cui il 
        lavoro non manca, ma è dequalificato e sottopagato, e in cui gli 
        italiani trovano posto solo nelle squallide e malsane periferie delle 
        megalopoli industriali, dove nascono innumerevoli little Italy. Negli 
        anni della grande guerra, gli Stati Uniti, consapevoli della diffidenza 
        con cui il mondo italiano guarda al nuovo alleato, organizzano un 
        battage pubblicitario martellante, che ricorre sia ai media del tempo – 
        il cinema, la musica popolare, lo sport, le cartoline, i nastri, i 
        bottoni, gli opuscoli – sia agli aiuti materiali ai nostri soldati, ad 
        opera della Croce Rossa e dell’Ymca (Young men’s christian association). 
        L’impatto della propaganda è forte, al punto che alcuni storici parlano 
        per quegli anni di “scoperta dell’America”, ma di breve durata. La 
        vittoria inizialmente “nazionale”, invece che “alleata”, si trasforma 
        nel giro di qualche mese in “mutilata” e per evidenti responsabilità 
        americane. “La fortuna di Wilson è la cartina di tornasole di questa 
        rapidissima parabola dell’«americanismo» tra guerra e dopoguerra. 
        Straordinario è, dapprima, il consenso intorno al presidente nella 
        società italiana. D’Annunzio scrive nel 1918 l’ode All’America in armi, 
        ma due anni dopo è il critico più aspro e violento del “wilsonismo”. Il 
        suo atteggiamento fa testo. Il ritorno alla diffidenza tradizionale 
        trova conferma nell’espressione più sconcertante dell’isolazionismo per 
        l’osservatore italiano: la legislazione di contenimento 
        dell’emigrazione”.
 
 Gli anni immediatamente successivi alla guerra sono contrassegnati dal 
        desiderio profondo di dimenticare le tragedie e le privazioni belliche; 
        in Italia penetrano musiche e ritmi provenienti d’oltreoceano - come il 
        jazz, il fox trot, il charleston - e si diffondono sempre più modelli e 
        valori provenienti dalla società americana, che rappresentano, come ha 
        scritto R. De Felice, “uno dei maggiori ostacoli alla penetrazione 
        propagandistica del fascismo nelle classi medie italiane perché avevano 
        in qualche modo ‘inquinato’ la loro partecipazione ideologica alle 
        vicende del regime”. L’affermazione di Mussolini riporta 
        l’antiamericanismo sugli scudi. Un antiamericanismo, però, che non si 
        limita soltanto al rifiuto dei quattordici punti wilsoniani o del 
        democraticismo imbelle e pacifista, ma che si spinge, coerentemente con 
        l’ideologia del regime, fino alla messa in mora della civiltà americana 
        nel suo complesso. Essa, infatti, secondo gli esponenti della cultura 
        fascista, non può essere considerata un’alternativa plausibile alla sola 
        forma di civiltà che per l’Europa è concepibile, e che è “fatta di 
        sedimentazioni storiche, di tradizione, di otium come spazio della 
        cultura, di sottigliezze, di buon gusto”. E la crisi del ’29, come 
        scrivono R. Aron e A. Dandieu nel loro Le cancer americain, è 
        l’inevitabile manifestazione patologica di un “organismo artificiale e 
        morboso”, l’estrema conseguenza di un razionalismo degradato a dominio 
        tecnico. Gli anni della seconda guerra mondiale intensificano 
        l’antiamericanismo, con la contrapposizione tra “oro” e “sangue”, 
        “ricco” e “povero”.
 
 “Noi abbiamo preso le armi – scrive un militare in una lettera 
        nell’ottobre del 1942 – per difendere il nostro pane e per assicurare 
        una vita onesta al nostro popolo, mentre il popolo inglese e americano 
        ci combatte per negarci la vita a profitto della sua opulenza. E’ un po’ 
        la lotta del ricco contro il povero”. Arrivano, in seguito, lo sbarco in 
        Sicilia, l’occupazione alleata, la liberazione, il piano Marshall, e gli 
        Stati Uniti guadagnano parecchi punti nella considerazione italiana, sia 
        delle classi dirigenti che dell’opinione pubblica. L’adesione al Patto 
        atlantico, firmato il 4 aprile 1949, e quindi la scelta di stare con le 
        democrazie occidentali contro l’Unione Sovietica e i suoi alleati, 
        costringe il nostro paese all’abbraccio con gli Stati Uniti, cioè a una 
        politica, sia estera che interna, bloccata. Nel mezzo secolo che separa 
        lo storico accordo dalla caduta del muro di Berlino, l’Italia non ha mai 
        fatto mancare il suo appoggio e la sua fedeltà non è mai venuta meno, ma 
        il suo atlantismo è stato sempre poco convinto e alcuni suoi importanti 
        uomini di governo – Gronchi, Fanfani, Moro, Forlani, Andreotti – lo 
        hanno di sovente annacquato, come ha scritto S. Romano, “con una serie 
        di iniziative mediterranee, terzomondiste, filoarabe e filosovietiche”. 
        La “doppiezza” dell’Italia è venuta fuori anche nell’ultimo decennio. E’ 
        stata ancora al fianco degli Stati Uniti nei momenti di grande tensione 
        internazionale –guerra del Golfo, guerra del Kosovo e guerra al 
        terrorismo islamico – ma sempre spaccandosi, facendo sentire forte le 
        proprie voci di dissenso, i propri distinguo, e concedendosi più del 
        dovuto al pacifismo di maniera.
 
 L’antiamericanismo italiano del Novecento, che ho sbrigativamente 
        tratteggiato, si è spesso alternato, o ha condiviso la scena, con una 
        sorta di “mito americano”, senza però che quest’ultimo incidesse mai nel 
        profondo, si radicasse, producesse cambiamenti sensibili di mentalità, 
        in direzione del liberalismo, dell’individualismo, della modernità. 
        L’antiamericanismo, invece, è la categoria con cui è possibile spiegare 
        il nostro paese quasi antropologicamente, certo ideologicamente. E tale 
        spiegazione rimanda alle culture che hanno segnato il Novecento 
        politico, e non solo politico, italiano, cioè cattolicesimo, fascismo e 
        comunismo, diverse in tutto, fuorché nella scelta di un comune “nemico”: 
        l’America.
 
 Antiamericanismo e cattolicesimo
 Il mondo cattolico rifiuta il modello americano, l’American way of life, 
        soprattutto perché è dottrinariamente ostile al capitalismo, che ha 
        trovato nel secolo scorso la sua più compiuta espressione proprio negli 
        Stati Uniti. E’ convinto, infatti, per motivi soteriologici, che la 
        salvezza passi attraverso la povertà, dato che questa soltanto crea le 
        condizioni d’animo ideali per ascoltare la parola di Dio. E perciò 
        “beati pauperes”. Per i ricchi sembra non esserci scampo: o abbandonano 
        tutto quello che hanno, nel senso perlomeno che non ne fanno un uso 
        esclusivo e lo mettono a disposizione dei bisogni degli altri, oppure 
        vanno incontro a una sicura condanna. “E’ più facile che un cammello 
        entri nella cruna di un ago, che un ricco nel regno dei cieli”. 
        Affermazioni del genere, di cui è pieno il Nuovo Testamento, sono 
        riprese e teorizzate filosoficamente da s. Alberto e s. Tommaso, 
        trovando il loro più grande testimone in s. Francesco, il santo dei 
        poveri. L’etica protestante, che ha spinto i coloni americani a cercare 
        nel lavoro le tracce della volontà di Dio, è convinta esattamente del 
        contrario e considera ricchezza e successo come i segni più evidenti del 
        favore divino. Gli eletti accumulano ‘tesori’ già in terra, mentre i 
        dannati vivono di stenti e di rinunce. Alla critica del capitalismo si 
        aggiungano, poi, quelle del liberalismo, del materialismo, della 
        modernità, e il quadro è completo. Mondo cattolico e Stati Uniti 
        d’America, che pure hanno stretto rapporti d’amicizia e di 
        collaborazione in diverse fasi del Novecento, sono sostanzialmente 
        estranei l’uno agli altri, non hanno elementi, se si escludono quelli 
        occasionali e opportunistici, che li avvicinino e ne ispirino valori, 
        scelte, comportamenti comuni. Di tutto ciò la storia del XX secolo offre 
        esempi innumerevoli.
 
 Si inizia con Leone XIII, che nella lettera “Testem benevolentiae”, 
        inviata il 22 gennaio 1899 al cardinale Gibbons, condanna senza mezzi 
        termini l’americanismo, in quanto sistema di valori inaccettabili, e 
        ribadisce alcuni capisaldi della dottrina che a suo parere i cattolici 
        americani hanno messo in discussione, contestando in particolare la loro 
        convinzione che la Chiesa per avvicinare “coloro che ne dissentivano” 
        debba “acconciarsi alquanto più alla civiltà del secolo progredito, ed, 
        allentata l’antica severità, accondiscendere alle recenti teorie e alle 
        esigenze dei popoli”. Per Leone XIII non è possibile pensare di 
        introdurre “nella Chiesa una tal quale libertà per la quale, diminuita 
        quasi la forza e la vigilanza dell’autorità, fosse lecito ai fedeli 
        abbandonarsi alquanto più al proprio arbitrio e alla propria 
        iniziativa”; gli americanisti si spingono fino al punto di ritenere che, 
        per rendersi graditi a Dio, sia “superfluo anzi men vantaggioso ogni 
        esterno magistero”, con il risultato che “questi amatori di novità 
        lodavano oltremisura le verità naturali, quasi queste rispondessero più 
        acconciamente ai costumi e alle esigenze dell’età presente”.
 
 Nei primi anni del Novecento le preoccupazioni della Chiesa circa il 
        paese d’oltreoceano si concentrano sulle condizioni degli emigranti, il 
        cui trasferimento in una realtà così diversa da quella d’origine suscita 
        “un problema religioso irto di difficoltà”, e sul “degrado morale”, che 
        trova la sua espressione più macroscopica nello spropositato numero di 
        divorzi: negli ultimi vent’anni si sono infatti registrate circa 327.000 
        separazioni coniugali, mentre nel vicino e cattolico Canada, in 32 anni, 
        se ne sono contate appena 281. Il pontificato di Pio X ha tra i suoi 
        bersagli preferiti il modernismo, messo all’indice con l’enciclica 
        “Pascendi dominicis gregis” del 1907, e il liberalismo, che padre Billot 
        nel 1909 bolla come “dottrina multiforme, che più o meno conduce 
        all’emancipazione dell’uomo da Dio, dalla sua legge, dalla sua 
        rivelazione, e conseguentemente separa la società civile da ogni 
        dipendenza dalla società religiosa cioè dalla Chiesa, custode interprete 
        e maestra della legge divinamente rivelata”. E’ evidente che la società 
        americana è colpita, volutamente o meno, da tale anatema. Essa, infatti, 
        fin dalle sue origini, è liberale e il liberalismo impronta ogni suo 
        comportamento pubblico o privato. Negli Stati Uniti, inoltre, la 
        separazione rigida tra Stato e Chiesa, che là è separazione tra lo Stato 
        confederale e le diverse congregazioni religiose, è a regime dal 1787.
 
 Anche le abitudini e i passatempi americani provocano allarme e vengono 
        banditi. Con l’enciclica Sacra propediem, del 6 gennaio 1921, Benedetto 
        XV stigmatizza, in un momento psicologicamente molto difficile, 
        considerate le tragedie e le privazioni degli anni precedenti, la 
        ricerca delle ricchezze, l’insaziabile “sete di piaceri” e, soprattutto, 
        la moda dei “balli esotici e barbari, uno peggiore dell’altro”. Dieci 
        anni dopo, la Chiesa si unisce, con l’enciclica di Pio XI, Quadragesimo 
        anno. De ordine sociali instaurando, al coro di quanti hanno intonato, 
        all’indomani della crisi del ’29, il de profundis per il capitalismo: 
        “…il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera 
        concorrenza delle forze. Da questo capo, anzi, come da fonte avvelenata, 
        sono derivati tutti gli errori della scienza economica individualistica, 
        la quale, dimenticando o ignorando che l’economia ha un suo carattere 
        sociale non meno che morale, ritenne che l’autorità pubblica la dovesse 
        stimare e lasciare assolutamente libera a sé, come quella che nel 
        mercato o libera concorrenza doveva trovare il suo principio direttivo, 
        secondo cui si sarebbe diretta molto più perfettamente che per qualsiasi 
        intelligenza creata. Ma la libera concorrenza, quantunque sia cosa 
        certamente equa e utile se contenuta in limiti ben determinati, non può 
        essere il timone dell’economia: il che è dimostrato anche troppo 
        dall’esperienza…”. Sempre nel 1931, l’arcivescovo di Milano, cardinale 
        Ildefonso Schuster, si spinge fino al punto di sostenere che la crisi 
        del ’29 è da intendersi come l’espressione di una più generale e 
        profonda crisi di civiltà, dato che “nell’intimo del cuore di molta 
        parte dell’umanità Dio non c’è più con il suo soffio vivificatore”. 
        Nell’enciclica Summi pontificatus, del 20 ottobre 1939, Pio XII incolpa 
        la civiltà moderna anche dello scoppio della seconda guerra mondiale, 
        conseguenza tragica dell’abbandono della dottrina della Chiesa.
 
 Durante la “guerra fredda” i rapporti dei cattolici con il mondo 
        americano prendono a correre su un doppio binario, quello della 
        contingenza politico-diplomatica, da un lato, e quello della necessità 
        etico-religiosa, dall’altro. La Democrazia Cristiana, il partito cui 
        fanno riferimento la Chiesa e i cattolici fino al momento della sua 
        estinzione, sceglie l’atlantismo, in funzione anticomunista e 
        antisovietica, ma si tiene sufficientemente lontana dall’America. 
        L’opzione occidentale non impedisce alla Chiesa di continuare a 
        denunciare i limiti delle società liberaldemocratiche e capitalistiche. 
        Nel 1947, mentre parte il piano Marshall con cui gli Stati Uniti 
        finanziano la ripresa economica europea, il cardinale Schuster scrive a 
        scanso di equivoci: “L’America vi promette prestiti di dollari; Cristo 
        invece s’impegna a darvi tutto gratis”. Qualche anno dopo, don Primo 
        Mazzolari, sulle pagine della rivista “Adesso”, sente il dovere di 
        consolare pacifisti e neutralisti sostenendo che il Patto atlantico è, 
        in quel momento storico, il “male minore”. Negli anni sessanta, prima 
        con il pontificato di Giovanni XXIII e poi con quello di Paolo VI, la 
        Chiesa apre ai problemi del sud del mondo e in particolare all’America 
        Latina. Nell’enciclica “Populorum progressio”, del 26 marzo 1967, 
        vengono denunciate con forza le dinamiche di sfruttamento dei paesi 
        poveri e, come non manca di sottolineare la rivista dei gesuiti milanesi 
        “Aggiornamenti sociali”, si ribadisce “che la Chiesa non si era sposata 
        a nessun sistema, e soprattutto all’imperialismo internazionale del 
        denaro”. La politica di potenza americana suscita in quegli anni vivaci 
        reazioni: alcuni giovani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore 
        raccolgono nella primavera del 1967 più di mille firme per spingere il 
        governo italiano a chiedere la sospensione immediata dei bombardamenti 
        sul Vietnam. Le guerre ‘americane’ dei decenni successivi non hanno 
        miglior fortuna nel giudizio di gran parte dell’opinione pubblica 
        cattolica e ispirano le medesime prese di posizione, anche quando mirano 
        a ristabilire il diritto internazionale oppure sono spinte dalla 
        legittima difesa.
 
 Antiamericanismo e fascismo
 Le ragioni per cui il fascismo è profondamente antiamericano non sono 
        così dissimili da quelle per cui, come abbiamo visto, lo è il mondo 
        cattolico. Anche l’antiamericanismo fascista è in primis 
        anticapitalismo, declinato ad esempio attraverso la contrapposizione dei 
        mercanti ai guerrieri, dell’oro al sangue, della plutocrazia 
        all’aristocrazia. Il dio dell’America è il vitello d’oro, scrive 
        Cornelio di Marzio nel 1930: gli Stati Uniti sono un paese che non 
        possiede né razza né stirpe né storia, ma soltanto ricchezza, una 
        ricchezza oltretutto che è una maschera per nascondere una miseria 
        estrema, una disoccupazione crescente, un divario fra le classi 
        impressionante. Vittorio Profumi, nel 1934, ricostruisce idealmente la 
        storia dell’America, dall’anno della sua scoperta in poi, ponendola 
        tutta sotto il segno dell’oro: “L’America nacque con le stigmate 
        incancellabili della materialità e dello spirito di adattamento… Tutto 
        quello che c’era da apprendere dall’Europa fu appreso e subito degenerò… 
        Il capitalismo, fra gente che non aveva altra mira che il guadagno, 
        raggiunse l’apogeo del proprio sviluppo… Niente spiritualità, niente 
        idealismi!… L’utilitarismo è il volto del Nordamerica… Tutto era il 
        dollaro”. Due anni dopo, nel 1936, Roberto Farinacci ribadisce il 
        concetto sostenendo che gli Stati Uniti sono un paese in cui “solo Dio e 
        sola morale è il dollaro”. Nel 1941, Giuseppe Bottai afferma che si sta 
        combattendo la guerra del sangue (Italia) contro l’oro (Inghilterra e 
        America): “Sangue delle nazioni proletarie, sangue di emigranti sparsi 
        per tutte le strade del mondo a vantaggio di tutte le plutocrazie; 
        sangue di italiani contro l’oro dei beati possidenti, dei trafficanti di 
        carne bianca, degli schiavisti umanitari…Oro contro sangue e sangue 
        contro oro”. E la democrazia americana, tanto esaltata e portata ad 
        esempio, è considerata dal pensiero fascista una demoplutocrazia, cioè 
        nient’altro che una copertura del capitalismo, una copertura, per essere 
        più precisi, del potere di fatto delle sessanta famiglie cui si deve il 
        controllo non solo dell’economia, ma anche della stampa, 
        dell’istruzione, della politica.
 
 “L’America rappresenta…la più spietata dittatura dell’ultima fase del 
        processo borghese: del capitale…Quella che sembra una fase di sviluppata 
        civiltà, cioè l’antigerarchismo e la perfetta uguaglianza di tutti i 
        cittadini, favorisce solamente il nascosto predominio degli interessi 
        finanziari che hanno miglior giuoco in uno Stato con pochissime 
        sfumature sociali, che non possiede cioè gangli interni intorno a cui 
        enucleare sistemi unitari o resistenze di masse”. E’ curioso 
        sottolineare, a questo proposito, come la critica fascista alle 
        liberaldemocrazie utilizzi le stesse categorie dell’analisi marxista, 
        cioè parli del sistema capitalistico come di un regime, dell’oppressione 
        del lavoro, di imposizione del consumo, ecc. E arrivi a sostenere, 
        rubando la scena e le parole al nemico di sempre, che il mondo è diviso 
        fra nazioni plutocratiche e nazioni proletarie, in conseguenza del fatto 
        che la lotta di classe da problema interno a ogni singolo Stato è 
        diventata la questione più scottante a livello internazionale. Ancora 
        nel 1941, Francesco Coppola, con una invettiva di straordinaria vis 
        polemica, riassume i motivi classici dell’antiamericanismo, fascista e 
        non: “L’America di Wilson e di Roosevelt, ricchissima, imbarazzata anzi 
        dalla propria ricchezza, plutocratica e dottrinaria, mercantile e 
        fanatica, cinica e puerile, orgogliosa di una potenza tanto più 
        facilmente reputata formidabile in quanto non mai seriamente provata in 
        un capitale cimento; naturalmente indotta dalla inesperienza storica, 
        dalla iniziale atavica infatuazione puritana, dalla facilità della vita 
        e del progresso meccanico, e dalla interessata adulazione altrui, nella 
        più infantile e pedantesca presunzione; tenacemente persuasa di essere 
        il nuovo popolo eletto, il paradigma e l’arbitro predestinato della 
        civiltà democratica e della morale politica mondiale, il giudice di 
        suprema istanza di una storia in cui da così poco tempo è entrata e che 
        in grandissima parte ignora”.
 
 Il contrasto tra le Weltanschauungen fascista e americana non poteva 
        essere più netto. Agli artefici di una rivoluzione sociale populista e 
        antidemocratica, antieconomicistica e antiborghese non può di certo 
        andare a genio una civiltà che fa della democrazia, del liberalismo e 
        del capitalismo i suoi connotati essenziali. Per i sostenitori dello 
        Stato etico hegelo-gentiliano l’individualismo non può che essere 
        egoistico e foriero di disordine sociale. Ai costruttori di un’umanità 
        nuova, che ami “vivere pericolosamente” e sia “fortissima”, sappia 
        vivere con poco e sia sempre pronta ai sacrifici e agli eroismi, coltivi 
        lo spirito e la creatività, non può non spaventare la suggestione che 
        esercita un mondo in cui, al contrario, si esaltano il comfort e la 
        mollezza, il lusso e la massificazione, il materialismo e il 
        macchinismo. L’eredità fascista è tuttora incompatibile con 
        l’atlantismo. “E’ l’eredità ideale dei fautori della comunità organica, 
        contrapposta alla società degli individui, che non soltanto ha 
        alimentato il fascismo storico ma continua a nutrire tutte le correnti 
        della destra: da quella vecchia, monarchica e tradizionalista, a quella 
        nuova, ecologica, “glocalistica”, anticonsumista…Nell’immaginario di 
        consistenti settori della destra (cattolica o ‘ghibellina’), gli Stati 
        Uniti sono, ancora oggi, la grande minaccia, la cloaca destinata a 
        inghiottire i monumenti e i valori trasmessici dagli antichi. Per 
        l’ultimo Julius Evola, del resto, nulla era più repellente di una 
        cantante nera di jazz e nulla mostrava meglio la degenerazione del 
        genere umano e la sua ciclica decadenza”.
 
 Antiamericanismo e comunismo
 L’ideologia comunista, com’è noto, ha le sue radici nell’anticapitalismo 
        marxiano. Il filosofo di Treviri, infatti, dopo aver studiato il sistema 
        capitalistico, smontandolo e ricomponendolo, si convince che esso è 
        fondato sullo sfruttamento, poiché i lavoratori, che vengono considerati 
        una merce come un’altra, ricevono un salario sufficiente solo per 
        rimanere in vita, lavorare e generare, cioè per mantenersi come 
        forza-lavoro, sebbene con il sudore della loro fronte creino Dailyvalore 
        e quindi profitto per il capitalista. Ai tempi di Marx, la società 
        capitalistica per eccellenza è l’Inghilterra, che ha bruciato gli altri 
        Stati sul tempo e già da parecchio si è data stabilità politica e 
        industrializzazione diffusa. E’ l’Inghilterra, allora, nell’Ottocento, 
        la patria delle ingiustizie e il luogo che per primo dovrebbe vedere 
        l’implosione del capitalismo, distrutto dalle stesse forze che ne hanno 
        fatto la fortuna. Nel Novecento, il primato economico, e tutto ciò che 
        esso comporta agli occhi dei comunisti, passa agli Stati Uniti 
        d’America, che diventano nel volgere di qualche decennio il regno del 
        mercato, la società dei consumi, del profitto e, quindi, l’ “impero del 
        Male”. Per di più essi si candidano “sin dalla nascita della sfida 
        comunista, a rappresentare la strada alternativa a quella russa per 
        l’emancipazione sociale: l’americanismo come l’ideologia democratica 
        alternativa al comunismo, Woodrow Wilson come il leader 
        ‘internazionalista alternativo a Vladimir Ilic Lenin. La lunga guerra 
        fredda degli ultimi cinquant’anni non ha fatto altro che cristallizzare 
        la repulsione…per l’America. Quest’ultima è stata vissuta come il 
        capo-bastone di un’alleanza anticomunista, la cui finalità era quella 
        …di imporre al mondo sia il dominio del mercato (capitalistico) che 
        l’ipocrisia della plutocrazia democratica”.
 
 Nel giugno 1927, la rivista teorica del PCI, “Lo Stato operaio”, scrive 
        che il caso Sacco e Vanzetti, i due anarchici italiani giustiziati 
        proprio quell’anno negli Stati Uniti, è l’ennesima riprova che la 
        “legalità democratica” è solo illusoria, ribadendo l’incompatibilità fra 
        capitalismo e vera democrazia. La stessa rivista, nel maggio 1931, cioè 
        in piena depressione, sostiene, in un articolo dal titolo Qualche 
        appunto sulla crisi americana, che il capitalismo americano avrebbe i 
        giorni contati, tipica tesi della vulgata terzinternazionalista. Nel 
        numero di agosto del 1932 si legge che non si danno ragioni per 
        preferire, a proposito delle elezioni presidenziali statunitensi, 
        Roosevelt a Hoover e, un anno dopo, il primo è addirittura considerato 
        un socialfascista.
 
 Fra il 1944 e il 1947, la percezione degli Stati Uniti da parte del PCI 
        è estremamente ondivaga: da una sottovalutazione dell’importanza che va 
        via via assumendo la potenza d’oltreoceano si passa, nell’immediato 
        dopoguerra e in contrapposizione con le scelte politiche del nuovo 
        presidente Truman, a una rivalutazione dell’amministrazione Roosevelt, 
        per arrivare, con l’acuirsi della guerra fredda, a identificare gli 
        Stati Uniti con il nemico tout court. Nel 1944, mentre l’Italia è ancora 
        divisa in due, il PCI riconosce che Stati Uniti e Gran Bretagna, 
        nonostante siano paesi capitalisti, sono governati “in modo 
        democratico”, anche se non si manca di osservare, in linea con le 
        posizioni della Questione ebraica di Marx, che il liberalismo si ferma 
        agli aspetti ‘formali’ della democrazia senza curarsi di quelli 
        ‘sostanziali’. Due anni dopo, i toni nei confronti del vecchio alleato 
        si inaspriscono: “Nessuno ha proposto – si legge su “Rinascita” – e 
        nessuno pensa a proporre che l’Italia entri in un blocco di paesi 
        diretti dall’Unione Sovietica…E, invece,…sfacciatamente, da parte di 
        agenti di cricche imperialistiche straniere, si agisce per fare del 
        nostro paese…un piccolo botolo ringhioso tenuto alla catena, per fame o 
        con altri mezzi, da coloro che sognano, come il signor Truman, la 
        crociata dei capitalisti o degli imperialisti contro il paese del 
        socialismo”. I giudizi letterari seguono a ruota quelli politici. Mario 
        Alicata, sempre nel 1946, attacca Vittorini, reo niente meno che di 
        critiche favorevoli nei confronti di Hemingway e Reed. Anche Pavese, che 
        pure non ha mai nascosto certe sue simpatie, fa marcia indietro e scrive 
        su “L’Unità” del 10 agosto 1947: “Ad essere sinceri…ci pare che la 
        cultura americana abbia perduto il magistero, quel suo ingenuo e sagace 
        furore che la metteva a l’avanguardia del nostro mondo intellettuale. Né 
        si può non notare che ciò coincide con la fine…della lotta 
        antifascista”. Il 1947 è l’anno in cui si rompe l’alleanza 
        antihitleriana. Un anno cruciale. Un anno di svolta delle relazioni 
        internazionali. E’ l’anno della dottrina Truman e del piano Marshall. E’ 
        l’anno, per l’Italia, del viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti, della 
        scissione socialista, della cacciata delle sinistre dal governo De 
        Gasperi. E’ l’anno in cui il PCI, soprattutto dopo la nascita del 
        Cominform nel settembre, capisce che deve adeguarsi alla logica dei 
        blocchi e allinearsi pertanto alle posizioni sovietiche.
 
 Negli anni cinquanta, gli Stati Uniti diventano il nemico giurato, il 
        grande antagonista. Sul settimanale “Vie Nuove” vengono dipinti, 
        fedelmente al credo zdanoviano, come una civiltà senza futuro, prossima 
        al collasso, un paese nelle mani sporche di un’oligarchia di generali, 
        banchieri, industriali e razzisti, il cui obiettivo prioritario è 
        impedire che le legittime aspirazioni alla libertà e all’indipendenza 
        nazionale dei paesi occidentali facciano il loro corso. Nel decennio 
        successivo, la crisi del Vietnam viene sfruttata appieno dal PCI, e 
        dagli altri partiti comunisti occidentali, per porsi alla testa di 
        imponenti raduni di massa in funzione antiamericana. La lettura degli 
        eventi è la solita, quella leninista della crisi dell’imperialismo per 
        intenderci. Il Vietnam, perciò, è considerato l’agonia della potenza 
        yankee, del sistema capitalistico più forte dell’Occidente. Fino alla 
        caduta del muro di Berlino, il giudizio del PCI sugli Stati Uniti non 
        cambia, sebbene acquisti sfumature diverse per i tempi diversi. Negli 
        anni seguenti, l’ex PCI riconsidera la sua posizione sull’unica 
        superpotenza rimasta sulla scena, anche se non riesce a tirarsi dietro 
        il mondo da cui si è da poco allontanato. Durante la guerra del Golfo, 
        Luigi Pintor scrive su “Il Manifesto” del 16 febbraio 1991 che l’ 
        “America ha molti ammiratori e molti servi, ma pochi amici” e aggiunge 
        che “il senso di onnipotenza e la volontà di annientamento fanno parte 
        della subcultura americana, sono il lato negativo della storia nazionale 
        e imperiale di quella democrazia”. Michele Serra, su “Panorama” del 10 
        marzo 1991, si scaglia contro l’arroganza che gli americani esibiscono 
        nella gestione del conflitto: “Per questo l’America, e la convinzione 
        dell’America di rappresentare il Regno del Giusto, mi fa paura come 
        qualsiasi attribuzione di pieni poteri a un’ideologia o a un sistema 
        culturale. Se manifestare questo timore è “antiamericanismo”, pazienza”. 
        In occasione della guerra del Kosovo e di quella contro il terrorismo 
        islamico le difficoltà del mondo comunista ed ex comunista 
        nell’allinearsi alla politica del vecchio nemico sono state confermate e 
        hanno portato ai comportamenti più lontani tra loro.
 
 Conclusione
 Alla luce della ricostruzione storica e ideologica che ho presentato 
        dell’antiamericanismo italiano, si può concludere che la categoria presa 
        in esame sia la cartina di tornasole del deficit di liberalismo, e dei 
        valori a esso consustanziali, che caratterizza il nostro paese da sempre 
        e che nel Novecento ha assunto forme ancora più imbarazzanti. L’auspicio 
        è che l’attenzione per il mondo americano, che certi settori politici e 
        intellettuali hanno manifestato in seguito ai tragici fatti recenti, 
        trovi respiro nella formazione di un’autentica cultura liberale. Il 
        timore, invece, è che oggi “siamo tutti americani” come oramai “siamo 
        tutti liberali”.
 
 24 maggio 2002
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