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        Garantire una cultura senza condizionamentidi Domenico Mennitti
 
 Non c’è dubbio: il panorama politico-intellettuale del nostro paese nel 
        corso dell’ultimo decennio si è profondamente trasformato. Per certi 
        versi, si è prodotta una vera e propria rivoluzione, che non ha 
        investito solo la sfera politico-istituzionale, ma anche la sfera della 
        cultura, delle idee, della discussione pubblica. L’Italia di oggi è – 
        culturalmente parlando – un paese più pluralista che nel passato, meno 
        asfittico, meno squilibrato. Le diverse componenti e forze politiche 
        presenti attualmente sulla scena, molte delle quali vantano un’anzianità 
        di pochi anni, hanno, ognuna a suo modo, fatto un grande sforzo per 
        rendere intelligibile il proprio progetto e per dotarsi di un adeguato 
        retroterra culturale ed intellettuale. Non potendo vivere di rendita sul 
        proprio passato, le forze politiche che nella cosiddetta “seconda 
        repubblica” hanno assunto un ruolo da protagoniste si sono dunque 
        attivate al fine di dotarsi ognuna di una “cultura politica” all’altezza 
        dei tempi, adeguata alle profonde trasformazioni prodottesi nel 
        frattempo nella società italiana, europea e mondiale.
 
 Nonostante il tracollo delle vecchie ideologie, persistono però rendite 
        di posizione e pregiudizi, in forza dei quali “vera cultura” si dà solo 
        nei paraggi di ciò che convenzionalmente viene definita “la sinistra”, 
        tutto il resto essendo nella migliore delle ipotesi semplice propaganda 
        oppure “pensiero al servizio del padrone”. E’ perciò apparso necessario 
        affrontare nell’incontro di Firenze il problema relativo al rapporto tra 
        cultura e politica, tra intellettuali e potere. Si è cercato di chiarire 
        quali siano le specifiche modalità con cui gli intellettuali che 
        politicamente e culturalmente si riconoscono – in vario modo - nella 
        Casa delle Libertà sono chiamati ad offrire il loro contributo. Detto 
        diversamente: in che modo la cultura libera vive e deve vivere il 
        proprio rapporto con la politica?
 
 Su questo punto, delicato e decisivo, ritengo necessario rimarcare 
        alcune differenze d’impostazione rispetto agli intendimenti che sembrano 
        caratterizzare l’iniziativa promossa dal Dipartimento cultura di Forza 
        Italia. Per cominciare, lascia piuttosto perplessi l’idea stessa di un 
        Manifesto. La chiamata a raccolta degli intellettuali, per battaglie più 
        o meno nobili, è stato storicamente uno dei tratti distintivi 
        dell’interventismo culturale tipico della sinistra radicale e marxista. 
        Gli appelli, le sottoscrizioni, le firme in calce sono stati, nel corso 
        del Novecento, gli strumenti attraverso i quali la sinistra ha 
        costruito, in termini di strumentale subordinazione, il proprio rapporto 
        con il mondo intellettuale.
 
 Ma oltre allo strumento – che appare anacronistico in una società 
        complessa nella quale ciò che bisogna incoraggiare non è lo spirito 
        gregario, ma lo spirito di autonomia e di indipendenza personale – 
        suscita qualche perplessità anche l’impostazione di fondo. “La libertà 
        della cultura” è stato uno slogan intorno al quale, nel corso degli anni 
        Cinquanta e Sessanta, si sono combattute nobili e sacrosante battaglie. 
        All’epoca, gli intellettuali cristiani, liberali e conservatori che 
        pubblicamente si sono schierati contro i luoghi comuni della cultura 
        comunista si sono visti tacciare, come minimo, di essere al servizio 
        della Cia. Ma oggi? Alla luce dei cambiamenti che sono oggettivamente 
        intervenuti sulla scena culturale, interna ed internazionale, ha ancora 
        senso cercare di riunirsi intorno ad uno slogan come quello della 
        “libertà della cultura”, nobile ma in qualche modo ormai consegnato alla 
        storia?
 
 All’interno di quella che convenzionalmente viene definita “destra” non 
        esistono – e non debbono esistere – intellettuali organici, schierati, 
        pronti, come si diceva degli intellettuali militanti di sinistra, a 
        “suonare il piffero” per la causa. Un conto, infatti, è sostenere – con 
        la lungimiranza che si richiede alla politica nel suo aspetto più nobile 
        - la costruzione di una rete, quanto più possibile capillare, di 
        istituzioni culturali, di riviste, di fondazioni, di strutture di 
        ricerca, magari in sana competizione tra di loro, attraverso le quali 
        fare maturare le idee, le proposte, i suggerimenti, le chiavi di lettura 
        e di interpretazione della società che sono il necessario alimento della 
        politica. Altra cosa invece è pensare di piegare gli intellettuali ad un 
        qualche disegno politico, per quanto grandioso ed originale.
 
 Nel Manifesto, in realtà, queste cose sono dette molto bene. L’idea di 
        una “cultura organica alla politica” è esplicitamente rifiutata. Si 
        legge altresì che il centro-destra non intende trasformare gli 
        intellettuali in “persuasori e propagandisti”. Benissimo. Ma se questi 
        sono gli intendimenti – come non condividerli? – rischia allora di 
        apparire contraddittorio il tentativo di dar vita ad un “Manifesto per 
        la Cultura”, nel quale gli intellettuali sono chiamati a riconoscersi 
        sulla base di una appartenenza che non sarà ideale e culturale ma 
        politica in senso lato.
 
 Se proprio la Casa delle libertà intende assegnarsi una missione sul 
        versante culturale, ciò che dovrebbe perseguire, come obiettivo 
        esclusivo e primario, è una cultura realmente libera, sganciata da 
        qualunque ipoteca politica, realmente al passo con i tempi, creativa e 
        dinamica. In termini concreti ciò significa – per fare un chiaro esempio 
        riferito al contesto italiano odierno - potenziare gli strumenti ed i 
        luoghi nei quali istituzionalmente la ricerca e la discussione 
        intellettuali dovrebbero concentrasi ed esprimersi al loro meglio, in 
        reale autonoma di giudizio e nel rispetto delle competenze e delle 
        capacità di ogni singolo studioso. E’ il caso, come è facile intuire, 
        dell’Università. Quale contributo migliore, per una forza politica 
        dotata di una autentica cultura di governo, che quello di contribuire a 
        dare nuova forza e nuovo slancio all’Università del nostro paese, che la 
        sinistra italiana ha ridotto, sulla base di una riforma demagogica ed 
        irresponsabile, ad una sorta di superliceo prossimo al collasso 
        amministrativo, sempre più povero di mezzi e del tutto inadeguato ormai 
        a produrre qualcosa di culturalmente creativo?
 
 La Casa della libertà è una realtà che nel paese si è ormai 
        profondamente radicata – non solo dal punto di vista politico, ma anche, 
        progressivamente, dal punto di vista del linguaggio, dei valori, degli 
        ideali e delle aspirazioni. Questa enorme ricchezza deve essere lasciata 
        libera di sviluppare il proprio talento lontano dalle incombenze, non 
        sempre onorevoli, della politica; deve essere lasciata libera di 
        apportare il proprio contributo di conoscenza senza pressioni indotte 
        dalla contingenza. La cultura o è libera oppure non è. Quando è libera è 
        un patrimonio di tutti, anche allorché – è bene ricordarlo - i suoi 
        sviluppi non sono in linea con i nostri personali convincimenti 
        politici.
 
 21 giugno 2002
 
 domennitti@ideazione.com
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