| 
        
        Intellettuali post-organicicolloquio con Ferdinando Adornato e Marcello 
        Veneziani
 a cura di Riccardo Paradisi
 
 Raymond Aron, nella chiusa de L’oppio degli intellettuali, invocava con 
        tutto il cuore la venuta degli scettici, “se hanno il compito di far 
        sparire il fanatismo”. Oggi il compito degli intellettuali, esauritasi 
        la funzione di guide morali e pifferai della rivoluzione, dovrebbe 
        essere proprio questa: ricondurre l’esistente sotto il cono di luce di 
        una critica costruttiva, porre domande, seminare sospetti, avere e 
        favorire nei confronti del potere politico un atteggiamento al tempo 
        stesso distaccato e ironico, partecipato se si vuole, ma anche libero, 
        spregiudicato, equanime e onesto, soprattutto onesto. “La libertà di 
        giudizio anzitutto!” raccomandava ancora Aron. L’intellettuale organico 
        è stato, invece, la negazione di questo atteggiamento interiore, di 
        questo stile. D’altra parte se si vuole evitare la fuga delle 
        intelligenze dalla politica, cioè dalla dimensione dove il potere si 
        concentra e si dispiega attraverso la decisione, occorre pensare a forme 
        diverse di partecipazione politica degli intellettuali, a luoghi, 
        diversi dai partiti tradizionali, ove le intelligenze possano darsi 
        convegno e coltivare – con un grado sufficiente di autonomia 
        intellettuale – l’idea e il progetto di un futuro diverso dal presente, 
        un luogo dove ricercatori e studiosi possano confrontarsi, produrre 
        saggi, fare indagini, aprire dibattiti, fornire alla politica non le 
        munizioni da spendere nelle guerre tattiche per il potere, ma il vasto 
        respiro di una riflessione più ampia, gli scenari possibili individuati 
        dalla ricerca di intelligenze libere. Intelligenze libere, non 
        disincarnate, non anti-politiche. Le fondazioni, i think tank, che nei 
        Paesi anglosassoni hanno già una tradizione e un passato di importanti 
        affermazioni, possono costituire anche in Italia l’ambito dove può 
        nascere una politica nuova, dove le classi dirigenti di domani potranno 
        venire selezionate, dove l’elaborazione teorica possa trascinare al suo 
        livello quello della prassi politica.
 
 Nel momento in cui gli intellettuali, o i cosiddetti “ceti medi 
        riflessivi”, tornano, a sinistra, a fare politica fuori dai luoghi 
        istituzionali, attraverso manifestazioni estemporanee e retoriche 
        ludiche, Ideazione ha chiesto a due intellettuali – che non si trovano a 
        sinistra – come può essere ridefinito e risolto il rapporto controverso 
        e tormentato tra la dimensione culturale e quella politica; che funzione 
        deve svolgere la cultura; in che modo deve rapportarsi alla politca; 
        quale futuro possono e debbono avere le fondazioni nel nostro Paese. 
        Marcello Veneziani (che da poco ha pubblicato per Laterza La cultura 
        della destra) e Ferdinando Adornato, presidente della commissione 
        Cultura della Camera e direttore della rivista Liberal, hanno dato delle 
        risposte che sono il frutto di due sensibilità differenti, ma che 
        confluiscono in una comune area politico-culturale.
 
 L’intellettuale è malinconico. Soffre per il mondo – dice Lepenies – e 
        cerca di dare espressione razionale a questa sofferenza, poi soffre per 
        se stesso, perché può solo pensare e non agire. Il ceto pensante in 
        altri termini rischia di ridursi a espressione sovrastrutturale. Di 
        fronte all’inveramento di una società funzionalista e tecnologica allora 
        qual è, secondo voi, la funzione dell’intellettuale? Ne ha ancora una o 
        è condannato a ridursi a fare da contorno teorico ai fenomeni di costume 
        limitandosi, in ultima analisi, a divertire?
 
 Veneziani – L’intellettuale è malinconico anche a prescindere dal ruolo 
        marginale o ludico che gli è attualmente assegnato. Se è davvero un uomo 
        di pensiero e di talento, se è un creativo ed un inquieto, come si 
        addice ad una vera intelligenza, vive con disagio il rapporto tra la 
        realtà e la sua trascendenza, tra essere e dover essere, tra finitudine 
        e desiderio d’infinito, tra mortalità e passione per l’eternità. Ama 
        troppo la verità per potersi accontentare delle finzioni di cui si nutre 
        la vita comune, vede la retorica diffusa che nasconde l’autenticità 
        offrendo motivi e sedativi per sopravvivere e, dunque, è uno scontento 
        per definizione; soffre per ciò che è destinato a tramontare, vive 
        perfino l’amore come una tragedia, impossibile a compiersi e a durare. 
        Patisce l’imperfezione della condizione umana. La crisi odierna del suo 
        ruolo dà solo un valore aggiunto alla sua disperazione, una motivazione 
        pubblica e sociale. Per il resto, la riduzione funzionalista della vita 
        odierna produce frustrazione e depressione di massa; non solo per gli 
        intellettuali, ma per tutti coloro che non esauriscono la propria vita 
        nella dimensione utilitaristica, tecnologica e biologica del nostro 
        presente. Rispetto a questa situazione, l’intellettuale (parola verso 
        cui non nascondo una certa fastidiosa riluttanza) risente in modo più 
        acuto la riduzione della vita ad un vitalismo mercantile, corda tesa tra 
        il corpo e la merce. L’intellettuale è la spia di un disagio 
        esistenziale che, però, non riguarda solo gli intellettuali.
 
 Adornato – Ma cosa resta, oggi, degli intellettuali? E cosa può fare un 
        cittadino che “lavora con il cervello” rispetto al mondo se non c’è più 
        nessun destino da indicare? Questa è la vera domanda dopo la fine degli 
        intellettuali come classe. L’evoluzione uccide. Perfino il post- moderno 
        è costretto a dichiarare morti gli idéologues perché la sempre maggiore 
        complessità della società divide, separa, funzionalizza, compartimenta 
        tutto ciò che i philosophes volevano unito. In una parola gli 
        specialismi delle società moderne hanno fatto fuori la costruzione 
        essenziale di ogni république des lettres: l’essere ciascuno dei membri, 
        nell’esercizio delle sue funzioni, libero da qualsiasi obbligo sociale. 
        Del resto chi è l’intellettuale oggi? Lo scienziato, il medico, il 
        ricercatore, lo scrittore, il politologo, il pubblicitario, l’attore, il 
        regista? E il titolista di giornale? Non è forse in grado di influenzare 
        in modo anonimo le opinioni più di tanti altri visibili protagonisti? 
        Faremmo meglio a chiederci: chi non è intellettuale oggi? Non lo è un 
        terzo della popolazione. La verità è che la fine del lavoro degli 
        intellettuali coincide con il generalizzarsi del lavoro intellettuale. E 
        del livello medio del benessere e dell’intelligenza sociale. Fatto sta 
        che il cittadino, buono o cattivo che sia, sapiente o incolto, a 
        duecento anni dalla Bastiglia, per la prima volta occupa il centro della 
        società. Eppure è solo. È nato duecento anni fa, ma è come se fosse un 
        neonato. Dobbiamo lamentarci del tramonto degli intellettuali come ceto 
        o dobbiamo, piuttosto, dichiararci soddisfatti dell’aumento dei luoghi 
        dell’intelligenza sociale?
 
 La storia delle incomprensioni tra intellettuali e potere, tra cultura e 
        dominio, tra uomini di pensiero e partiti politici è vecchia quanto il 
        mondo: Platone che parte da Atene per recarsi a Siracusa è l’esempio 
        classico di un intellettuale vittima del potere. Gli intellettuali si 
        sono però anche prestati a giustificare il potere: è lunga la schiera di 
        quei pensatori che hanno preparato, consolidato e legittimato l’egemonia 
        politica attraverso la costruzione dell’egemonia culturale. C’è 
        un’alternativa a queste due declinazioni della funzione 
        dell’intellettuale?
 
 Veneziani – L’intellettuale deve liberarsi da due opposte malattie: 
        quella della coincidenza tra cultura e politica e quella dell’assoluta 
        estraneità della cultura dalla politica. La coincidenza tra cultura e 
        politica nel ’900 ha generato i mostri del totalitarismo ed ha prodotto 
        i peggiori traumi agli intellettuali che ne sono rimasti ammaliati: lo 
        testimonia il tragico destino di Gentile, Gramsci e Gobetti che 
        pensavano in questo modo ed hanno scontato sulla loro pelle 
        quell’impossibile coincidenza. Dall’altra parte la divaricazione tra 
        cultura e politica ha prodotto i mostri del cinismo politico, 
        dell’assoluto pragmatismo, e dell’astrazione intellettuale. Il problema 
        è recuperare l’idea di continuità tra politica e cultura: un’idea che 
        implica l’autonomia delle due sfere, ma anche la contiguità. Ovvero, 
        esiste una zona di confine tra la cultura e la politica, esiste una 
        vicinanza inevitabile, una fluida e trafficata frontiera che giova e 
        nuoce a entrambi. Anche se ci sono territori della cultura e territori 
        della politica che sono remoti da quel confine, rispondono ad altre 
        prossimità e ad altre aspirazioni.
 
 Adornato – Non so se c’è un’alternativa a queste due declinazioni della 
        funzione dell’intellettuale che si rapporta col potere politico. Anzi, 
        non credo che l’intellettuale possa, in altri termini, coltivare una 
        funzione diversa da quella, da un lato, di architetto teorico a servizio 
        della politica e, dall’altro, da quella di un uomo che soffre per il 
        mondo limitandosi a immaginarne uno migliore.
 
 Nella post-modernità, come è ormai un luogo comune dire, le grandi 
        metanarrazioni ideologiche saltano, non hanno più presa nelle coscienze 
        dei gruppi e degli individui. Del resto la politica non può essere 
        ridotta a mera amministrazione, al semplice contrattualismo o alla 
        mediazione tra diversi interessi. Può la cultura, in questa fase di 
        ridefinizione generale dei rapporti tra i diversi dominii, tornare 
        secondo voi ad essere il principio motore di una ridefinizione della 
        politica, riscattandola dall’eccesso di pragmatismo a cui sembra essersi 
        ridotta e al tempo stesso riscattando se stessa dall’astrattismo 
        sterile?
 
 Veneziani – E' necessario pensare la politica, prima di farla. Perché la 
        politica non può essere pura gestione dell’esistente, amministrazione 
        degli assetti, regolamentazione e mediazione del reale. Tutto questo 
        impone di riattivare la comunicazione con la cultura intesa non nel 
        senso gramsciano di elaborazione ideologica da parte di un intellettuale 
        collettivo, ma cultura nel senso di orizzonte di senso collettivo e di 
        valori condivisi e conflittuali, cultura nel senso di visione del mondo 
        e tradizione, cultura nel senso di mentalità, sensibilità comune appresa 
        nel rapporto tra la propria origine e il proprio tempo. A destra è 
        possibile pensare all’intellettuale impegnato come una figura libera e 
        schierata, in cui l’essere di destra non pregiudica la libertà di 
        pensare e la facoltà di dissentire, di dissociarsi e perfino di 
        ritirarsi dai percorsi della politica.
 
 Adornato – Ripeto, quello intellettuale è oggi un vero e proprio “ceto 
        sociale”, un vasto ceto diffuso: del resto, se aumentano i luoghi 
        dell’intelligenza sociale si aprono maggiori possibilità di ridefinire 
        dal basso la politica, riscattandola da un eccesso di pragmatismo e al 
        tempo stesso riscattando la cultura dall’astrattismo.
 
 Si sta diffondendo con sempre più forza il fenomeno dei think-tank: 
        fondazioni, centri studi, riviste che si costituiscono come laboratori 
        politici. Sono strutture distanti dai partiti tradizionali quanto basta 
        per coltivare in autonomia le proprie ricerche, ma non così lontani da 
        non poterne influenzare le scelte, o dall’essere in grado di suggerir 
        loro prospettive, suggestioni, addirittura orientamenti. D’Alema ha una 
        rivista dove esercita sicuramente un’influenza sull’area politica di 
        riferimento dentro la quale ha scelto di tenere da qualche tempo una 
        posizione più riflessiva. Come vedete il futuro di queste fondazioni, 
        credete che in Italia certe esperienze potranno avere un avvenire come 
        negli Stati Uniti? E, soprattutto, ritenete che la loro funzione potrà 
        essere anche politica? Detto altrimenti avranno le fondazioni la forza e 
        il peso, secondo voi, di condizionare le scelte politiche?
 
 Veneziani – Il futuro della politica è sicuramente in queste strutture. 
        Certo, negli ultimi anni alcune fondazioni sorte a fianco della politica 
        sono sembrate più aree di parcheggio per leader in attesa di 
        riposizionamento, piccole soste per la ristorazione politica che reali 
        centri di elaborazioni. Ma, ultimamente, qualcosa di serio si sta 
        affermando. Io sono convinto che quanto più decrescerà il ruolo e il 
        senso dei partiti e dei Parlamenti nelle nostre società, tanto più sarà 
        necessario affidare a istituti, gruppi, seminari, fondazioni, il compito 
        di pensare la politica, di elaborare proposte di legge e iniziative 
        politiche e di selezionare adeguatamente il personale politico e le 
        classi dirigenti. La tendenza già spiccata negli Stati Uniti d’America 
        prima o poi si affermerà anche da noi e segnerà una nuova frontiera tra 
        politica e cultura, ma anche una nuova postazione per fronteggiare il 
        dominio della tecnica e della finanza sulla politica e sulla cultura.
 
 Adornato – Mano a mano che andrà avanti una compiuta maturazione del 
        bipolarismo e avanzerà la reciproca legittimazione tra i due poli, ma 
        ancor di più mano a mano che crescerà la forza della società civile, 
        come è necessario nell’era della globalizzazione, nello stesso tempo 
        ricadrà il vecchio rapporto “organico” tra cultura e politica e crescerà 
        il ruolo di fondazioni che interpretino seriamente il loro ruolo di 
        antenne del futuro. Proponendo pensieri di cornice e proposte di 
        modernizzazione ai partiti politici e alla classe dirigente. Meno mi 
        convince l’uso delle fondazioni come casematte da utilizzare per 
        difendere o sviluppare il destino politico di questo o quel leader, come 
        in certi casi hanno fatto immaginare le esperienze ricordate.
 
 Proviamo a calare il discorso che stiamo facendo all’interno 
        dell’attuale scenario politico italiano. A sinistra sembra essersi 
        prodotta una scollatura tra il ceto politico e quello intellettuale 
        (sempre molto considerato seppure spesso nei termini di una dura 
        dialettica). Al di là dei girotondi – e al di là del fatto che Moretti è 
        un’altra cosa rispetto ai Vittorini, ai Pavese, ai Pasolini – la spinta 
        che proviene dal movimento di contestazione ai vertici del partito è, 
        comunque, partita dagli intellettuali. Questo fenomeno sembra dunque 
        confermare la presenza a sinistra di un ceto intellettuale in grado di 
        esercitare una certa pressione e un condizionamento rilevante rispetto 
        alle scelte politiche del partito di riferimento. Di converso certa 
        pubblicistica continua a dichiarare quasi inesistenti gli intellettuali 
        a destra, e comunque incapaci di funzionare da avanguardia culturale nei 
        confronti dell’area in cui, bene o male, si riconoscono. E' vero che 
        nella storia della destra di questo dopoguerra manca un Gramsci? Oppure 
        esiste anche a destra un ceto intellettuale che svolge weberianamente il 
        suo lavoro intellettuale senza godere delle luci della ribalta del media 
        system? E se esiste quale funzione dovrebbe avere?
 
 Veneziani – Dobbiamo convincerci che non può esistere a destra un 
        fenomeno analogo e speculare a quello che ha caratterizzato 
        culturalmente la sinistra. Perché il ruolo e il senso della cultura sono 
        profondamente differenti tra i due versanti e questo spiega la loro 
        difficile comparazione, la loro profonda asimmetria. È vero che 
        l’organizzazione della cultura, in Italia, non è nata con Gramsci e 
        Togliatti ma con l’interventismo culturale dei primi due decenni del 
        secolo, che aveva una caratterizzazione più “di destra”; e poi con 
        Gentile e Bottai durante il fascismo che sono stati i primi veri 
        organizzatori della cultura, anche se entrambi – benché ideologicamente 
        persuasi del totalitarismo – alimentarono l’idea di una cultura ricca di 
        zone franche, sostanzialmente libera, non organica al regime ma aperta 
        perfino al dissenso e all’impoliticità. Ma in linea di principio si deve 
        osservare la refrattarietà degli intellettuali “di destra” a 
        irreggimentarsi, a rendersi organici e militanti, e perfino a definirsi 
        di destra: gli intellettuali a destra oscillano tra la solitudine e la 
        tradizione, ovvero tra la libera creatività dei cani sciolti e la 
        partecipazione ad un comune sentire di un popolo, di una storia, di una 
        provenienza. Ma tra i due poli della solitudine e della tradizione, non 
        c’è la fase intermedia, quella del club, della società di pensiero, 
        della setta intellettuale che poi si condensa nell’intellettuale 
        collettivo. Ciò non impedisce, naturalmente, che il lavoro degli 
        intellettuali non di sinistra produca, o possa produrre, effetti anche 
        politici e civili. Ma è bene rifiutare il ruolo molesto, a volte 
        ornamentale, a volte saccente, dell’intellettuale militante, o peggio, 
        del pazzariello che va avanti al corteo politico. A destra non è 
        possibile immaginare casi Moretti o intellettuali da girotondo. Agli 
        intellettuali di destra si addice il bosco, se sono ribelli, anarchici o 
        semplicemente solitari; o la comunità, famigliare e culturale, civica e 
        religiosa. Non la cellula, non il partito. È un tema complesso a cui, 
        non a caso, ho dedicato un libro. A destra, forse è vero, sarà mancato 
        un Gramsci; ma se vogliamo, è mancato soprattutto un Togliatti...
 
 Adornato – Il Moretti che sale su un palco politico e proclama: “con 
        questi dirigenti non vinceremo mai”, in quel momento non rappresenta il 
        ceto intellettuale. Usa, piuttosto, il suo potere intellettuale per 
        esprimere posizioni politiche di una corrente interna a un partito. Non 
        alludeva, infatti, a vittorie intellettuali o di un qualche pensiero su 
        un altro, ma seccamente a vittorie elettorali. Siamo addirittura a un 
        gradino inferiore della pur detestabile arte di suonare il piffero per 
        la rivoluzione. Non c’è dubbio, comunque, che la presenza intellettuale 
        nella sinistra, sia pure diventata solo presenza di propaganda e sempre 
        più raramente di pensiero, rappresenta una massa critica con la quale 
        fare i conti, e di gran lunga superiore alla massa critica che può 
        riconoscersi nel centro-destra. Però, sia pure in ordine sparso, sta 
        cominciando a emergere – nelle università, nei giornali e nel lavoro di 
        organizzazione culturale – un ceto intellettuale insofferente alle 
        patologie della sinistra e che in luogo di salire sui palchi e gridare 
        “con questi dirigenti vinceremo sempre”, cerca di immaginare nella 
        ricerca, promuovendo una proposta riformista con nuovi pensieri e nuove 
        culture di modernità. Chissà che fra un po’ di tempo non si possa usare 
        per quest’area politico-culturale la vecchia espressione marxiana “ben 
        scavato vecchia talpa”, me lo auguro. Per quanto riguarda il discorso di 
        quale possa essere la prospettiva di una cultura di destra, o più 
        generalmente non di sinistra, riguardo i contenuti si può rispondere che 
        dipende da quali prospettive si vuol dare e vuol dare al Paese una 
        cultura non di sinistra. Perché se è vero che la cultura di sinistra 
        permane in Italia come struttura di potere e organizzazione del consenso 
        d’altra parte è caratterizzata nei suoi contenuti di un’assoluta carenza 
        di prospettive ideali. Personalmente, per quanto mi riguarda, il lavoro 
        che sto svolgendo ha lo scopo di favorire la formazione di un asse 
        liberal-cristiano che risulta inedito nel nostro Paese e che è il 
        risultato di una nuova sintesi tra l’umanesimo laico e il cattolicesimo 
        liberale.
 
 21 giugno 2002
 
 (da 
        Ideazione 3-2002, maggio-giugno 2002)
 
 
 
 |