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        Il disagio degli intellettualidi Eugenia Roccella
 
 E' possibile immaginarsi Carlo Emilio Gadda, o anche Elsa Morante o 
        Italo Calvino, lanciare invettive, intrecciare girotondi e acchiappare 
        il microfono al volo sul palco di un comizio? E persino gli infaticabili 
        firmatari di appelli degli anni d’oro dell’impegno, riusciamo a 
        figurarceli scatenati a dibattere con Longo e Berlinguer con la stessa 
        aggressività e volontà di supplenza politica degli intellettuali riuniti 
        a Firenze? No, non ci riusciamo. Si potrebbe desumerne che l’élite 
        culturale, fino a pochi anni fa, coltivasse un atteggiamento più 
        distaccato, uno sguardo più sereno e olimpico sulle cose del mondo, in 
        primis la politica. Ma i fatti smentiscono questa ipotesi, visto che gli 
        anni Sessanta e Settanta hanno registrato un elevatissimo tasso di 
        coinvolgimento della “classe dei colti” agli eventi politici, e che si è 
        arrivati a processare (non solo metaforicamente) alcuni professori 
        universitari, indicandoli come i cattivi maestri di una generazione 
        perduta. L’attuale bisogno di visibilità e l’urgenza di prendere la 
        parola sembrano, al confronto con certe prese di posizione di allora, 
        piuttosto innocui.
 
 Se il grado di partecipazione degli intellettuali alla politica non è 
        granché cambiato, se ne è, però, alleggerito straordinariamente il peso. 
        Per contare, per avere ascolto, oggi, il regista deve urlare nel 
        microfono, il direttore del bimestrale deve organizzare una 
        manifestazione di massa, il docente universitario di seconda fascia deve 
        convocare i suoi colleghi in affollate assemblee. Questa resurrezione, 
        che ha impressionato giornalisti e politici, appare in ultima analisi 
        come una disperata richiesta di attenzione, a fronte del concreto 
        rischio di essere oscurati e trascurati. Il ruolo dell’intellettuale, su 
        cui tante riflessioni hanno speso studiosi, scrittori, e soprattutto 
        teorici della sinistra rivoluzionaria (dove si colloca l’intellettuale 
        nella lotta di classe? In mezzo agli operai, a fianco, davanti o 
        dietro?) è in grave decadimento.
 
 Non esiste piu la figura dell’intellettuale profetico, come Pier Paolo 
        Pasolini, capace di intuire fenomeni epocali e di tradurli in metafore 
        che colpivano l’immaginazione e i sentimenti, capace di spiegare la 
        post-modernità raccontando l’omologazione dei volti e la scomparsa delle 
        lucciole. Contraddittorio, ma sempre lontano dal luogo comune imperante 
        nella sua parte politica (contro gli studenti e per i poliziotti, per 
        esempio), tenacemente impegnato in un dialogo amoroso e crudele con il 
        Pci, difficilmente Pasolini avrebbe aggredito la dirigenza del partito 
        per ottenere il consenso della base. Non avrebbe lusingato le 
        convinzioni del popolo di sinistra, piuttosto le avrebbe scandalosamente 
        rovesciate, attirandosi fischi e non applausi.
 
 Anche i venerati e temuti salotti di un tempo sono in disarmo. 
        Letterati, artisti e registi sono sparsi in gruppetti (più che salotti, 
        tinelli) privi di grandi figure intorno a cui coagularsi. Il dominus 
        carismatico, con il suo seguito di mogli, ammiratori, questuanti, amanti 
        e portaborse, come sono stati Moravia e Guttuso, è scomparso. Non a caso 
        il nucleo duro dello snobismo culturale oggi è rappresentato dagli amici 
        del Foglio, in cui Giuliano Ferrara svolge un ruolo simile. Secondo 
        Arbasino, l’iter classico dello scrittore italiano passa dalla iniziale 
        definizione di giovane brillante a quella di “solito stronzo” prima di 
        arrivare (da anziani) ad essere riconosciuti come grandi maestri. Ma con 
        tutta la buona volontà, non vedo “soliti stronzi” in grado di aspirare 
        all’ascesa all’empireo dei grandi maestri, neppure invecchiando. 
        Possiamo immaginare il malmostoso Tabucchi, sia pure ottantenne, come un 
        padre delle patrie lettere? O il simpatico Baricco, inchiodato, 
        nonostante l’ingrigirsi delle tempie, al ruolo di giovane brillante? 
        Neppure Umberto Eco o Alberto Asor Rosa, nonostante i raggiunti limiti 
        di età, sono riusciti a trasformarsi in grandi vecchi, i cui ultimi 
        esemplari restano – li si ami o no – persone come Citati, La Capria, 
        Bobbio. Persone che incarnano un’idea della cultura più datata, magari 
        desueta, ma meno compromessa con le forme e i modi contemporanei della 
        produzione intellettuale ed artistica.
 
 Perché il nodo è qui, nella trasformazione della ricezione e della 
        diffusione della cultura, che ha portato alla trasformazione del 
        prodotto e del produttore. Negli anni Sessanta si parlava di cultura di 
        massa, ma la massa in questione era, in realtà, piuttosto ristretta. La 
        rottura messa in atto dalla sperimentazione degli inizi del Novecento 
        aveva instaurato una dicotomia della fruizione, e l’arte d’avanguardia 
        restava appannaggio di élite consapevoli. Esisteva, però, un’area di 
        compromesso: per il romanzo italiano si parlava di “best-seller di 
        qualità”, indicando così una fortunata conciliazione tra due entità che 
        si ritenevano contrapposte, letteratura e mercato. L’allargamento dei 
        consumi culturali era molto moderato, e soprattutto continuavano a 
        imperare poche, e ben riconoscibili, centrali del gusto: le case 
        editrici maggiori erano nelle mani di grandi figure della cultura più 
        che di esperti di marketing, e il rapporto tra critici d’arte e 
        galleristi era improntato a un equilibrio di poteri analogo. I 
        produttori cinematografici erano personaggi notevoli, in grado di 
        investire e scommettere sugli autori, e l’industria del film non era 
        ancora influenzata dalle nuove abitudini e dai nuovi mercati televisivi. 
        Il mondo dei consumi, benchè in pieno boom, si appoggiava su linguaggi 
        tradizionali e su modi tradizionali di costruire narrazioni.
 
 La vera cultura di massa è affare assai più recente, legata alla 
        mondializzazione dei mercati e all’espansione infinita dei consumi, che 
        hanno inghiottito e omologato anche i consumi culturali, un tempo 
        ritenuti quantomeno anomali o, come diceva Escarpit, imprevedibili (e di 
        conseguenza poco maneggevoli per l’industria). Ma il punto è che non è 
        più ipotizzabile una separazione netta tra linguaggio e confezione, che 
        ricalchi quella gloriosa tra forma e contenuto. Non è più pensabile un 
        astratto luogo della creazione che non sia in relazione di scambio con 
        il mercato, che operi a un livello alto e inattingibile. La rete 
        dell’industria della comunicazione, così integrata e pervasiva, incide 
        necessariamente sulla trasformazione dei sistemi simbolici e delle 
        tecniche di discorso, creando quello che è stato chiamato “pulviscolo 
        comunicativo”, all’interno del quale mediamente lo scrittore, il 
        regista, il designer, compiono le proprio scelte, elaborano il proprio 
        linguaggio. Il consumo è, oggi, forse il più potente produttore di 
        immaginario; racconta universi affascinanti che liberano e modulano il 
        desiderio, universi totali e ludici con cui le narrazioni tradizionali 
        devono confrontarsi, facendo piratesche incursioni, imitando, 
        ironizzando.
 
 Tutto ciò non vuol dire che la libertà creativa sia scomparsa, il genio 
        mortificato a mero talento; ma certo le punte di eccellenza, prima assai 
        più facilmente individuabili, annegano nel grande mare della 
        comunicazione, nelle miriadi di occasioni create dall’organizzazione di 
        massa del tempo libero. Persino l’avanguardia è stata risucchiata dalla 
        macchina del mercato, che non tollera gli scarti inutilizzabili; quella 
        che è stata la parte meno masticabile e digeribile della storia della 
        cultura moderna è stata finalmente metabolizzata, riciclata e 
        redistribuita nell’onnivoro sistema degli eventi. L’attribuzione di 
        responsabilità e compiti storici alla letteratura (idea dura a morire, 
        da Vittorini alla Morante fino a Consolo), che fa ritenere a tanti 
        scrittori di parlare da un pulpito “più” autorevole, è incompatibile con 
        il nuovo scenario, in qualunque formulazione si tenti di accreditarla. 
        L’autore, o, come si dice oggi, l’operatore culturale, deve fare i conti 
        con questa desacralizzazione e insieme estensione della fruizione di 
        cultura. Il nuovo approccio è omologante, ma anche democratico, 
        distrugge il potere elitario del chierico, rende ogni forma d’arte 
        interscambiabile, nell’accesso, nel linguaggio, nella modalità del 
        consumo. Ascoltare Mozart o Britney Spears è, per certi versi, 
        indifferente: gli spazi, l’organizzazione dell’evento, la pubblicità del 
        brano (Mozart o Spears) sono ormai assimilabili. Certo, restano nicchie 
        di consumo più oscuro, decisamente minoritario che, con sollievo, 
        possiamo ritenere al riparo da entusiasmi allargati... ma quanto possono 
        resistere?
 
 Secondo Arnold Gehlen, la caratteristica dominante della realtà 
        contemporanea è la cristallizzazione. L’analisi del filosofo tedesco è 
        contenuta in un articolo del 1964, ma prefigura con acutezza gli 
        sviluppi di quell’eterno benessere in cui l’Occidente è sprofondato, che 
        annulla il movimento del tempo e il vecchio concetto di progresso. Le 
        basi del nostro sistema sono date, e percepite, come irreversibili, a 
        meno di grandi catastrofi; il sistema appare quindi “equivalente alla 
        natura”, come una sorta di grande a priori. L’analisi di Gehlen corre 
        sulla superficie, sulle increspature della nostra civiltà, senza vera 
        parentela con le teorie sulla fine della storia. Ma il quadro, nella sua 
        bidimensionalità, è preciso: “cristallizzazione significa che 
        diminuiscono le probabilità di mutazioni fondamentali nei princìpi della 
        cultura, mentre invece il numero e il ritmo delle variazioni 
        superficiali aumentano”.
 
 Anche dal punto di vista creativo, la nostra è una società in gran parte 
        immobile, che ha spento l’innovazione ed è ricorsa sempre di più al 
        piacere combinatorio, alla citazione autoreferenziale: le ultime vere 
        rotture stilistiche sono roba di modernariato. Si torna indietro, si 
        riutilizza quello che si era lasciato cadere, rimescolando i generi e le 
        forme, scomponendo e ricomponendo, in una sorta di gioco incontrollato. 
        In compenso si allargano gli spazi, in un’orizzontalità avvolgente: 
        abbiamo a disposizione la produzione culturale dell’intero pianeta per 
        comporre il nostro puzzle, possiamo pescare da culture diverse, 
        tradizioni diverse, e agitare tutto in uno shaker. Ogni tipo di ruolo 
        pubblico dell’intellettuale, carismatico o profetico, non può che 
        scontrarsi contro questo appiattimento di senso, e persino le biografie 
        leggendarie, le vite maledette, sono diventate merce rara. Gli 
        intellettuali vivono più o meno intorno alla scuola e all’università, 
        prendono i finanziamenti statali o della Rai (che è lo stesso) per 
        girare i film, fanno anticamera dagli assessori alla cultura per 
        organizzare eventi, vanno in televisione a pubblicizzare se stessi o 
        lavorano presso l’odiata Mediaset come acclamati autori di programmi 
        televisivi. Esattamente come i nostri no-global campano di lavori 
        socialmente utili, tra volontariato (remunerato), cooperative, centri 
        sociali foraggiati da benevoli sindaci di An o Forza Italia.
 
 Nonostante il mutare delle condizioni, l’autopercezione non cambia. 
        Cresciuti, talora invecchiati, nella convinzione di avere un ruolo 
        pubblico privilegiato, ben oltre le proprie specifiche competenze, e di 
        essere in grado di illuminare le strade del futuro, gli intellettuali 
        non possono accettare la “perdita dell’aureola”. Se, svolgendo 
        semplicemente i loro compiti, nessuno li ascolta, sono costretti 
        all’invasione di campo, al furto di palco e di microfono, insomma a 
        cambiare, almeno per qualche ora, mestiere. Anche qui Gehlen vedeva 
        giusto: artisti e intellettuali mantengono viva una terminologia 
        rivoluzionaria ormai inadeguata perché “esprimono in queste formule, da 
        lungo tempo cristallizzate, il disagio per il fatto che la società 
        industrializzata non attribuisce più loro un’importanza determinante”.
 
 21 giugno 2002
 
 (da Ideazione 3-2002, maggio-giugno 2002)
 
 
 
 
 
 
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