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        Ceti “colti” e lotta politica in Italiadi Giuseppe Sacco
 
 Con questa magistrale pagina giornalistica, Christopher Emsden, ha 
        commentato, per i lettori dell’International Herald Tribune1 
        l’assassinio dell’intellettuale che aveva osato sfidare il clima della 
        contrapposizione totale e – senza cambiare i propri convincimenti 
        politici di fondo – aveva accettato di collaborare col nuovo governo del 
        suo Paese, dopo il cambiamento avvenuto in virtù del sistema elettorale 
        maggioritario ormai in vigore in Italia. Ma il giornalista americano ha 
        contemporaneamente dato una definizione dell’intellettuale assai diversa 
        da quella corrente, ed ha toccato le molte questioni che si sono venute 
        ponendo relativamente al ruolo dei “ceti colti” nel quadro della vita 
        politica italiana, su come sia mutato il rapporto tra intellettuali e 
        politica dopo le profonde trasformazioni avvenute nello scorso decennio: 
        il crollo del comunismo, la fine dei governi a guida democristiana, ed 
        il passaggio dal sistema proporzionale a qualcosa che rassomiglia molto 
        al maggioritario in vigore nei Paesi occidentali dalla grande tradizione 
        democratica, in primo luogo in Inghilterra. Si tratta di interrogativi 
        di non poco momento. Perché un così grande numero di coloro che si 
        autodefiniscono “intellettuali” si rifiutano di accettare il cambio di 
        maggioranza liberamente deciso dagli Italiani?
 
 Non basta dunque la vittoria ottenuta alle urne il 13 maggio, con lo 
        stesso sistema elettorale che aveva portato al potere Romani Prodi, per 
        dare legittimità ad un governo di cui si mette sprezzantemente in luce 
        sempre e soltanto la componente descamisada delle valli prealpine? O 
        invece, anche in politica vale – almeno per l’Italia – il principio 
        sostenuto dall’aristocrazia del danaro, che i voti non si contano, ma si 
        pesano? E che la sola fiducia del Parlamento non basta per governare, ma 
        occorre anche – e soprattutto – la legittimazione data dai “chierici” 
        della cultura? E, d’altro canto, cosa può contrapporre quella parte che 
        ha portato al potere l’attuale maggioranza all’evidente mobilitazione 
        contro di essa di una vasta area di intelligencija, che ha finito 
        addirittura per contestare i suoi propri esponenti politici, perché 
        considerati troppo concilianti, troppo disposti a lasciare che il 
        verdetto delle urne trovi riscontro in un governo accettato da tutti? E 
        perché le simpatie politiche degli uomini di cultura e degli esponenti 
        delle professioni liberali che hanno votato per il centro-destra, o lo 
        sostengono apertamente, non pesano, nel dibattito politico, quanto 
        quelle per la sinistra? Perché le loro simpatie politiche rimangono un 
        fatto individuale, ed essi non riescono (per usare un orrendo, ma 
        diffuso, modo di dire) a “fare branco”?
 
 Il pendolo delle grandi democrazie
 
 Per trovare una risposta a questi interrogativi è necessario risalire 
        alle caratteristiche e al funzionamento del meccanismo elettorale 
        bipolare e maggioritario che tende faticosamente ad affermarsi nel 
        sistema politico italiano. Il modello è quello del sistema che, nella 
        grande tradizione democratica dell’Inghilterra, determina lo spostamento 
        del “pendolo” del potere, alternativamente dai conservatori ai 
        laburisti, e viceversa. In questo modello, solo alcuni ceti sociali si 
        organizzano attorno ai propri interessi. È il caso, in Inghilterra, di 
        lavoratori dipendenti che – attraverso i loro sindacati – hanno a lungo, 
        sino all’avvento di Tony Blair, costituito la spina dorsale del partito 
        laburista, così come la Confederation of British Industry è stata – e 
        rimane – (assieme alla Corona e alla Finanza) un punto di riferimento 
        essenziale del Partito conservatore. A queste forze, che rappresentano i 
        due poli della dialettica politico-sociale, tocca il ruolo di farsi 
        elaboratrici e portatrici delle diverse proposte politiche tra le quali 
        l’elettorato è chiamato a scegliere.
 
 Al “voto d’opinione” – che è poi quello dei ceti sociali “colti”, 
        informati e dotati di capacità critica – tocca invece un altro ruolo 
        assolutamente determinante. Il “voto d’opinione”, lasciandosi 
        alternativamente convincere da una delle due estreme, sceglie chi debba 
        essere l’inquilino di Downing Street, e quindi decide l’alternanza di 
        politiche che di volta in volta danno la priorità all’accumulazione 
        oppure alla distribuzione delle risorse. Parafrasando un proverbio, il 
        funzionamento di tale sistema potrebbe, perciò, essere riassunto dicendo 
        che la destra e la sinistra propongono, e il centro dispone. Mentre il 
        voto delle classi lavoratrici e popolari è stabilmente di sinistra e 
        quello delle classi imprenditrici e più ricche è stabilmente di destra, 
        è il voto d’opinione – che sociologicamente è politicamente non 
        estremista – coincide in gran parte con le classi medie impiegatizie e 
        professionali – che, spostandosi alternativamente verso la proposta 
        politica che proviene da ciascuna delle due estreme, determina di volta 
        in volta le oscillazioni del pendolo del potere. Anche senza avere 
        partiti propri, anzi proprio perché non ha struttura di inquadramento 
        permanente, il voto d’opinione esercita insomma un potere assolutamente 
        decisivo, appoggiando una linea più conservatrice o più progressista a 
        seconda sia delle situazioni obiettive sia delle capacità dei leaders 
        dei due lati.
 
 Ciò chiarisce il diverso ruolo degli intellettuali organici e 
        non-organici. Mentre gli intellettuali che si identificano stabilmente 
        con la destra o con la sinistra debbono svolgere un’intensa attività di 
        elaborazione e proposta politica, dando contenuti, carica e vivacità 
        alla contrapposizione politica, agli intellettuali non organici, che si 
        collocano nell’area del “voto d’opinione” tocca un ruolo che richiede 
        più capacità critica che spirito propositivo, maggiore freddezza e 
        indipendenza di giudizio. Tocca il ruolo di informare onestamente 
        l’opinione pubblica, di orientare il “voto fluttuante” nella sua libera 
        critica del governo e dell’opposizione, e nella decisiva oscillazione 
        elettorale. Le due estreme hanno, perciò, a fini di elaborazione delle 
        loro proposte, bisogno di un nucleo di intellettuali organici – per i 
        laburisti sono noti anche in Italia quelli della Fabian Society – mentre 
        la società nel suo insieme ha bisogno di intellettuali critici, che 
        facciano da opinion leaders, di intellettuali che esercitando di volta 
        in volta il proprio giudizio, senza imbarazzarsi di altra fedeltà che 
        non sia quella con la propria coscienza e le proprie convinzioni di 
        fondo, cioè pensando ed esprimendosi in piena libertà, consentano alla 
        società nel suo complesso di indirizzare di volta in volta il proprio 
        percorso. È la presenza nella società di una forte rappresentanza di 
        questo tipo di intellettuali che garantisce la libertà e il pluralismo 
        delle opinioni, e non la lottizzazione delle istituzioni culturali da 
        intellettuali organici dei due bordi. Ed è per questo che il successo 
        professionale degli intellettuali che si collocano nell’area politica 
        corrispondente al “voto di opinione”, dovrà – pena un collasso del 
        sistema dell’alternanza – essere indipendente dalla loro“fedeltà” ad uno 
        dei due campi, e che tale indipendenza dovrà essere garantita dai 
        meccanismi classici della società liberal-democratica, come 
        l’inamovibilità dei professori universitari.
 
 Il sistema maggioritario tipico dei grandi Paesi dell’Occidente a 
        tradizione democratica stenta però a mettere radici in Italia, 
        nonostante esso sia stato introdotto nella legge elettorale. Ed infatti 
        molte delle vicende che hanno fornito il pretesto per accusare l’attuale 
        maggioranza di scarsa abitudine alla prassi democratica sono, in realtà, 
        legate alla difficoltà del passaggio dalla vecchia logica tipica del 
        sistema proporzionale a quella del maggioritario. Non solo le difficoltà 
        nell’elezione dei componenti del Csm e della Corte costituzionale, ma 
        anche quelle incontrate nella nomina del Cda della Rai discendono in 
        larga misura dal fatto che i meccanismi previsti per queste decisioni 
        sono pensati in funzione di Camere in cui nulla si poteva deliberare se 
        non attraverso compromessi e lottizzazioni tra molte forze politiche, 
        nessuna delle quali era normalmente in grado di avere una maggioranza. 
        Il contesto formato dalla prassi e dalle istituzioni è insomma rimasto 
        quello antico, e stride con i risultati di elezioni condotte col nuovo 
        sistema. Ed in questo contesto ancora “vecchia Repubblica” rientra la 
        mentalità di coloro che hanno ottenuto una reputazione di 
        “intellettuali” grazie alla pratica della lottizzazione.
 
 Il maggioritario culturale
 
 Il disagio evidente suscitato dal distorto dibattito politico 
        dell’Italia odierna, e l’eccitazione di taluni media stranieri, che 
        guardano all’Italia e alle sue imprese come terra di conquista, 
        discendono direttamente da una visione deformata della questione dei 
        rapporti tra intellettuali e politica. Non si vuole infatti prendere in 
        considerazione il fatto che l’esistenza di una maggioranza forte, e il 
        sistema bipolare che la rende possibile, sono solo un modo per 
        assicurare la governabilità del Paese, ma non implicano un bipolarismo 
        culturale. Non si riesce a capire che lo stesso bipolarismo politico 
        verrebbe meno, se si giungesse ad una spaccatura del paese in due – e 
        soltanto due – campi d’opinione tra loro contrapposti in tutto, e del 
        tutto omogenei al loro interno. Anzi, come abbiamo visto, ciò che fa dei 
        paesi che adottano il sistema maggioritario le grandi democrazie a 
        tradizione democratica è proprio il fatto che, al di fuori delle due 
        minoranze ideologicamente molto caratterizzate, esiste un’ampia e 
        determinante area non etichettabile ideologicamente.
 
 Del resto il passaggio da un sistema elettorale proporzionale a quello 
        maggioritario, non è significato la sparizione delle vecchie tradizioni 
        e familles politiques. L’esperienza costituzionale francese dell’ultimo 
        cinquantennio ne è un eccellente esempio. Né le molteplici mutazioni, di 
        sistema elettorale durante la Quarta Repubblica, né il passaggio alla 
        Repubblica presidenziale, né le successive esperienze della lunga 
        “monarchia elettiva” mitterandiana, e della diarchia della cohabitation, 
        sono riuscite a scalfire il sistema di inquadramento permanente 
        dell’elettorato in “fedeltà” addirittura ereditarie, mentre le cariche 
        dello Stato passavano alternativamente dalla destra alla sinistra e 
        viceversa. Da parte di alcuni gruppetti micro-intellettuali italiani, il 
        sistema maggioritario viene invece visto proprio così, come uno scontro 
        tra “pensieri unici” contrapposti, tra i quali ognuno sarebbe obbligato 
        – rinunciando ad ogni capacità e diritto di critica – a scegliere per 
        un’adesione totale. La dialettica politica sarebbe ridotta alla 
        contrapposizione perfetta di due modi di concepire la società e 
        addirittura la vita: uno dominato dal fine di (volgarmente) migliorare 
        le condizioni economiche, l’altro di preservare i canoni etici, ed 
        addirittura estetici, che costituiscono i (presunti) “quarti” di nobiltà 
        dei ceti intellettuali. Ne risulterebbe una sorta di consacrazione della 
        guerra civile permanente.
 
 Ciò per fortuna non accade se non negli slogan di qualche becero 
        conduttore di talk show, nei deliri senili di qualche giudice in 
        pensione, nell’esibizionismo di qualche regista, e nell’agitazione al 
        limite del ballo di San Vito, di qualche professore. Costoro si 
        spacciano così per difensori di una “europeità” dell’Italia che dicono 
        minacciata. Ma provincialmente ignorano e faziosamente trascurano il 
        fatto che, proprio nelle grandi democrazie a sistema maggioritario, una 
        tale spaccatura, una tale perdita di capacità di giudizio autonomo da 
        parte dell’opinione pubblica non direttamente coinvolta nella (e non 
        dipendente economicamente dalla) politica sarebbe considerata una vera 
        tragedia. E in un paese come il nostro – con tradizione democratica 
        recente o distorta dalle contrapposizioni ideologiche dell’ultimo 
        cinquantennio – significherebbe ricadere in un clima di sterile scontro 
        frontale tanto più gridato e venato di odio personale, in quanto tale 
        scontro non trova più le giustificazioni tipiche degli anni in cui 
        un’invisibile cortina di ferro attraversava il paese, e in cui i leaders 
        d’opinione non erano interni alla società italiana, bensì si trovavano a 
        Mosca e all’Avana da un lato, e a Washington e in Vaticano dall’altro. 
        Significherebbe perdere tutto il beneficio delle recenti conquiste del 
        nostro paese. Perché la fine della frammentazione mondiale ha 
        significato per l’Italia che un’enorme fascia mediana dell’opinione 
        pubblica è stata rimessa in libertà, e restituita al suo ruolo 
        decisionale, sino ad allora brutalmente espropriato: un ruolo assai 
        impegnativo che richiede dagli intellettuali un equilibrio, un’autonomia 
        intellettuale e critica, ed una capacità di leadership cui essi non 
        erano abituati, che ad essi non era sino a ieri richiesta, e che molti 
        non ce la fanno ad improvvisare.
 
 A disagio con la comunità scientifica
 
 Come quei preti che non capivano il latino, quella dei “chierici” è, in 
        Italia, una categoria tanto più autoreferenziale e arrogante quanto più 
        tagliata fuori dal sapere contemporaneo, e tanto più dedita a fare 
        politica quanto più distaccata dalla realtà socio-economica del 
        ventunesimo secolo. In ciò, il nostro Paese sembra imitare lo stantìo 
        modello francese, dove gli intellettuali sono una casta che vive di 
        frasi fatte e atteggiamenti fasulli, strettamente ereditaria e 
        fortemente sovvenzionata dallo Stato, una casta non a caso 
        autodefinitasi “mandarinale”. Assai distante è invece il modello 
        vincente dei Paesi anglosassoni, dove l’élite intellettuale ha forte 
        carattere scientifico-tecnico, lascia ampi margini al merito, oltre che 
        all’origine sociale, e misura il proprio contributo alla vita della 
        collettività più in termini di brevetti e premi Nobel che non attraverso 
        l’attività di firmare manifesti più o meno “indignati”.
 
 Nelle società, come quella italiana, poco dinamiche dal punto di vista 
        tecnologico (a differenza di quelle anglosassoni), ma poco rigida (a 
        differenza di quella francese) nella divisione stagna tra le classi 
        sociali, non si incontrano né i superbi e arroganti “mandarini” 
        tratteggiati da Simone de Beauvoir né gli scienziati sempre in 
        concorrenza per il successo, che popolano Silicon Valley. Esiste invece 
        solo un “generone” intellettuale, con cui tende ad identificarsi una 
        quota assai rilevante della forza-lavoro che svolge attività di tipo 
        terziario. Ed una parte cospicua dell’opinione pubblica è composta da un 
        ampio strato impiegatizio che però, anche se svolge un lavoro frustrante 
        e mal pagato, cerca di farsi passare – agli occhi altrui e soprattutto 
        ai propri – come fondamentalmente diverso e “superiore” rispetto a 
        coloro che svolgono attività legate alla produzione.
 
 Non a caso, è costante la lamentazione da parte dei piccoli 
        “intellettuali” di guadagnare meno dell’idraulico, mentre il piccolo 
        imprenditore viene sprezzantemente chiamato “industrialotto”, bottegaio 
        o “scarparo”. Questa pretesa “superiorità”, insomma, non è economica, 
        bensì percepita, e soprattutto esibita, come sociale e addirittura 
        morale. La mentalità di questa lower middle class porta spesso a 
        comportamenti economicamente irrazionali, come quelli visibili – ad 
        esempio – nella situazione che si registrava a Prato, negli anni 
        Ottanta. In una piccola città in cui c’erano circa ottocento diplomati 
        disoccupati, si manifestava un tale fabbisogno di operai che, a chi 
        accettava di lavorare un sabato alla cardatura degli stracci si offriva 
        di guadagnare un milione – di allora – in un solo giorno. Tra l’offerta 
        e la domanda di lavoro si inseriva infatti un pregiudizio sociale e 
        “culturale” che faceva considerare degradante il lavoro in fabbrica agli 
        esponenti del ceto mini-intellettuale. Si inserivano cioè le 
        frustrazioni di una generazione che credeva, per aver approfittato della 
        scolarità di massa, di aver cambiato classe sociale rispetto ai propri 
        genitori, e che avrebbe vissuto come un fallimento peggiore della stessa 
        disoccupazione la necessità di accettare un lavoro dello stesso tipo di 
        quello grazie al quale i padri avevano potuto, negli anni precedenti, 
        mantenerla agli studi.
 
 Inutile dire che a questo particolare strato delle cosiddette classi 
        “colte” appartiene anche la grandissima maggioranza degli insegnanti 
        necessari alla prolungata scolarizzazione di massa tipica delle società 
        terziarizzate. Anzi, basta guardare ai leaders della triste 
        manifestazione dei professori di Firenze, per vedere come l’insegnamento 
        sia stato il rifugio di tutti coloro che, specie dopo il ’68, non sono 
        riusciti ad inserirsi nel sistema produttivo, e che traducono il loro 
        fallimento personale e politico in una vera e propria aggressione 
        intellettuale ai loro sfortunati studenti, cui essi tentano di 
        trasmettere una minestra riscaldata degli slogan pseudo-rivoluzionari 
        della propria generazione. Il disperato orgoglio con cui questa 
        categoria sociale enfatizza il carattere “non-manuale” della propria 
        attività è tanto più paradossale non solo perché tutta la sua retorica è 
        tratta dagli slogan storici del movimento operaio, ma anche perché 
        proprio con le categorie operaie “in tuta blu” essa ha oggi in comune il 
        difficile rapporto con il progresso tecnologico, che determina ormai le 
        trasformazioni sociali, e che li emargina sempre di più.
 
 Una finta sinistra
 
 Non è irrazionale che questa categoria sociale, pur nella sua sciocca 
        presunzione e nell’atteggiamento di disprezzo verso chi fa un lavoro 
        manuale, percepisca se stessa come politicamente a sinistra. La sinistra 
        organizzata è, per una nobile tradizione, quella in cui si riconoscono 
        le posizioni sociali più fragili. Non a caso le sue origini rimontano 
        alle organizzazioni degli operai sfruttati a sangue all’epoca della 
        rivoluzione industriale. Con il progresso tecnico, sempre più accelerato 
        degli ultimi anni, essa è tuttavia giunta talora ad atteggiamenti quasi 
        luddisti, volti a difendere posizioni fragilizzate dalla naturale 
        evoluzione dei tempi. Basti un esempio. Alla metà del Ventesimo secolo, 
        i sindacati inglesi imponevano ancora all’amministrazione ferroviaria di 
        tenere su ogni treno due tenderers, cioè due addetti al tender, il 
        vagone del carbone agganciato immediatamente dietro la locomotiva. E ciò 
        quando la locomotiva non andava più a carbone da decenni, e il tender 
        era scomparso. Oggi, con logica analoga, ai movimenti politici incapaci 
        di interpretare in maniera moderna il glorioso passato delle lotte 
        contro lo sfruttamento dei lavoratori, finiscono per fare riferimento 
        quelle categorie piccolo-impiegatizie, dotate di una infarinatura di 
        cultura, che percepiscono bene come il loro status sociale stia 
        rapidamente scendendo, anzi stia letteralmente precipitando, e che non 
        hanno, per ragioni intellettuali, di formazione o di età, la capacità di 
        autoriciclarsi in qualcosa di più professionale o coincidente con le 
        richieste del mercato, cioè in una attività intellettuale anche di tipo 
        minimamente creativo.
 
 L’ambiguo rapporto tra vecchi lavoratori dell’industria e lower middle 
        class appariva evidente nella manifestazione dei professori universitari 
        di Firenze. Era infatti chiaro come essi avvertissero di appartenere a 
        un ceto sociale ammuffito e spinto da parte dall’evoluzione sociale. Ma 
        era anche chiara la loro incapacità di reagire con lo strumento del loro 
        lavoro – la penna – anziché attraverso un corteo. Ci insegnano le storie 
        patrie che la penna fu l’arma con cui un uomo solo, Silvio Pellico, dal 
        fondo di una prigione inflisse all’Impero “più danno di una battaglia 
        perduta”. Ma cosa sarebbe stato Silvio Pellico in un corteo? Il corteo è 
        lo strumento di coloro che individualmente non riescono ad incidere, che 
        hanno solo il numero, la massa anonima per ottenere un briciolo di 
        “potenza”. E i professori di Firenze, rinunciando alle armi a loro 
        disposizione per conquistarsi una più creativa presenza sociale e 
        intellettuale, hanno scelto la via di una manifestazione che non ha 
        potuto che umiliarli ancora di più, soprattutto ai loro stessi occhi, 
        perché li ha fatti assomigliare ai lavoratori “del braccio”, da cui essi 
        tanto accanitamente tendono a distinguersi. Il disprezzo degli 
        “intellettuali” per coloro che svolgono un lavoro produttivo è un 
        fenomeno sociale e politico ben noto, che negli anni Venti ha portato i 
        piccoli impiegati a sostenere il fascismo contro l’emergente classe 
        operaia, che minacciava di erodere il loro esiguo margine di vantaggio 
        sociale. Ai professori di oggi – un tempo “baroni della cattedra”, ma 
        che non a caso da qualche anno vengono chiamati semplicemente “docenti”, 
        titolo un tempo usato solo per i maestri elementari – si pone però un 
        problema aggiuntivo, quello della perdita di ogni potere sociale. Alla 
        fine dell’Ottocento, persino il maestro era nel piccolo villaggio un 
        leader d’opinione. In Francia, era il pilastro dell’ideologia 
        repubblicana, dopo che si erano alternate due rivoluzioni, tre 
        repubbliche e due imperi. Oggi, questo ruolo è strappato persino ai 
        professori universitari da parte di altri – e assai più ricchi e 
        scintillanti – gruppi sociali.
 
 Il popolo delle partite Iva
 
 Un caso emblematico è quello accaduto qualche anno fa a proposito 
        dell’Osservatorio vesuviano, una struttura di ricerca sul vulcano e 
        soprattutto di controllo della sua attività, a fini di sicurezza della 
        popolazione. La carica di direttore di questa istituzione era sempre 
        spettata a un eminente vulcanologo dell’università di Napoli, che si 
        vedeva così conferito anche un potere “strategico” importante come 
        quello di dare l’ordine di evacuazione della popolazione. Ad uno degli 
        ultimi rinnovi di questa carica, tuttavia, qualcuno propose di cambiare 
        criterio e di dare questo ruolo ad un personaggio della televisione, 
        Piero Angela. Inutile dire quali furono le parole usate di fronte a 
        questa proposta. Tra i professori naturalmente prevalse la parola 
        “indignazione”, e gli ambienti universitari napoletani “insorsero”. A 
        nulla valse l’ovvia obiezione che se l’allarme fosse stato dato da Piero 
        Angela – su suggerimento, come è ovvio, di un vulcanologo – il milione e 
        passa di persone a rischio che abitano a bordo del cratere sarebbero 
        effettivamente scappate, mentre non era sicuro che avrebbero creduto ad 
        uno sconosciuto professore. Buon senso troppo terra terra! In realtà, 
        troppo forte era la frustrazione della categoria universitaria per la 
        perdita del proprio ruolo di leader d’opinione a vantaggio dei 
        cosiddetti “mezzobusti” televisivi.
 
 Il difficile rapporto tra il “ceto intellettuale” e la cultura 
        scientifico-tecnica è un fatto generale, ed è molto ben mostrato 
        dall’impatto che hanno avuto l’introduzione del computer (negli anni 
        Ottanta) e il boom della rete (negli anni Novanta). Come strumenti di 
        lavoro, il computer e la rete determinano infatti un notevole aumento 
        della produttività di alcuni gruppi sociali, mentre possono 
        rappresentare addirittura una minaccia per l’occupazione della lower 
        middle class impiegatizia, ed hanno seriamente contribuito a farne uno 
        strato sociale che in un mondo dominato dal progresso tecnico appare 
        sempre sul punto di essere spazzato via. A tutto ciò si aggiunge 
        l’impatto della standardizzazione e la diffusione della cultura 
        gestionale e del rischio. Questo altro aspetto della società 
        scientifico-tecnica contemporanea, mentre attribuisce a una parte delle 
        classi professionali la possibilità di vendere in maniera autonoma i 
        frutti del proprio lavoro, emargina totalmente le classi impiegatizie 
        abituate al tran-tran e al rifiuto di ogni responsabilità.
 
 Non può, quindi, sorprendere che queste ultime guardino ai sindacati e 
        ai partiti di tradizione operaia come strumento di rappresentanza 
        politica, mentre gli strati professionali che possiamo chiamare upper 
        middle class, non si riconoscono in tale rappresentanza e chiedono, 
        piuttosto, condizioni che favoriscano la loro capacità di spendersi 
        individualmente. Più in generale, gli uni percepiscono il perseguimento 
        del proprio interesse economico e sociale come un’azione collettiva, gli 
        altri come un’azione individuale. È chiaro, insomma, che è ad un ceto 
        intellettuale troppo ignorante dal punto di vista tecnico per inserirsi 
        nella new economy e nella società dell’informazione, può parlare solo 
        una forza politica che si spaccia per sinistra, ma è in realtà 
        fortemente conservatrice dal punto di vista sociale. Cioè una “sinistra” 
        che sinistra non è, anzi è il suo esatto contrario.
 
 La forte presenza di questa lower middle class, pseudo-intellettuale 
        nell’opinione “di sinistra” in Italia, non solo impedisce che venga 
        svolta quell’azione di elaborazione e di proposta che, in un sistema 
        bipolare, tocca – come abbiamo visto – agli intellettuali “organici”, ma 
        finisce per avere effetti devastanti sulle stesse organizzazioni 
        politiche dei lavoratori. La “fascia bassa” delle classi colte, per 
        l’assenza di chiara coscienza della propria vera collocazione nella 
        gerarchia dei rapporti di produzione, andrebbe considerata, in termini 
        marxisti, come parte del sottoproletariato. Ed essendo, come 
        quest’ultima amorfa massa, facile preda di ogni populismo e di ogni 
        demagogia, essa ha dunque un rapporto assai difficile con la classe 
        operaia, come lo ha con l’upper middle class. Ed inevitabilmente 
        attribuisce alla politica non solo obiettivi, ma anche “modi” operativi 
        molto differenti da quelli tradizionali del movimento operaio. 
        Nell’esaminare le caratteristiche e il ruolo politico delle cosiddette 
        “classi colte” bisogna perciò distinguere la lower middle class 
        dall’upper middle class, che in Italia viene oggi detta “il popolo delle 
        Partite Iva” e che lavora nelle cosiddette professioni liberali e 
        nell’industria culturale, entrambe enormemente sviluppatesi negli ultimi 
        anni.
 
 Questa seconda categoria – in cui rientra quella minoranza di professori 
        universitari che non si dedicano solo a risibili lotte per il potere 
        accademico – si distingue dalla lower middle class anche per motivi non 
        politici, e per il tipo di lavoro. Essa può infatti vantare una 
        caratteristica “creativa” della propria attività, che non può essere 
        invece riconosciuta alla prima categoria.
 La “scintilla” che la contraddistingue può essere piccola o grande, 
        talora assai visibile – come nel caso del giornalista – e talora anche 
        minima, ma basta comunque a differenziarla dalla micro-intelligencija 
        impiegatizia, dai semplici passacarte. Perché anche quando è di secondo 
        livello, il lavoro creativo rimane differente, e presenta aspetti che lo 
        fanno assomigliare a quello dell’artigiano, cioè ad un tipo di 
        lavoratore che notoriamente trae grande gratificazione dalla propria 
        attività. Ed un artigiano – sempre per restare nella terminologia 
        marxista – non appartiene al proletariato, ma svolge una professione 
        tipica delle forme che precedono la produzione capitalistica, e non è 
        perciò coinvolto nella “reificazione dell’umano” e nella conseguente 
        degradazione morale.
 
 Produttori e ripetitori di idee
 
 La linea di demarcazione tra due componenti della middle class coincide 
        largamente con la distinzione tra consumatori e produttori di cultura. 
        Questa distinzione implica una differenza concettualmente assai chiara. 
        Ad esempio, per quel che riguarda la cultura cinematografica, i 
        newyorkesi sono quasi esclusivamente consumatori, mentre i produttori si 
        trovano a Los Angeles. Ciò – almeno a prima vista – significa che, in 
        una società come quella americana in cui il cinema svolge un vero e 
        proprio ruolo di costruzione del consenso, gran parte del pensiero dei 
        consumatori è pesantemente condizionato dai produttori losangelegni di 
        un prêt-à-penser accuratamente elaborato. Cioè che i primi dipendono dai 
        secondi. New York da Los Angeles. La lower middle class pensa in pratica 
        con la testa dell’upper middle class. Ma come si spiega allora che la 
        massa della lower middle class può sviluppare un proprio autonomo 
        atteggiamento politico-culturale-estetico, e che in Italia questo prenda 
        l’assetto – a tutti visibile – di un rigetto di un’élite politica, che 
        essa avverte come a sé estranea, e che invidia nel profondo al punto di 
        odiarla? Come si spiega che queste frustrazioni vengano espresse, come 
        ha scritto Emsden, "da celebrità che hanno ottenuto una reputazione 
        culturale"?
 
 Si spiega col fatto che, nella società dei consumi culturali di massa, 
        anche i produttori dipendono, da un punto di vista di mercato, dai 
        consumatori, specie in un’epoca in cui i maitres-à-penser non si 
        esprimono più – come avveniva all’epoca di Omero – in versi da 
        diffondere e tramandare a memoria, oppure – come è avvenuto dall’epoca 
        di Martin Lutero sino alla Rivoluzione francese – in pamphlets passati 
        di mano in mano, bensì attraverso costosissime produzioni 
        cinematografiche. Tra il creatore e il consumatore di cultura si 
        inseriscono perciò figure nuove, come colui che finanzia la produzione e 
        coloro che curano la distributore e la promozione, ecc. Di fatto, 
        insomma, il creativo è vincolato – in realtà più nei suoi atteggiamenti 
        come persona pubblica, che nella sua opera – da gusti, tic e pregiudizi 
        della massa dei consumatori. Il mercato culturale impone cioè alla parte 
        bassa dei ceti colti le creazioni della parte alta, ma trasmette anche 
        nel senso inverso potenti condizionamenti. Il meccanismo è, insomma, in 
        tutti i campi, analogo a quello che vediamo nella moda, dove le scelte 
        dei creativi vengono imposte ai consumatori anche contro ogni buon 
        senso, ma in cui il malgusto dei consumatori, il loro bisogno di 
        supplire all’assenza di personalità con la stravaganza nel vestire viene 
        anche tenuto in grandissima considerazione dai creativi.
 
 Significativo è ciò che avviene sul mercato del cinema. Qui, per i 
        creativi che hanno difficoltà ad affermarsi, diventa essenziale 
        l’imposizione dei loro prodotti al pubblico da parte di quella complessa 
        macchina di diffusione del prêt-à-penser che è il sistema 
        pubblicità-critici cinematografici-stampa politicamente impegnata. E 
        diventa perciò utilissimo che il regista, o l’attore, si dichiarino – 
        nella loro vita personale – politicamente allineati con le posizioni e 
        gli interessi di questa complessa struttura, fatta di persone che – 
        almeno in Italia – vivono di occupazioni para-pubbliche, e che sono 
        state inserite nelle strutture culturali dello Stato e delle 
        amministrazioni locali sulla base della loro fedeltà acritica all’unica 
        forza politica che ha fatto sistematicamente quel “lavoro culturale” 
        deliziosamente descritto da Luciano Bianciardi in un famoso romanzo.
 
 Questo demi monde pseudo-colto finisce col dare una linea precisa a 
        coloro che, privi di ogni talento, cercano non di meno il successo 
        culturale. Non è un caso se le critiche a D’Alema, il solleticamento 
        delle frustrazioni dei bassi livelli dei ceti colti, non siano venute da 
        Roberto Benigni, che è riuscito a sfondare sul mercato mondiale, 
        aggirando persino il formidabile muro del protezionismo americano. Non è 
        un caso che essa sia invece venuta da Nanni Moretti, che l’Oscar non è 
        riuscito neanche a sfiorarlo e il cui successo non trova nessuno spazio 
        se non fuori da un preciso ambiente mini-intellettuale italiano, di cui 
        peraltro i suoi film riproducono le frustrazioni e le problematiche. La 
        lower middle class che “dice cose di sinistra”, le “classi colte” 
        impiegatizie o comunque non professionali, non potrebbero neanche 
        balbettare la metà dei loro luoghi comuni senza essere riforniti di 
        slogan belli e pronti da parte di quei particolari gruppi sociali che 
        gli inglesi chiamano, the chattering classes, “le classi chiacchierone”, 
        che dominano il mercato culturale, e le grandi istituzioni della 
        comunicazione. Il loro modello di riferimento, per quel che riguarda la 
        leadership, è infatti quello del rapporto tra il pubblico dei villaggi 
        vacanze e il cosiddetto “animatore culturale”, o – se si preferisce – 
        quello del rapporto che intercorre tra il conduttore di un talk show 
        televisivo e i cosiddetti bravieri: una sottocategoria – meglio pagata – 
        del pubblico che presente durante le trasmissioni ha il compito di 
        battere le mani quando si accende il pannello “applausi”. I bravieri 
        sono l’élite di questa massa poco differenziata perché, ad un apposito 
        segnale, non solo battono le mani, ma gridano anche “bravo! bravo!”, e 
        per questo guadagnano di più.
 
 L’industria del prêt-a-penser ha dunque, come ogni settore 
        dell’economia, un’offerta e una domanda, alcuni produttori specializzati 
        ed un mercato ben identificato come orientamento culturale, come livello 
        economico e come collocazione sociale. Ciò si riflette sulla natura e la 
        definizione del prodotto offerto che, naturalmente, non ha solo lo scopo 
        di consentire di partecipare al suddetto chiasso della vita politica 
        italiana, ma anche funzioni – ben più importanti economicamente – di 
        svago e soprattutto di soddisfazione psicologica attraverso la 
        promozione dell’auto-immagine. L’industria culturale, rispetto a questi 
        ceti che costituiscono il suo naturale mercato, deve fornire anche gli 
        strumenti per compensare psicologicamente il disagio creato dal fatto 
        che l’impiegato, pur credendosi “superiore” guadagna meno dell’idraulico 
        o del tassista. I media rivolti a questo pubblico (ad esempio il 
        quotidiano Repubblica) si differenziano perciò dai media rivolti agli 
        idraulici e ai tassisti (come la Gazzetta dello Sport) perché accanto 
        alle pagine sportive offrono anche pagine culturali.
 
 È facile capire la finalità di queste pagine, come dei prodotti 
        culturali (film, libri) che da queste vengono promosse. Basta guardare 
        alla sostanziale incomprensibilità e alla totale inconcludenza degli 
        articoli pubblicati. È esperienza comune leggere un intero paginone 
        centrale di Repubblica, senza veramente riuscire a capire di cosa si 
        stia parlando, o arrivare all’ultima pagina dell’Espresso, con la 
        dolorosa constatazione di aver capito ancora meno del mondo di quanto 
        non si capisse quando si è affrontata la prima pagina. Eppure, i più 
        frustrati dei lettori ricevono da ciò una sorta di promozione 
        psicologica che si spiega solo con i parametri mentali di Woody Allen, 
        che non a caso è uno dei loro idoli. Woody Allen diceva: «Io non 
        accetterei mai di entrare in un club che prendesse come socio uno come 
        me». I lettori di Repubblica, invece, si sentono promossi 
        intellettualmente e socialmente per il fatto di leggere articoli così 
        “colti” da essere incomprensibili. Seguendo lo stesso meccanismo 
        psicologico, essi compreranno – come suggerito dal loro giornale – Il 
        pendolo di Foucault di Umberto Eco. Non riusciranno mai ad andare oltre 
        la terza pagina (anche saltando la lunga citazione iniziale in ebraico) 
        ma lo esibiranno sul tavolinetto del loro salotto come uno status 
        symbol. Utilizzeranno cioè questo libro tanto “fico” da essere 
        addirittura illeggibile come uno strumento di promozione sociale.
 
 La rottura dei ceti colti
 
 La fondamentale differenza di collocazione socio-economica di questi 
        “intellettuali” perdenti rispetto a quelli che riescono ad essere, in 
        qualche modo, “vincenti”, non può che produrre un diverso atteggiamento 
        psicologico e politico. Nel primo caso sarà frustrato e rancoroso e, nel 
        secondo, ottimista (anche se talora solo dell’ottimismo della volontà) e 
        collaborativo. E soprattutto porta ad una diversa collocazione politica, 
        ad una diversa domanda di rappresentanza e ad un diverso tipo di critica 
        nei confronti del sistema e del potere. La rottura tra “ceti colti” di 
        successo e “ceti colti” ripiegati su se stessi, che si è consumata in 
        Italia negli ultimi dieci-quindici anni sfugge completamente al “nuovo” 
        teorico di importazione della sinistra, il professor Paul Ginsborg, che 
        forse non a caso costituisce un esempio più unico che raro di “fuga di 
        cervelli” da un sistema universitario assai avanzato – e che garantisce 
        visibilità mondiale – come quello anglosassone ad uno semidisastrato e 
        provinciale come il nostro. Ginsborg, in un suo articolo su Repubblica, 
        accomuna infatti in un’unica, e da sempre ambigua, categoria – il“ceto 
        medio” – figure professionali tra loro assai diverse: "insegnanti, 
        professionisti, operatori sociali, donne da poco inserite nel mercato 
        del lavoro, studenti, figure professionali legate alla new economy, 
        tecnici, dirigenti del settore pubblico".
 
 Nulla è meno marxista di questa ammucchiata, che non tiene conto della 
        collocazione di queste ed altre simili figure professionali, nel sistema 
        dei rapporti di produzione, e della fondamentale diversità dei due modi 
        in cui si forma il loro reddito. I salariati, in cambio di danaro, 
        offrono le ore della loro vita (sono cioè degli “alienati” nel senso più 
        marxista del termine), e si scontrano di conseguenza con un limite 
        invalicabile di quanto può essere ottenuto col loro lavoro, anche 
        attraverso gli straordinari, cioè attraverso l’autosfruttamento. I 
        professionisti – invece – possono guadagnare tanto di più quanto 
        maggiore è la loro fantasia, creatività, capacità di innovare e di 
        spendersi sul mercato. In ciò, essi hanno un significativo punto di 
        contatto con la classe operaia vera e propria, che è quella da cui 
        provengono quasi tutti i tanto disprezzati “industrialotti”. Perché 
        l’operaio vero – nel sistema di piccole imprese collegate in una 
        fittissima rete di subappalti che caratterizza l’economia italiana – può 
        nutrire la speranza di mettersi in proprio. Egli assomiglia perciò, e 
        guarda come modello-obiettivo, proprio al “popolo delle partite Iva”.
 
 La rivolta delle “classi colte” della sinistra contro i loro leaders 
        tradizionali, è stata una rivolta di una folla impiegatizia di frustrati 
        e dei loro fornitori di luoghi comuni, contro il pragmatismo politico di 
        ciò che resta o discende dallo storico “gruppo dirigente” del Partito 
        comunista italiano. Ma è stato anche un fenomeno in cui la propaganda 
        comunista, di anni e anni, si è rivoltata contro questo gruppo. La 
        rivolta di Moretti e dei suoi infantili girotondisti – un episodio, come 
        si è detto, in cui i bambini hanno mangiato i comunisti – non ha nulla a 
        che fare col governo del Paese e i suoi problemi, come non ha nulla a 
        che fare col dire o meno “qualcosa di sinistra”. L’approccio di Moretti 
        nel porre il problema della sinistra è, infatti, quanto di meno marxista 
        si possa immaginare. La responsabilità della sconfitta dei Ds e loro 
        alleati nello scontro politico e elettorale del 2001 può difficilmente 
        essere dei “capi”, perché – in quel tipo di analisi – i grandi conflitti 
        storici superano le persone, e vedono protagoniste le masse, mobilitate 
        dalla presa di coscienza dei loro interessi di classe. E tutta la deriva 
        qualunquistica tendente a personalizzare i contrasti politici, che oggi 
        si vede soprattutto nella demonizzazione di Berlusconi, è peraltro un 
        vizio antico del mondo comunista. In definitiva, non è che un’operazione 
        eguale – anche se capovolta – rispetto al culto della personalità. E 
        poi, che razza di sinistra marxista era quella che – nel suo momento più 
        bello – poté concepire l’idea che tutto dipendesse da un solo uomo 
        politico, Aldo Moro, e che, in occasione niente di meno che di una 
        svolta nei destini del Paese tanto grande da essere etichettata 
        “compromesso storico”, il leader democristiano fosse addirittura da 
        considerare “unico”.
 
 La debolezza politica e ideologica dei politici che pretendono di essere 
        “di sinistra” appare quindi antica. Ed essa è oggi tanto più allarmante 
        in quanto essi, di fronte alla rivolta di questa lower middle class 
        pseudo-intellettuale, hanno immediatamente abbandonato, la strategia 
        tendente a conquistare attraverso la moderazione e la proposta politica 
        la parte centrale dell’opinione pubblica alle proposte della sinistra, 
        così come era riuscito a fare il più politico Prodi. Alle prime bordate 
        di fischi essi si sono invece arresi all’idea di diventare una diversa 
        sinistra, molto meno politica e molto più “intellettuale”, molto meno 
        operaia e molto più vicina alle “classi chiacchierone”. E sono passati 
        ad una strategia che tende ad annettersi il centro attraverso la 
        personalizzazione dello scontro, la demagogia e – come è stato detto da 
        parte non sospetta – addirittura l’odio. E francamente delude vedere che 
        – nientemeno che sul Corriere della Sera – Paolo Mieli finisca per dare 
        il proprio contributo a questo allontanamento dell’appena scoperta 
        logica dell’alternanza, cioè dalla grande tradizione democratica 
        occidentale, quando banalizza il fatto che l’Italia si vada 
        radicalizzando. E sorprende che Mieli arrivi a scrivere che l’odio 
        sarebbe connaturato al passato cattolico della stragrande maggioranza 
        degli italiani. È invece evidente che la grande massa degli italiani, 
        che ha votato Berlusconi perché apparentemente impolitico e addirittura 
        anti-politico, associa il clima di odio e di calunnia proprio alle risse 
        politiche di sette assai poco cattoliche. E che mai un intellettuale 
        dovrebbe accettare con tanta leggerezza una radicalizzazione che 
        significa nei fatti la restrizione dello spazio concesso alla libertà 
        critica.
 
 Un milione di tute blu
 
 In questo quadro di degenerazione piccolo-borghese, e di tradimento dei 
        chierici di sinistra del ruolo di elaborazione di proposte e strategie 
        che ad essi toccherebbe, è forse possibile dire che uno degli aspetti 
        positivi della manifestazione sindacale del 16 aprile, sta nel fatto che 
        le classi lavoratrici tradizionali, i cosiddetti blue collars, hanno in 
        quell’occasione ripreso sulla scena sociale e politica buona parte dello 
        spazio occupato negli ultimi mesi dalla chiassosa lower middle class, 
        che per avere molta invidia, ma non veri e propri interessi (come invece 
        li ha la classe operaia) da contrapporre a quelli del “popolo delle 
        Partite Iva”, può alimentare solo sterili polemiche. Il sindacato, 
        infatti, proprio perché istituzionalmente difensore di interessi 
        costituiti e assai ben identificabili, non ha bisogno di dar fiato a 
        questi atteggiamenti. Il sindacato può certo duramente opporsi al 
        programma e all’azione del governo, ma non ha interesse a creare un 
        clima di odio come quello che ha portato all’uccisione di Marco Biagi e 
        che in passato si è ritorto anche contro coraggiosi sindacalisti. Esso 
        può indubbiamente essere criticato perché – in quanto espressione della 
        parte “protetta”e anziana dei lavoratori a scapito dei precari e 
        soprattutto dei giovani – è troppo conservatore. E giustamente Padoa 
        Schioppa, sul Corriere della Sera, ha definito il proletariato 
        contemporaneo come quella forza sociale che "appagata dalle proprie 
        conquiste ha amministrato la rendita divenendo una forza di 
        conservazione volta a impedire in tutti i modi che il mondo continuasse 
        a cambiare". Resta però il fatto che i lavoratori – quelli veri – pur 
        non essendo in grado di rispondere con una proposta politica complessiva 
        alle esigenze di crescita della società italiana, hanno un interesse 
        evidente a che essa non scivoli nello scontro civile e nel sangue. Essi 
        sono cioè psicologicamente e politicamente al polo opposto rispetto alla 
        lower middle class e ai suoi leaders parolai che hanno solo frustrazioni 
        da sfogare, e che costituiscono quindi il più fertile terreno di cultura 
        per l’esaltazione parapolitica e per il terrorismo culturale.
 
 Gli interessi che i sindacati rappresentano non coincidono insomma con 
        le "insensatezze" di qualche anziano professore2, con il livore contro 
        il mondo intero di qualche conduttore televisivo e con le personali 
        ambizioni di qualche dirigente della Rai, cui ha fatto riferimento 
        esplicito Vittorio Agnoletto quando – al congresso di Rifondazione 
        comunista – ha detto: "crediamo nel pluralismo dell’informazione, ma 
        Zaccaria non può certo rappresentarlo". Anzi, è proprio sulla base di 
        come si sono comportati in Rai gli Zaccaria e i Santoro che si può dare 
        ragione a Sylos quando scrive che "sarebbe stato assurdo pensare che" la 
        Signora Margaret Thatcher volesse "minare la libertà di informazione. Da 
        noi non è affatto assurdo". La differenza tra questi “intellettuali” e 
        le tute blu non potrebbe essere più chiara. Questi non hanno altra 
        scelta che giocare il tutto per tutto, tentando di dare una spallata al 
        sistema, prima che la maggioranza uscita dalle urne del 13 maggio, 
        riesca a smussare almeno le punte più vistose delle strutture del 
        “consenso organizzato” formatesi negli anni del centro-sinistra. Gli 
        operai “protetti”, invece, hanno interesse solo a contrastare il 
        programma della maggioranza, impedendo ogni riforma, e a tenere in vita 
        tutto l’apparato tradizionale del welfare state, anche quando tale 
        immobilismo cozza chiaramente contro il fatto che alcuni aspetti del 
        welfare state di queste sono responsabili della crisi fiscale dello 
        Stato, e che prolungarli senza innovazione significa mettere a rischio 
        tutto un insieme di grandi conquiste sociali e civili, che le società 
        europee considerano giustamente irrinunciabili.
 
 Si può sperare che una maggiore presenza del sindacato anche in sede di 
        elaborazione programmatica e culturale, e di una maggior rilevanza anche 
        politica dei leaders da esso provenienti, faccia cambiare il tono di una 
        propaganda politica che è ormai rivolta solo alle “classi chiacchierone” 
        e ad un pubblico di classe medio-bassa, preso a tenaglia tra un 
        atteggiamento di snobistica arroganza nei confronti della classe 
        operaia, e la propria incapacità di imitare il “popolo delle Partite 
        Iva”. Si può sperare che un altro approccio subentri a quello di un ceto 
        micro-intellettuale, che ha sviluppato non tanto un atteggiamento di 
        protezione delle conquiste – e talora dei privilegi – della classe 
        lavoratrice, bensì un rifiuto totale di accettare che la società 
        italiana progredisca lungo la via di una modernizzazione che 
        inevitabilmente lo emargina, come accade a tutti i ceti sociali fuori 
        passo con la realtà del mondo tecnico-produttivo. Tutta la società 
        italiana, avrebbe da guadagnare se nel paese si manifestasse una vera 
        opposizione politica, fondata sulle classi a danno delle quali rischia 
        di ritorcersi la riforma dello Stato sociale, anziché su una lower 
        middle class mossa non da interessi, ma solo dalla vanità e 
        dall’invidia, le cui posizioni non possono che essere velleitarie e 
        perdenti sul terreno politico, e che si rifugiano nella 
        personalizzazione estrema, con una condanna che vuol essere etica, ed 
        addirittura estetica, del ceto dirigente – per la verità, assai 
        improvvisato – nato dal crollo, nei primi anni ’90, degli equilibri di 
        potere internazionali, e di quelli interni ad essi collegati.
 
 L’interesse collettivo del paese sarebbe – in altri termini – altamente 
        servito se nascesse un’opposizione capace di appuntarsi sugli errori 
        veri dell’attuale governo – che sono talora anche gravi – anziché sullo 
        stesso risultato elettorale, e sul meccanismo che lo ha reso possibile. 
        Risulterebbe nell’interesse di tutti gli italiani se si attaccasse la 
        maggioranza politico-parlamentare per gli errori che essa commette e si 
        cessasse di denunciarla come una minaccia ai “valori” e alla “cultura”. 
        E soprattutto se si cessasse di sventolare queste belle bandiere 
        dall’alto delle posizioni più privilegiate e meglio protette, cioè dalle 
        istituzioni dello Stato, e soprattutto del para-Stato, conquistate 
        grazie alla lunga opera di occupazione togliattiana di tutte le 
        posizioni non elettive di potere e di influenza politico-culturale.
 
 The others
 
 Gli “intellettuali” che, dal ridicolo e mortificante mondo di 
        frustrazione e di fantasmi della lower middle class, riescono ad uscire, 
        e guardano ovviamente altrove, a punti di riferimento che gli consentano 
        di tenersi al passo con l’evoluzione della tecnica, della società, delle 
        occasioni professionali, sono naturalmente visti come degli alieni, o 
        meglio come gli “altri” del film con Nicole Kidman che, per appartenere 
        al mondo reale, finivano per apparire quasi mostruosi. Inevitabilmente, 
        per non condividere i tic e le frustrazioni di un ceto sociale che si 
        autoconsola della propria marginalità e dei proprio fallimento, 
        avvolgendosi abusivamente nella più gloriosa bandiera della sinistra, 
        essi finiscono per essere considerati “di destra”. Un’etichetta 
        durissima e per molti di essi tanto più inaccettabile in quanto accusa 
        scagliata da una “sinistra” che ha scavalcato in attaccamento al passato 
        ogni possibile forza conservatrice. Unica consolazione è il fatto che 
        questa etichetta di “destra” è in realtà attribuita arbitrariamente a 
        quasi tutti i media e gli opinion leaders in grado di uscire dal 
        conformismo dell’indignazione e della “insurrezione” permanente, e 
        naturalmente al pubblico cui essi si rivolgono, cioè al pubblico non 
        inquadrato nelle legioni di destra e di sinistra, il pubblico che, 
        esercitando la propria libertà di giudizio, esprime il “voto 
        d’opinione”.
 
 Si tratta perciò di un ambiente e di un pubblico di livello 
        intellettuale ovviamente elevato, ma soprattutto di un ambiente e di un 
        pubblico che può fregiarsi della definizione di “laico”, in quanto 
        rifiuta tutte le opinioni preconfezionate, le invettive e le scomuniche 
        delle “sette” di destra come di sinistra, nonché il prêt-à-penser di 
        ogni industria, artigianato o bottega culturale. E dipende proprio da 
        questo rifiuto di ogni prèt-a-penser il fatto che non esista, come fatto 
        collettivo, una cultura diversa da quella della sinistra, qualcosa di 
        comparabile alla claque di “bravieri” che applaude agli slogan 
        preconfezionati, o risuscitati dalle guerre già combattute nel secolo 
        scorso, come “resistere-resistere-resistere” o addirittura la “linea del 
        Piave”. L’attribuzione di un’etichetta di destra a tutti coloro che non 
        sono disposti a consumare e riprodurre un qualunque prêt-à-penser è 
        tanto più irritante in quanto la cultura della destra, concepita come 
        “pensiero unico” cui aderire, ed incarnato da intellettuali cui si può 
        attribuire l’appellativo gramsciano di “organici” è ancora più datata e 
        superata di quella di sinistra.
 
 E' quella che Massimo Fini ha definito destra "residuale" e che egli 
        giustamente caratterizza come "anti atlantista, anti americana, 
        fortemente nazionale e sociale, più giustizialista che garantista, 
        eretica, giacobina, decisamente più neo-fascista che conservatrice, 
        moderata e liberaleggiante". Non può meravigliare che dei battitori 
        liberi come sono i veri intellettuali rifiutano di farvisi imprigionare 
        solo per compiacere i bisogni di simmetria intellettuale delle quadrate 
        legioni del pensiero di sinistra. In realtà, quella che viene rifiutata 
        è l’idea stessa che l’intelligencija di una società – tutta 
        l’intelligencija, non solo quella marxista – debba piegarsi all’idea 
        gramsciana della “organizzazione della cultura” e all’organicità degli 
        intellettuali rispetto a questo o a quell’insieme di interessi 
        socio-economico organizzati e quindi rispetto a quella forza politica. 
        Senza per questo cadere nell’eccesso opposto, per cui taluni 
        intellettuali sono – come il generale De Gaulle – certi di aver ragione 
        solo quando sono in disaccordo con tutti gli altri, è normale che un 
        intellettuale creativo si preoccupi quando si trova d’accordo con Oriana 
        Fallaci o Eugenio Scalari e coi luoghi comuni di cui si nutre tutta la 
        bassa intelligencija.
 
 L’intelligencija dell’anticomunismo
 
 Non che non sia concepibile una contrapposizione organizzata alla 
        prevalenza culturale della sinistra. Ed è, infatti, esistito in passato 
        un tentativo analogo a quello che viene oggi richiesto da coloro che 
        accusano il centro-destra di non avere spessore politico-culturale, e di 
        non annoverare tra i propri ispiratori che pochi intellettuali di 
        prestigio. Questa contrapposizione ha preso – tra il 1950 e il 1975 – la 
        forma del Congresso per la Libertà della cultura. Ineccepibile dal punto 
        di vista morale e intellettuale, questa organizzazione, che in Italia 
        ebbe i suoi punti di riferimento in Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte 
        e nella rivista Tempo Presente, più qualche connessione nel gruppo 
        facente capo a Il mondo di Mario Pannunzio, finiva però col mostrare 
        l’origine intellettuale di molti dei suoi esponenti che venivano 
        dall’esperienza del comunismo, che mantenevano la tipica struttura 
        mentale dello “spretato”, e in definitiva dimostrarono di continuare ad 
        adottare in pieno il criterio gramsciano del rapporto organico tra 
        cultura e formazioni politiche. Del resto, è allo stesso Silone che si 
        fa risalire la convinzione che lo “scontro finale” sarebbe stato tra 
        comunisti ed ex comunisti. E che molti di costoro non fossero comunisti 
        pentiti, bensì comunisti idealisti, che si sentivano “traditi” dal 
        cinico realismo di Stalin e dal suo servo e complice Palmiro Togliatti 
        nella loro aspirazione ad un comunismo che instaurasse “il regno della 
        libertà”, è dimostrato dall’uso dell’aggettivo “finale”. Un aggettivo 
        che tradisce una visione escatologica della storia, ed una visione 
        messianica del ruolo dell’intellettuale al di là del semplice impegno 
        morale alla perpetua ricerca della verità e della libertà.
 
 Nella cultura liberal-democratica non è possibile nessuno “scontro 
        finale”. Non c’è nessun punto d’arrivo. La cultura è ricerca 
        ininterrotta e senza fine. L’idea di un ordine finale da raggiungere è 
        tipica del fideismo comunista e del sostanziale antistoricismo di Karl 
        Marx che – ipotizzando tutto l’agire umano come mosso dal conflitto di 
        classe, e contemporaneamente predicando il progetto di una società senza 
        classi – aveva di fatto già ipotizzato la “fine della storia”. 
        Naturalmente, non solo ex comunisti, ma anche intellettuali 
        liberal-democratici, o semplicemente dalla mentalità libera e talora 
        provocatoria, furono coinvolti nel Congresso per la Libertà della 
        cultura. Quell’esperienza tentò di replicare per gli intellettuali 
        anticomunisti e antifascisti – specie per quelli che vivevano al di là 
        della cortina di ferro e in Spagna, Portogallo e altri Paesi a regime 
        totalitari – la struttura di coordinamento e di aiuto reciproco che 
        funzionava così egregiamente tra gli intellettuali comunisti o “compagni 
        di strada” in Europa occidentale e persino in America. Ed è proprio per 
        la sostanziale differenza di approccio tra la componente ex comunista e 
        quella liberal-democratica – e la loro diversa disponibilità ad 
        accettare compromessi – che, dopo venticinque anni di straordinaria 
        attività il Congresso entrò in crisi e si dissolse, proprio sul problema 
        dei rapporti con la potenza leader dell’Occidente nella contrapposizione 
        tra Est e Ovest.
 
 L’esperienza del Congresso per la Libertà della Cultura è insomma tipica 
        dello scontro tra comunisti ed ex comunisti dell’epoca del manicheismo 
        Est-Ovest e fu solo per quel clima e per la prevalenza anche nella 
        cultura occidentale e persino americana di una visione gramsciana del 
        rapporto tra intellettuali e forze politiche, che esso poté coinvolgere 
        figure intellettuali che quella visione non condividevano. Oggi la 
        contrapposizione Est-Ovest è finita. Non avrebbe perciò senso, né 
        nessuna possibilità di successo, riproporre oggi l’idea di una simile 
        organizzazione per quell’ampia fascia di uomini di cultura il cui 
        impegno politico grave nell’area del voto d’opinione. Non a caso tutti 
        quelli che, con libri o inchieste, sono andati in questi mesi alla 
        ricerca della “cultura della destra” vengono essi stessi dall’estrema 
        destra, sono cioè portatori di un’altra visione “organicistica” della 
        cultura, che era stata sconfitta già cinquant’anni prima del crollo del 
        comunismo. In quest’area culturale sopravvive una visione organicistica 
        come nella “bassa cultura” di sinistra che non riesce ad uscire dallo 
        schema manicheo neanche dopo il fallimento storico del comunismo. E solo 
        in virtù della propria miopia questo strato sociale può giungere ad 
        ostentare il disprezzo per il centro dello schieramento politico perché 
        non ha una sua struttura culturale organica. E per la stessa incapacità 
        di capire come funziona una grande società democratica dell’Occidente, 
        essa considera poco meno che traditori quei dirigenti politici della 
        sinistra che hanno appreso la lezione storica del fallimento del 
        comunismo, e che in questi anni hanno cercato un dialogo con tutte le 
        forze politiche e con tutti gli intellettuali non organici della società 
        italiana.
 
 Il settarismo di una parte della sinistra, come di coloro che vorrebbero 
        oggi ripetere l’esperienza del Congresso per la Libertà della cultura, 
        crea così una situazione di assoluto equivoco. Ogni tentativo di 
        rispondere all’efficacia del gioco di squadra dell’intelligencija di 
        sinistra con un’organizzazione di un’analoga “squadra” di centro-destra 
        finirebbe per spingere nello stesso letto degli strange bedfellows 
        inconciliabili, non solo per visione politica – come gli intellettuali 
        “di destra” e quelli semplicemente liberi – ma di fatto toglierebbe ogni 
        ruolo politico e persino distruggerebbe ogni capacità creativa e ogni 
        utilità di questo tipo di intellettuali. Se insomma, fuori dalle 
        parrocchie ideologiche, non ci sono intellettuali organici, è per lo 
        stesso motivo per cui l’elettorato d’opinione non riempie le piazze. E' 
        il motivo per cui la marcia dei quarantamila è rimasta nella storia 
        d’Italia, a segnare una svolta, come nessuna delle adunate, più o meno 
        “oceaniche” delle estreme potrà mai rimanere.
 
 21 giugno 2002
 
 (da 
        Ideazione 3-2002, maggio-giugno 2002)
 
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