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        Italianità, domanidi Federico Guiglia
 
 Trent’anni, e li dimostra. Trent’anni sono passati dalla spiegazione 
        minimalista che dava un buon dizionario nel 1971: “Italianità significa 
        indole, natura, qualità d’italiano”. Seguiva grigio esempio: “Italianità 
        di origini, di sentimenti”. Ma basta scorrere la versione 2001 di un 
        altro e altrettanto buon dizionario, per capire il senso della svolta: 
        “Italianità è la partecipazione al patrimonio di cultura e civiltà 
        attribuito all’Italia”. Sissignori, il tabù è finito. Ora si può tentare 
        di scoprire e di scolpire la nostra “nuova frontiera”, quell’orizzonte 
        che apre verso il mondo ma non è indistintamente globalizzante, quel 
        mito antico e solare, ossia profondo e trasparente, quell’aspirazione di 
        gente che ama la sua terra eppure ha saputo andare oltre la sua terra, 
        emigrando nei decenni come nessun altro popolo della Terra è riuscito a 
        fare. Sessanta milioni di italiani all’estero, sessanta dentro la 
        Repubblica. L’Italia è un paese senza confini, in fondo, perché i suoi 
        confini passano ovunque: dal Brennero a Buenos Aires, da Palermo a 
        Toronto, da Roma a Tokio, a Città del Capo, a Marcinelle. L’italianità è 
        universale o non è.
 
 A conti fatti, almeno il due per cento dell’intera popolazione del 
        pianeta può “comunicare” in italiano. Non è poco, se si pensa che nel 
        prossimo ventennio lo spagnolo, straripante, sarà parlato dal sei per 
        cento dell’umanità e perciò potrà competere con l’inglese oggi 
        predominante, domani chissà.
 Ma italianità non è soltanto né soprattutto lingua italiana. E’ 
        sufficiente andare in America, del Nord o del Sud, per trovare cittadini 
        che nella loro lingua sottolineano d’essere fieri (proud oppure 
        orgulloso a seconda della latitudine) d’essere italiani. Anche quanti 
        hanno perduto l’uso della lingua o non l’hanno mai realmente posseduto – 
        o forse non hanno avuto l’occasione di “incontrare” la pur viaggiante 
        lingua del “sì” – condividono gusti, valori, princìpi della civiltà 
        italiana. Che cambiano col trascorrere del tempo, eppure restano 
        eternamente italiani.
 
 Un grande senso d’umanità, per esempio, che induce tanti italo-americani 
        a reagire alla disumanità dell’11 settembre, simboleggiata dai 
        grattacieli spezzati. La generosità, l’italianissima generosità, che 
        spinge tanti missionari senza nome a partire verso l’ovunque per 
        confortare malati, assistere affamati, consolare sofferenti. Fateci 
        caso: un cuore italiano batte sempre accanto alla disperazione del 
        mondo. Italianità è apertura di sentimento e di mente. Il paraocchi 
        dev’essere l’unico strumento alla cui invenzione non abbia contribuito 
        un italiano. Ciò che esclude, e non solo lo sguardo, non fa intimamente 
        parte dello stile di vita italiano, che invece include. Per la prova del 
        nove basta guardare in famiglia. Se lei è italiana e lui tedesco (oppure 
        inglese, francese, svedese, arabo: fate voi) e vivono all’estero, i 
        figli cresceranno bilingui. Se invece lei è tedesca, o tutto il 
        precedente seguito, e lui italiano, e sempre risiedono fuori d’Italia, 
        più probabilmente i figli saranno assimilati alla sola o prevalente 
        cultura monolingue di mamma, cioè della persona che in genere passa più 
        tempo coi piccoli. Perché la differenza nella “società aperta” del 
        futuro, sarà questa: che la cultura italiana integrerà, cioè saprà e 
        vorrà aggiungere alla propria identità anche l’altra, mentre altre e, va 
        da sé, altrettanto rispettabili culture tenderanno a sottolineare in 
        modo quasi esclusivo la propria centralità familiare, sociale, 
        comunitaria. Pluralità contro aridità, ricchezza interiore anziché 
        povertà esteriore, mano tesa e non mano che si ritrae, ecco come si 
        preannuncia la dolce e fortissima italianità di domani.
 
 Del resto, basta osservare con curiosità per comprendere che già oggi 
        l’approccio è diverso. Il turista tedesco che arriva a Venezia, scriverà 
        “Venedig” sulla cartolina di saluti agli amici. Invece l’italiano che va 
        a Düsseldorf farà di tutto per pronunciare quella “u” tanto ostica eppur 
        affascinante, perché differente dal proprio alfabeto mentale. Ed è 
        proprio la novità che l’attira e l’attrae, non certo l’esterofilia (che 
        pure in alcuni non manca, essendo la malattia infantile del 
        provincialismo, oltre che l’anticamera dell’autodenigrazione nazionale; 
        sport preferito, di solito, da chi non è mai uscito dal perimetro 
        quadrato nel quale è nato. Quando mancano i confronti, ci si inventa lo 
        snobismo anti-italiano. Quando si gira il globo, si scopre l’Italia). 
        Dunque, l’italianità parte in prima fila al campionato del terzo 
        millennio. Essa è l’abito perfetto del poliglotta pieno di radici, che è 
        il contrario dell’internazionalista orfano del mondo. In genere, il 
        poliglotta impara ad amare tante patrie, perché ama nel profondo la 
        propria. Gli può venire la pelle d’oca non solo per Mameli, ma anche per 
        God save the Queen, Deutschland, Deutschland über Alles, la Marsigliese 
        e, soprattutto di questi tempi, God bless America. L’italianità è il 
        vestito della creatività, quel tocco in più che fa nascere da una 
        quattroruote la Ferrari e da quattro maccheroni in padella gli 
        spaghetti; quell’intuizione che da tre cantiche crea la Divina Commedia 
        e da due stoffe il “Rosso” Valentino; quella capacità di volare su 
        tutto, stile Frecce Tricolori, o semplicemente di Volare, motivo che si 
        canta dappertutto, anche perché si associa, simpaticamente, all’essere 
        italiani.
 
 Italiani brava gente? Certo che sì, altrimenti non si spiegherebbe 
        perché il Bel Paese, pur essendo così restio all’organizzazione, che è 
        il segreto del turismo di massa, sia uno dei tre paesi più visitati al 
        mondo, e da anni. Cercano l’arte e la cucina, i visitatori dall’estero, 
        desiderano godersi il paesaggio e le storie secolari delle cento città, 
        amano la gaia tranquillità e la seducente compagnia offerte da chi vive 
        nella Penisola. Alzi la mano chi ha mai sentito dire a uno straniero 
        “l’Italia è bellissima, peccato che ci vivano gli italiani”, come spesso 
        la stupidità umana ripete per altri popoli e paesi. Questo universale 
        preconcetto da bar-sport non si applica nel caso degli italiani, i quali 
        sono pieni di difetti, come tutti – e come tutti sono implacabilmente in 
        grado di elencare –, ma vengono percepiti come “amici”, e un motivo ci 
        sarà. Per l’italianità esiste una sorta di “pregiudizio favorevole” da 
        parte dei non italiani. Vige un’istintiva e positiva predisposizione da 
        parte degli altri. Regna un’attenzione che talvolta sfocia nell’aperta 
        ammirazione per l’inguaribile caratteristica d’arrivare magari 
        all’ultimo momento, ma sapendo ripartire, subito dopo, per primi. 
        L’italianità è memoria e modernità, è il paradosso del futuro che non 
        passa, perché sempre per noi diverso e per gli altri inconfondibilmente 
        italiano.
 
 5 luglio 2002
 
 (da Ideazione 6-2001, novembre-dicembre)
 
 
 
 
 
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