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        Le sfide del ventunesimo secolodi Ludovico Incisa di Camerana
 
 Il XXI secolo ha rimesso tutto in gioco: perfino quella storica 
        dialettica tra guerra e pace, che sembrava accantonata per sempre o 
        relegata in qualche remoto angolo geopolitico. Le sfide, dunque, a cui 
        deve rispondere una politica estera nazionale sono molteplici, militari, 
        economiche, finanziarie, addirittura esistenziali a causa del 
        terrorismo. E la risposta deve essere diretta perché le sfide 
        confluiscono solo formalmente, nei grandi palcoscenici internazionali, 
        negli organismi multilaterali, nei templi della diplomazia democratica 
        alla Wilson, ma li sorpassano regolarmente, lasciando una scia cartacea 
        di risoluzioni che lasciano il tempo che trovano e finendo nello spazio 
        negoziale della diplomazia classica delle potenze. Una situazione così 
        fluida rende obbligatoria una politica estera, precisa, pronta, 
        creativa. Precisa nella definizione del proprio ruolo, pronta nella 
        reazione agli eventi (spesso del tutto imprevisti come l’attacco 
        all’America dell’11 settembre), creativa nella capacità di fornire una 
        risposta positiva alle sfide. Il punto di partenza è un chiarimento 
        definitivo di quello che oggi è l’Italia, di quello che siamo o vogliamo 
        essere, di quello che possiamo fare e di quello che non possiamo fare e 
        quindi del ruolo che possiamo assumere da soli e insieme ai nostri soci 
        ed alleati nel rispondere alle sfide del secolo.
 
 In questo senso la prima sfida è la definizione dell’interesse 
        nazionale. Il tempo della guerra fredda, quando ogni altro interesse era 
        subordinato all’interesse generale alla sicurezza, è finito. La 
        semplicità drammatica dell’antagonismo Est-Ovest riduceva la sfera di 
        un’autonomia che rischiava di generare deviazioni anche involontarie. Il 
        tentativo italiano di seguire la cosiddetta politica dei tre centri 
        concentrici: il cerchio atlantico, il cerchio europeo, il cerchio 
        regionale mediterraneo, non riuscì perché, alla prova dei fatti, 
        l‘imperativo della sicurezza, come si constatò nel 1979 in occasione 
        della risposta ai missili sovietici, non consentiva posizioni equivoche 
        donde l’incompatibilità con l’interesse generale di mosse eccessivamente 
        autonome in un teatro operativo di scontro come quello mediterraneo Oggi 
        non sono solo possibili politiche regionali e/o interregionali autonome, 
        ma nella maggioranza dei casi il perseguimento di un interesse nazionale 
        (esempio: una penetrazione attiva nelle zone d’influenza tradizionali di 
        ciascun membro dell’Unione Europea, come l’area baltica per i paesi 
        dell’Europa del Nord, la valle del Danubio per Germania ed Austria, i 
        Balcani e il Levante in genere per l’Italia), non si presenta come 
        contraddittorio rispetto ad un generico interesse europeo e atlantico, 
        ma come un dato positivo supplementare, come un valore aggiunto. Donde 
        l’opportunità di un nuovo inventario dei nostri interessi nazionali.
 
 Al concetto di interesse nazionale è legato il concetto di potenza, 
        concetto che odora di bruciato, ma più che mai valido ad ogni livello, 
        più ancora del concetto di Stato nazionale, perché si estrinseca nella 
        capacità di far valere nelle sedi multilaterali il proprio punto di 
        vista e quindi certi interessi nazionali o generali. L’Italia si trova 
        in una strana posizione: è grande potenza nel Gruppo degli Otto; è media 
        potenza nell’ambito atlantico; è stata piccola potenza (secondo 
        valutazioni che vedremo) a livello europeo. Siccome la potenza è ormai 
        diventata un’unità di misura nel nuovo ordine mondiale è ovvio che 
        l’Italia non può più travestirsi da nano politico o militare, come le ha 
        fatto comodo per troppo tempo, ma deve assumersi una responsabilità e 
        una capacità d’iniziativa corrispondente al livello delle sue forze che 
        non sono disprezzabili. La seconda risposta si collega alla sfida della 
        globalizzazione ed è ottimista. L’Italia non solo fa parte del vero 
        direttorio mondiale, il Gruppo degli Otto, ma è il paese meglio in grado 
        di rispondere a tale sfida, perché storicamente l’ha sempre cercata, 
        perché, come paese marittimo, ha sempre affrontato il mare aperto, 
        perché è stata sempre sensibile alle missioni ecumeniche, a costo di 
        sacrificare la propria unità nazionale a quella che nella sua epoca 
        d’oro, il Rinascimento, si presentava come la globalità cristiana ed 
        imperiale. Non ha imposto una lingua franca, anche se l’italiano, il 
        veneto, il genovese lo sono stati, ma ha creato un linguaggio musicale 
        universale ed oggi la pizza si batte alla pari con l’hamburger e 
        Macdonald si apre all’espresso e al cappuccino. Lo stesso incomparabile 
        patrimonio culturale del paese lo garantisce contro ogni approssimativa 
        omologazione. E – poi diciamo la verità – nella misura che la civiltà 
        occidentale è stata, anche con la nostra partecipazione, una civiltà di 
        scoperte, non possiamo non dirci “globali”.
 
 Questo non significa l’accettazione supina di una mitologia mondialista 
        che va verificata secondo i luoghi e le circostanze Se sul piano 
        ideologico si tende giustamente ad identificare la globalizzazzione con 
        il modello neoliberale, nelle applicazioni pratiche si debbono ammettere 
        correttivi pragmatici. L’Italia, nata liberale, non ha mai mancato di 
        fantasia in questo campo: dalla nazionalizzazione delle ferrovie 
        all’epoca di Giolitti al sistema dirigista degli anni ’30, modello del 
        new deal di Roosevelt. Di fronte alla limitata capacità di previsione 
        dimostrata da un’interpretazione ortodossa dell’economia di mercato 
        (basta pensare alla volatilità dei prezzi petroliferi), l’Italia, grazie 
        alla sua esperienza, può far introdurre, attraverso i propri 
        rappresentanti negli organismi finanziari internazionali, dosi adeguate 
        di realismo politico nella valutazione delle crisi in corso, 
        specialmente in America Latina.
 
 L’Italia non ha nulla da temere dalla sfida del Grande Nord, del Grande 
        Occidente, di un Occidente a tre Stati Uniti, Europa, Russia. Quel 
        grande Occidente, raggruppato nella meno conosciuta tra le istituzioni 
        europee, l’Organizzazione per sicurezza e la cooperazione europea, nata 
        da quella Conferenza omonima, che nel 1975 avrebbe dovuto eternare 
        l’Europa congelata di Yalta, oggi rappresenta uno straordinario 
        traguardo. Diciamo subito che l’allargamento dell’Unione Europea ha un 
        senso strategico nella misura in cui si moltiplicheranno i ponti verso 
        la Russia, considerata nel suo insieme euro-asiatico, in vista di 
        quell’evento decisivo che, nella prima metà del nostro secolo e forse 
        prima, sarà il suo ingresso a Bruxelles. In questo quadro, come si 
        riconosce anche da settori intellettuali non filogovernativi, la 
        riunione russo-atlantica di Pratica di Mare rappresenta una svolta 
        storica, che oltre a tutto conferma la saggezza di una politica estera 
        italiana, con un fulcro europeo ma con due supporti esterni 
        privilegiati: gli Stati Uniti e la Russia.
 
 Ed ecco la sfida dell’Europa: un tema per noi centrale. La classe 
        dirigente e l’opinione pubblica italiana credono nell’unificazione 
        europea. Ci credono in maniera tale che in Italia l’Europa è diventata 
        un tabù e non si è compreso che, dopo il fallimento del Comunità europea 
        di difesa, della CED, e della Comunità politica che era ad essa 
        collegata, il processo di integrazione ha seguito soprattutto una via 
        funzionale, l’integrazione per settori, una via ovviamente che ha 
        concesso più spazio agli interessi particolari degli Stati membri, 
        anziché ad un interesse generale allo sviluppo istituzionale, tanto che, 
        nonostante quattro trattati “costituenti” (Roma, Maastricht, Amsterdam, 
        Nizza), siamo entrati con la Convenzione in una nuova fase costituente. 
        In realtà la stessa architettura dell’Unione è indefinibile: c’è chi 
        parla di una Federazione di Stati nazionali, chi di una Federazione di 
        potenze, chi, come un commissario europeo, di un “consorzio di 
        sovranità”, chi di un “condominio” di cui la Commissione è la guardiana 
        o la portiera. Donde i dubbi su chi comanda nell’Unione il Consiglio 
        europeo o la Commissione e sulla sua stessa governabilità oggi e peggio, 
        in un’Europa allargata.
 
 Il massimalismo federalista italiano non ha trovato appigli su questo 
        terreno. L’Europa è rimasta a lungo in Italia un feticcio da adorare 
        costantemente, tanto che per anni si può parlare, a proposito della 
        nostra politica europeista, non di una strategia bensì di una 
        superstizione europeista. L’Europa era il portafortuna che ci 
        risparmiava di prendere posizione su problemi in cui avremmo dovuto 
        invece prendere una posizione, ed una posizione energica, perché 
        implicavano come la politica agricola e le questioni balcaniche e 
        mediterranee nostri concreti, peculiari interessi. L’Europa era la 
        governante franco-tedesca, che c’imponeva di prendere le misure 
        finanziarie o fiscali di cui i nostri governi non volevano assumere la 
        responsabilità. Il “vincolo europeo” dell’Italia, culminato a 
        Maastricht, era diventato la favola dell’Europa. Passi falsi come il 
        rifiuto storico, nel 1963, a causa del pregiudizio antigollista, di 
        aderire agli accordi Adenauer-De Gaulle, avranno effetti gravissimi. Non 
        a torto l’economista inglese Andrew Shonfield, poi docente 
        all’Università europea di Firenze, accusava l’Italia di sentirsi una 
        piccola potenza: “I governi italiani si comportano secondo uno stile 
        riconoscibile che riflette una mancanza di fiducia nella loro abilità a 
        prendere qualsiasi seria iniziativa internazionale, il che implica un 
        profondo dubbio sulla loro capacità di ottenere l’appoggio interno 
        necessario per sostenere una posizione internazionale distinta”. 
        Shonfield paragonava l’atteggiamento dell’Italia a quello dell’Olanda, 
        che, pur ritenendosi una piccola potenza, si comporta “come una piccola 
        potenza molto attiva con una visione propria di molti temi 
        internazionali che non esita a far valere”. Del resto basta pensare alla 
        posizione di rendita che l’Olanda si è assicurata in quel mostro che è 
        la politica agricola comune.
 
 Fortunatamente la situazione europea è cambiata. Il patto di stabilità 
        nato per legare le mani ai birichini del Sud Europa sta strozzando la 
        Germania e la Francia. La Commissione europea e la Banca europea sembra 
        che vivano su un altro pianeta rispetto a temi come il rilancio 
        dell’economia europea, crisi gravissime come quella delle linee aeree di 
        bandiera, i prodromi di una crisi generale della grande industria. La 
        Commissione di Bruxelles sta assomigliando sempre di più non a una 
        squadra ma a quei guardalinee dei mondiali che pensano più a mettere 
        fuori gioco i giocatori che a lasciar giocare. I negoziati per 
        l’allargamento dell’Unione ad Est sembrano obbedire alla strategia del 
        contagocce. E più che mai necessario un apporto di idee nuove nella 
        Convenzione ed è da plaudire l’atteggiamento meno remissivo assunto 
        recentemente dall’Italia a Bruxelles.
 
 In una situazione di stallo più nelle idee che nei propositi l’Italia 
        con il Governo Berlusconi ha capito cha gli organi dell’Unione non sono 
        in grado di ricuperare il deficit di politica estera che si è creato nei 
        temi più pressanti: il Medio Oriente, il Partenariato Euromediterraneo, 
        l’allargamento dell’Unione ad Est, il dialogo con la Federazione Russa, 
        la revisione della politica di cooperazione con il Terzo Mondo, una 
        relazione con quella seconda Europa, che è l’America Latina, discontinua 
        ed incerta, gli stessi rapporti economici con gli Stati Uniti, 
        abbandonati a reiterate schermaglie protezionistiche, la tentazione 
        ridicola di una rivalità tra il dollaro, una divisa che ha dietro una 
        strategia, e l’euro, una moneta cha non ha nulla dietro. Abbiamo 
        un’Europa istituzionale e burocratica troppo piena di sé, un’Europa di 
        signorini, di quelli che Ortega y Gasset chiamava i senoritos 
        satisfechos, i signorini soddisfatti, appagati dall’eredità della 
        generazione europeista che ci ha preceduto.
 
 Ebbene, per conto dell’Europa e non contro l’Europa l’Italia è in grado 
        di fornire quell’apporto prezioso, che le deriva dal ricupero, grazie 
        alla fine della Cortina di ferro, di una posizione geopolitica centrale 
        tra l’Europa occidentale e l’Europa Orientale, nonché tra il Nord e il 
        Sud, tra il Mediterraneo e l’Europa transalpina. Questa ubicazione 
        geopolitica, se è stata fondamentale per lo schieramento atlantico nella 
        guerra di secessione in Jugoslavia, è oggi altrettanto fondamentale per 
        la pacificazione e lo sviluppo dell’area, donde le attese suscitate da 
        certe trame italiane come l’Iniziativa per l’Europa Centrale e 
        l’Iniziativa Adriatica, considerate dai paesi aderenti come l’anticamera 
        di Bruxelles. La risposta italiana alla sfida dell’Europa non deve 
        mettere in causa l’obbiettivo finale di un’integrazione completa, né 
        contestare l’irreversibilità di una struttura istituzionale, che ha 
        assicurato la convivenza pacifica tra i maggiori popoli europei e una 
        prosperità senza precedenti, ma implica l’applicazione al suo interno di 
        una metodologia che non deleghi all’Europa ogni possibile grana, fidando 
        in una supplenza che l’Europa non sempre, se non quasi mai, è in grado 
        di fornire, ma semmai procedendo al contrario a supplire le lacune 
        dell’ancora invertebrata diplomazia di Bruxelles.
 
 Sempre più nell’ambito europeo come nell’ambito atlantico si sta agendo 
        non singolarmente, ma con coalizioni ad hoc, a geometria e geografia 
        variabili, vuoi nel campo politico vuoi nel campo militare. Queste 
        coalizioni si basano non sull’uguaglianza tra le parti ma sul loro peso 
        specifico, economico e militare, e nel caso dell’Italia sulla rendita 
        strategica connessa ad una posizione geografica chiave, e soprattutto su 
        interessi comuni. E’ ovvio che il rapporto verso l’Europa dell’Est 
        impegni di più l’Italia, la Germania e l’Austria rispetto alla Francia, 
        all’Inghilterra, alla Spagna. Un accordo a tre eviterebbe una dura 
        concorrenza nelle grandi linee di comunicazione e di trasporto. Bisogna 
        evitare che il Danubio spezzi quell’asse Baltico – Adriatico che può 
        assumere nello sviluppo di un’Europa allargata la stessa funzione 
        propulsiva assunta ad Ovest dalla Valle del Reno. Il collaudo di quella 
        “cooperazione rafforzata”, così spesso evocata in campo europeo, avrà un 
        valore specifico piuttosto che in esercizi settoriali inevitabilmente 
        sfilacciati, in contenuti geopolitici. La sfide tuttavia non si 
        esauriscono all’interno del mondo occidentale, ma si estendono in modo 
        specifico all’ambito globale, ma non in quella versione omologatrice, 
        che ha destato in Occidente una reazione populista, ma rispetto a quelle 
        sfide delle aree extraeuropee, che da una parte ne reclamano i benefici, 
        dall’altro ne insidiano la sicurezza con il terrorismo e il 
        fondamentalismo: la sfida dello sviluppo, la sfida della povertà, la 
        sfida dell’immigrazione. Nei tre casi l’Italia ha qualcosa di originale 
        da dire.
 
 La sfida dello sviluppo. Nel 1960 un economista americano Walt Rostow 
        teorizzava le leggi dello sviluppo economico distinguendo cinque stadi: 
        la società tradizionale agraria e tribale, la riunione delle condizioni 
        preliminari per lo sviluppo ossia la formazione dello Stato Nazionale, 
        il decollo ossia l’inizio della rivoluzione industriale, la crescita 
        autosostenuta del sistema, il passaggio alla società dei consumi di 
        massa. Questo modello è stato seguito in fasi diverse dai maggiori paesi 
        europei: il traguardo finale è stato raggiunto dall’Italia negli anni 
        60, dalla Spagna negli anni ‘70, dal Portogallo, dalla Grecia e 
        dall’Irlanda più recentemente. Si sta realizzando più lentamente del 
        previsto in alcuni paesi latinoamericani e più rapidamente in alcun 
        paesi asiatici e arabi. Con l’eccezione del Sud Africa, la maggior parte 
        dei paesi africani annaspa nelle seconda fase quando non regredisce 
        nella prima. Il modello è oggi complicato dalla concomitanza per quei 
        paesi, che non hanno terminato la rivoluzione industriale, della 
        rivoluzione post-industriale. Cosa può fare l’Italia? Il nostro paese 
        presenta una doppia peculiarità: quella di avere realizzato uno sviluppo 
        ritardato rispetto ai paesi europei più avanzati e quella di avere 
        realizzato, dopo la prima rivoluzione industriale trainata dalla grande 
        industria, una seconda rivoluzione industriale, basata su una piccola e 
        media impresa di alto livello tecnologico. L’attenzione internazionale 
        destata dal nuovo modello italiano ci offre un’opportunità eccezionale: 
        abbinare la diffusione di un nuovo sistema di industrializzazione con 
        l’internazionalizzazione delle nostre imprese.
 
 La sfida della povertà è grave ed urgente ed implica una revisione della 
        strategia di cooperazione finora seguita dall’Europa e dall’Occidente in 
        genere nei confronti delle aree depresse e arretrate. A parte le 
        operazioni di soccorso, occorrerebbe applicare un modello dimostrativo 
        proprio negli stati emergenti più avanzati per trascinare quelli che non 
        sono nemmeno in grado di organizzare gli aiuti che ricevono. Il rischio 
        altrimenti è una evasione in massa dal Terzo Mondo verso il Nord, verso 
        l’Occidente. Il Nord Africa da base di partenza dell’emigrazione locale, 
        si sta trasformando, come dimostrano gli sbarchi più recenti nelle 
        nostre coste, in luogo di transito e smistamento di masse di diseredati 
        provenienti dall’Africa subsahariana e dall’Asia meridionale.
 
 L’Italia si trova di fronte alla sfida dell’immigrazione, mentre è 
        ancora un paese di emigranti. C’è all’estero un bacino di 50 milioni di 
        oriundi che non sono tutti milionari. Parecchi di loro sgobbano nelle 
        fabbriche tedesche, francesi, svizzere e non tornano in Italia, nella 
        dolce Italia, invece di godersi le brume del Nord, perché i nostri 
        livelli retributivi non sono ancora a livello europeo. Molti di loro 
        opterebbero per un rientro a parità di condizioni. Inoltre alla fine 
        dell’800 molti braccianti, piemontesi, lombardi, veneti si recavano in 
        Argentina una volta all’anno per il raccolto del grano. Parecchi si 
        stabilirono definitivamente in Argentina e Brasile. Se i loro nipoti 
        torneranno qui per stagioni e periodi determinati, non soltanto 
        risolveranno un problema di occupazione, ma contribuiranno a creare dei 
        collegamenti organici con quelli che sono i potenziali avamposti 
        dell’Italia globale. L’Italia della penisola e l’Italia di fuori debbono 
        diventare intercomunicanti, il che sarà facilitato nella prossima 
        legislatura dal voto diretto degli italiani all’estero. Non bisogna 
        dimenticare, del resto, che si continua ad emigrare dall’Italia. E’ 
        un‘emigrazione di giovani e di elite, che rispecchia le carenze di un 
        assetto culturale e scientifico da paese di provincia.
 
 L’immigrazione dal Terzo Mondo va risolta nel quadro di accordi di 
        scacchiere, che implichino una contropartita. Nel caso dell’emigrazione 
        dai paesi dell’area mediterranea una misurata apertura può essere 
        concessa se un’analoga apertura verrà accordata allo stabilimento in 
        tali paesi della nostra borghesia imprenditoriale, commerciale, 
        professionale. In effetti una delle cause del sottosviluppo, per 
        esempio, dei paesi in questione è stata l’espulsione della borghesia 
        produttiva di origine europea, borghesia che non è stata rimpiazzata da 
        un ceto locale adeguatamente qualificato, bensì da burocrazie 
        predatorie. Infine il sistema internazionale di oggi impone, anche 
        nell’ambito della globalità, da una parte la scelta di scacchieri 
        geografici prioritari, dall’altra la ricostruzione nel paese di una 
        cultura “internazionale”che colmi le lacune di un sistema informativo 
        ancora provinciale. Ad una cultura internazionale adeguata e aggiornata 
        sono legati sia la configurazione delle strutture operative nazionali 
        sia la presenza italiana, finora cronicamente insufficiente, negli 
        apparati internazionali.. Anche su questi temi c’è molto da discutere in 
        questo convegno.
 
 5 luglio 2002
 
 
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