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        Verso un nuovo ordine mondialedi Horst Langes
 
 Riportiamo la versione integrale dell'intervento di Horst Langes, 
        presidente della Fondazione Robert Schuman, presentato al convegno di 
        Gubbio del 24 e 25 giugno su "L'Italia nel nuovo sistema internazionale: 
        Europa, sicurezza, cooperazione", organizzato dalla Fondazione 
        Ideazione.
 
 Per iniziare vorrei parlarvi della mia città natale, Treviri sulla 
        Mosella. La città venne fondata oltre 2000 anni fa dall’imperatore 
        Augusto e da essa in seguito dodici imperatori Romani governarono 
        l’impero romano d’occidente. Dalle corti di questi imperatori molti 
        uomini celebri partirono diretti in tutte le regioni dell’impero romano, 
        come il futuro padre della Chiesa, Ambrogio che andò a Milano. Treviri 
        mantenne, nei secoli, questa importanza spirituale e scientifica.
 Recentemente abbiamo quindi festeggiato l’anniversario della morte di un 
        illustre teologo morale, Friedrich Spee von Langenfeld, un padre gesuita 
        che nel 1631 scrisse un libro intitolato “cautio criminalis”, tradotto 
        poi dal latino in tutte le lingue più conosciute, tra cui l’italiano. 
        Perché questo libro era così importante? Esso affermava che i processi 
        alle streghe erano anticristiani e contravvenivano all’idea cristiana 
        dell’uomo. L’autore si richiamava alla legge naturale secondo la quale 
        chiunque è innocente finchè non viene dimostrata la sua colpa. Quindi: 
        in dubbio pro reo. Affermava inoltre che si doveva abolire la tortura, 
        perché inutile alla ricerca della verità. Rivendicava l’indipendenza dei 
        giudici così come aveva fatto l’imperatore Carlo V nella sua “Carolina”, 
        e ricordava infine che tutti sono uguali davanti a Dio, come aveva 
        affermato cent’anni prima il padre domenicano Las Casas a proposito 
        degli indiani d’America.
 
 Proprio sulla base di questa idea dell’immagine cristiana dell’uomo 
        nacque, nel 1776, la costituzione degli Stati Uniti, la quale, in forma 
        modificata, influenzò molte costituzioni degli Stati nazionali nel corso 
        dell’ottocento e dopo la Seconda Guerra Mondiale le nuove costituzioni 
        democratiche. L’anno scorso a Roma si sono celebrati due grandi eventi: 
        la proclamazione da parte del Papa Giovanni Paolo II del grande statista 
        Tommaso Moro a patrono dei governanti e dei politici e la celebrazione 
        del cinquantenario della prima convenzione dei diritti dell’uomo. Perché 
        ho voluto fare questa introduzione? Ripensando a quanto ho appena detto, 
        vi chiederete necessariamente su che cosa si basino le tesi di un 
        Friedrich von Spee o dei padri della costituzione americana. Che cos’è 
        ciò che chiamiamo idea cristiana dell’uomo che ci deve servire come 
        principio etico?
 
 Il punto di partenza di ogni etica, ma soprattutto di quella cristiana 
        occidentale, è l’immagine dell’uomo. L’immagine personale cristiana 
        dell’uomo ha una storia individuale e sociale che ha lasciato profonde 
        tracce negli ordinamenti giuridici dello Stato, dell’economia e della 
        società. Naturalmente oggi sembra spirare un vento contrario a questa 
        idea, un’idea fondata su una concezione dell’uomo fatto a immagine e 
        somiglianza di Dio. Immagine dell’uomo e immagine di Dio sono quindi 
        legate. Se allora oggi cerchiamo di delineare questa immagine cristiana 
        dell’uomo, ampia e pluristratificata, dovremmo limitarci agli aspetti 
        essenziali, plausibili non solo per i cristiani credenti ma accessibili 
        anche alla ragione e all’esperienza di tutti gli uomini. Posta al centro 
        della dottrina sociale cattolica, ma anche protestante, questa immagine 
        cristiana dell’uomo è tale che in essa tutti possono riconoscersi in 
        quanto esseri umani al fine di costruire una società umana che, sia sul 
        piano economico sia su quello sociale, sia fondata sui principi del bene 
        comune: un bene rivolto primo luogo alla persona, in secondo luogo alla 
        solidarietà. e in terzo luogo alla sussidiarietà. La dottrina sociale 
        cattolica ha formulato questo principio nell’enciclica “gaudium et spes” 
        n. 25 nei seguenti termini: ”Infatti, principio, soggetto e fine di 
        tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana”.
 
 Questo per quanto riguarda gli aspetti generali. Ma che cos’è dunque 
        l’uomo e quali sono i suoi compiti? L’uomo è una creatura individuale 
        fatta a immagine di Dio. Per questo possiede una dignità intoccabile. 
        Non è il prodotto di un cieco caso; non è definito dalla razza o dalla 
        nazione alla quale appartiene (fascismo, nazionalsocialismo); non è 
        neppure definito in base a criteri sociali o di classe (socialismo, 
        comunismo). La persona possiede quindi per noi cristiani un valore 
        specifico e unico che non gli può essere tolto da nessuna istanza. Ogni 
        singolo essere umano porta in sé il suo scopo, non è il mezzo per 
        raggiungere un certo scopo sociale. L’uomo è quindi sostanza, mentre la 
        società è semplicemente relazione, vale a dire, un’unità fondata sul 
        rapporto tra singoli uomini. Senza questo riferimento trascendente non 
        si capisce dunque perché, su determinati diritti basilari, ma 
        soprattutto sulla vita e sulla morte del singolo, la sua dignità, la sua 
        libera scelta secondo coscienza, non possa decidere anche lo Stato. 
        Senza l’anima si metterebbe in questione la dignità della persona. Senza 
        la prospettiva di un’istanza ultraterrena, l’ultima istanza di 
        decisione, potrebbero venire in primo piano altri poteri, come lo Stato, 
        la società, il popolo e la natura. E potrebbero venire assolutizzati.
 
 L’uomo ha una libera volontà. Può e deve decidere in base a quanto gli 
        detta la sua coscienza. Non esiste, altrimenti, alcuna responsabilità e 
        alcuna etica. La coscienza può, in determinate situazioni, giudicare in 
        merito al bene e al male di determinati comportamenti. 
        L’Autodeterminazione umana non può però significare illimitato arbitrio. 
        Un simile abuso della libertà non porta all’autorealizzazione dell’uomo 
        bensì a danneggiare gli altri. La coscienza e le azioni soggettive 
        devono quindi fare affidamento su valori oggettivi, validi per tutti. La 
        libertà deve essere vincolata ad altri valori basilari come la verità, 
        la giustizia e la solidarietà. Per l’uomo non si tratta allora di 
        chiedersi, da che cosa sono libero ma per che cosa sono libero (quindi 
        non la libertà negativa che si intende come “emancipazione”).
 
 Come individuo l’uomo è però un essere imperfetto. Non può vivere 
        autonomamente per se stesso. Fin dalla prima infanzia deve fare 
        affidamento sugli altri per la sua esistenza; senza di essi non è in 
        grado di riconoscere e di realizzare determinati valori. Questo 
        significa che l’uomo è, per natura, un essere sociale (e da questa 
        consapevolezza deriva anche “l’economia di mercato sociale” come 
        principio etico). Per noi cristiani l’ordine della natura umana è 
        corrotto dal peccato. La “natura corrupta” subentrata al peccato 
        originale afferma che la corruzione è all’opera già nella natura umana: 
        ciò si evidenzia per esempio nei nostri vizi capitali, come l’invidia, 
        l’ira, la superbia, l’avarizia e la pigrizia. Questi vizi, se non sono 
        arginati dalle virtù e dalle strutture giuridiche, possono portare alla 
        distruzione della persona e infine al dissolvimento dell’ordine sociale 
        (per esempio: attraverso le ideologie del comunismo e del 
        nazionalsocialismo).
 
 La visione cristiana di questa imperfezione ineliminabile e dunque della 
        debolezza della natura umana deve proteggerci da eccessive aspettative 
        nei confronti della politica, dell’economia, della giustizia sociale. 
        Per questo per noi cristiani è chiaro che non può esistere una società 
        perfetta. Che non è possibile creare il “paradiso in terra” come 
        volevano farci credere le ideologie e le utopie in particolare nel XIX e 
        XX secolo. L’uomo, partecipando alla vita di Dio, è chiamato alla 
        felicità eterna. Questo pensiero del superamento del mondo e della 
        sicurezza nelle cose ultime presuppone nel cristiano (o almeno dovrebbe) 
        una tranquillità verso tutto quanto è terreno. Una tranquillità che 
        possiamo chiamare senz’altro gioia e felicità sulla terra. Ed è proprio 
        questo che intendevano anche i padri della costituzione americana nel 
        1776 quando posero la “ricerca della felicità da parte dell’uomo” alla 
        base delle norme costituzionali. Una simile consapevolezza dovrebbe 
        darci anche la tranquillità necessaria ad affrontare un impegno duraturo 
        all’interno della comunità motivando la nostra resistenza contro ogni 
        messaggio salvifico di tipo ideologico. Per noi cristiani, quindi, il 
        messaggio salvifico dovrebbe motivare un atteggiamento positivo, felice, 
        verso la vita.
 
 Da ciò consegue poi (dal messaggio salvifico) che Dio ha assegnato 
        all’uomo il compito di proseguire la sua opera creatrice. L’uomo è 
        quindi responsabile di quanto avviene nel mondo; è responsabile nei 
        confronti del progresso, ma anche del regresso e del crimine. Questo 
        incarico di Dio sostiene anche la disponibilità alla responsabilità e 
        all’azione, sostiene pertanto anche l’azione dei principi etici. Da ciò 
        deriva anche la responsabilità di ognuno di noi nei confronti della 
        propria città, del proprio paese, dell’Europa e del mondo ovvero per 
        quanto avviene a livello globale nel mondo. Quanto ho potuto esporvi 
        nella prima parte del mio intervento non è forse molto teorico? Forse 
        tutto ciò valeva in parte nel Medioevo, forse fino all’epoca dei 
        pellegrini che hanno poi influenzato la costituzione americana. Questa 
        immagine dell’uomo cristiana non è forse superata nel terzo millennio? 
        Guardatevi intorno, vale ancora per l’Europa?
 
 Dobbiamo affrontare simili questioni, anche in questo momento in cui è 
        in gioco il futuro dell’Unione Europea. Ma prima di cercare di dare una 
        risposta a queste domande, vorrei passare alla seconda parte del mio 
        intervento: “la globalizzazione e il nuovo necessario ordine mondiale”. 
        Vediamo che l’umanità, a livello globale, si “avvicina” sempre di più, 
        sia nell’amicizia che nell’inimicizia. I moderni mezzi di comunicazione 
        (prendiamo la televisione!) e i moderni sistemi di trasporto ci mettono 
        sempre più in contatto gli uni con gli altri. La televisione per esempio 
        fa sì che il dramma di persone prese in ostaggio nelle Filippine possa 
        essere percepito come se tutto ciò succedesse nella casa del nostro 
        vicino. Questo “avvicinamento” crea, anche sul piano economico un 
        intrecciarsi dei mercati e una concorrenza sempre più forte. Lo 
        spostamento di mercati del lavoro e di capitali, le trasformazioni nella 
        divisione del lavoro internazionale acuiscono la concorrenza e creano 
        enormi problemi sul mercato del lavoro. Questi problemi vanno risolti 
        sul piano economico, ma non basta: vanno risolti anche sul piano sociale 
        ed etico.
 
 Dall’altro lato questa globalizzazione crea anche la consapevolezza di 
        una solidarietà a livello mondiale (pensate a Spee e a Las Casas: tutti 
        gli uomini sono uguali!). Le crisi, l’inquinamento dell’ambiente, le 
        modificazioni climatiche, le guerre di conquista nei Balcani, le 
        migrazioni dei poveri hanno ampliato l’orizzonte dei problemi. Abbiamo 
        sempre più la consapevolezza di vivere in un mondo. Di essere 
        responsabili l’uno per l’altro (pensate qui alle raccomandazioni 
        formulate da Papa Giovanni Paolo il 5 novembre 2000 a Roma davanti a 
        5000 deputati). Lo stato nazionale classico sembra dissolversi pezzo per 
        pezzo in questa globalizzazione: da un lato frantuma – dall’alto verso 
        il basso – in seguito alla regionalizzazione (prendiamo per esempio il 
        desiderio di autodeterminazione dei lombardi e dei siciliani e i loro 
        sforzi per creare uno stato Italiano federale oppure pensiamo agli 
        slesiani in Polonia). Dall’altro lo stato nazionale classico viene 
        limitato o in parte addirittura abolito dall’Unione Europea attraverso 
        accorci internazionali.
 
 E ora naturalmente è evidente che in queste grandi comunità (l’Unione 
        Europea. L’ONU) si cerca intensamente un’etica vincolante per tutti gli 
        esseri umani e i popoli. Ci si richiama ai diritti dell’uomo che 
        dovrebbero rappresentare il nucleo di questo ethos, di questa etica. Ma 
        non si è tuttavia tanto certi di questi principi sui diritti umani 
        comuni. Emergono fondamentali differenze e contraddizioni per quanto 
        riguarda l’interpretazione dei diritti dell’uomo e delle loro priorità. 
        Nella tradizione liberale vengono interpretati soprattutto come diritti 
        alla libertà individuale. Dal punto di vista socialista vengono 
        interpretati soprattutto dal punto di vista sociale e quindi ne viene 
        accentuato proprio l’aspetto di diritti. Dai paesi in via di sviluppo 
        arriva anche la rivendicazione di una terza dimensione dei diritti 
        umani, vale a dire il diritto allo sviluppo, alla pace, a un ambiente 
        sano e all’accesso al patrimonio comune all’umanità.
 
 A questo punto devo sottolineare che la Chiesa cattolica in quanto 
        chiesa del mondo – ma naturalmente anche le altre chiese cristiane – 
        sono particolarmente invitate a contribuire a un chiarimento dei 
        contenuti e alla affermazione dei diritti umani. Per l’efficacia pratica 
        di questi diritti umani così diversamente interpretati sarà però 
        determinante il fatto che essi vengano trasformati a livello 
        internazionale in un diritto sanzionabile. Essi devono essere provvisti 
        di relativi organi di applicazione e istanze di controllo (il tribunale 
        dell’Aja istituito per effettuare delle inchieste sui crimini commessi 
        nei Balcani può rappresentare un inizio per una determinata applicazione 
        dei diritti umani).
 
 Questi temi sociali ed ecologici, qui brevemente delineati, che emergono 
        a livello globale mirano a mio avviso a stabilire un ordine economico 
        globale che risponda alle esigenze sociali ed ecologiche messe in luce 
        dalla dichiarazione dei diritti umani. Facciamo un esempio: la tutela 
        dell’ambiente della natura deve mirare a lasciare in eredità alle 
        generazioni future un mondo abitabile. Questo significa che la 
        concorrenza in questo mondo deve essere ordinata in modo che nessun 
        paese ne possa approfittare a breve termine producendo e offrendo merci 
        a buon mercato a spese dell’ambiente sociale ed ecologico. Questo 
        significa che deve essere creata un’economia di mercato sociale e al 
        contempo ecologica. Qui il modello europeo dell’economia sociale di 
        mercato potrebbe essere esemplare per il mondo. Perché questo modello 
        tiene conto dei deboli ed è adatto per abolire la povertà e affrontare i 
        problemi ambientali. Questo l’Europa ha saputo indubbiamente dimostrarlo 
        nonostante tutte le debolezze ancora esistenti nel nostro sistema. Il 
        Marxismo ma anche il capitalismo di Manchester non hanno prodotto 
        risposte in grado di rispettare la dignità umana e adeguate per 
        affrontare questi problemi globali. E, a mio avviso, non saranno in 
        grado di farlo nemmeno in futuro.
 
 L’ordine di concorrenza sociale non può funzionare unicamente come un 
        meccanismo di mercato formale: deve fare affidamento su un rispetto 
        solidale delle regole etiche e giuridiche. Un simile sistema di regole 
        comprende anche, necessariamente, la rinuncia ai monopoli che dominano 
        il mercato, ai cartelli, agli accordi e a tutti i vantaggi della 
        concorrenza che non siano fondati sulle prestazioni reali. La corruzione 
        va contro la concorrenza leale. Questo porta anche a un mondo del lavoro 
        inumano e a condizioni produttive inumane, come per esempio nel caso del 
        lavoro minorile. Purtroppo ciò che abbiamo creato in Europa non può 
        essere trasferito facilmente a livello mondiale. Ciò è dovuto anche al 
        fatto che, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, ma anche nei paesi 
        dell’ex blocco orientale, molti sono ancora lontani da ogni forma di 
        Stato giuridico e sociale e questo dipende naturalmente anche dalle 
        cattive condizioni di base, dalla corruzione e dalla mancata 
        disponibilità delle persone ad assumersi una responsabilità. Ma a noi, 
        nell’Unione Europea, viene tuttavia rimproverato di non aver creato 
        delle strutture di solidarietà veramente efficaci e in grado di 
        costruire un equilibrio socialmente giusto tra paesi poveri e paesi 
        ricchi nonostante la nostra politica di sviluppo e di aiuti.
 
 Dobbiamo notare però che molti paesi poveri non riescono a svilupparsi 
        in maniera autarchica. Il libero scambio di beni e servizi è pressoché 
        impossibile, e non può essere considerato come giusto il modo in cui i 
        partner commerciali dei paesi ricchi si confrontano con quelli dei paesi 
        poveri. Qui la concorrenza è praticamente impossibile. Vanno creati 
        prima un certo equilibrio e pari opportunità, vale a dire: la 
        concorrenza sul mercato mondiale non può essere lasciata a se stessa. Ci 
        vuole un orientamento etico e un quadro istituzionale e giuridico che 
        impedisca certe deformazioni (come per esempio avviene nei nostri paesi 
        e nell’Unione Europea grazie alla legge contro i cartelli). E’ anche 
        sbagliato chiedere oggi che il sostegno e gli aiuti ai paesi poveri 
        vengano prestati solo per motivi umanitari. A questo si aggiungono in 
        ogni caso ambizioni politiche ed economiche evidenti, laddove 
        naturalmente è sempre giustificato chiedersi come i diritti umani 
        vengano rispettati o lesi in questi paesi poveri. E’ quindi necessario 
        rendersi conto che una valida collaborazione tra paesi poveri e paesi 
        ricchi dovrebbe essere il risultato di un interesse comune. Per esempio 
        dell’interesse comune a combattere i pericoli globali, per i ricchi e i 
        poveri: la povertà di massa, i rischi per l’ambiente e la crescita della 
        popolazione. Questo viene definito anche il ”triangolo diabolico”. Il 
        caso ideale sarebbe quello in cui i vantaggi a disposizione degli stati 
        industrializzati potessero essere messi felicemente in relazione con 
        benefici per i paesi in via di sviluppo. Ricordare questo interesse, 
        comune ai ricchi e ai poveri, è senz’altro meglio e anche più onesto che 
        appellarsi unicamente a convinzioni e obblighi morali.
 
 Affermo dunque che spesso non un eccesso ma una mancanza di economia di 
        mercato è la causa dei problemi di sviluppo. Vorrei ripeterlo ancora una 
        volta: senza dubbio vi sono dei deficit nei paesi in via di sviluppo che 
        sono un lascito della storia coloniale o dell’eredità comunista, o che 
        sono dovuti a regole commerciali inique o anche al problema 
        dell’indebitamento. A questo si aggiungono poi i fattori interni sopra 
        ricordati, come la mancanza di un ordinamento giuridico, la mancanza di 
        uno stato sociale, il ruolo delle élite al potere, per esempio in 
        Africa. La giustizia nella concorrenza globale significa in primo luogo 
        aprire i mercati a quei prodotti con i quali i paesi poveri possono 
        concorrere. Si tratta soprattutto di prodotti agro-alimentari. Perlopiù 
        sono prodotti che richiedono molto lavoro e i costi contenuti del lavoro 
        pongono quei paesi in una posizione di vantaggio. I nostri paesi, per 
        esempio la Germania, ma anche l’Italia, essendo caratterizzati da 
        stipendi elevati, si trovano di conseguenza relativamente svantaggiati. 
        Questo svantaggio può essere però compensato da innovazioni tecniche e 
        da un aumento della produttività. Proprio la fantasia degli italiani 
        dimostra sempre di nuovo che cosa sia possibile raggiungere in questo 
        ambito.
 
 In ogni caso deve essere chiaro che i paesi poveri non possono essere 
        elevati ad hoc al livello economico e tecnico dei classici paesi 
        industrializzati. Ciò è impossibile già solo per la mancanza di capitali 
        delle aziende private e pubbliche. Ma non si deve necessariamente 
        procedere in questo modo. La modernizzazione in questi paesi non 
        dovrebbe necessariamente portare a una specie di europeizzazione. Ciò 
        comporterebbe inoltre il pericolo di una imposizione non voluta della 
        civilizzazione occidentale. Anche gli standard socio-politici possono 
        essere sviluppati solo gradualmente. Va comunque ricordato che questi 
        paesi possono essere aiutati in maniera duratura non con l’elemosina o i 
        prestiti, che rendono dipendenti come una droga, ma attraverso la 
        costruzione di strutture sociali e politiche associate a maggiori 
        investimenti di capitali che possono recare dei vantaggi anche per gli 
        investitori. Ciò mostra chiaramente che la comunità mondiale deve in 
        ogni caso creare un sistema di concorrenza giuridicamente vincolante, il 
        che non significa uniformare la comunità mondiale. Essa dovrà essere 
        strutturata in maniera sussidiaria anche in futuro e costituita da 
        singole culture, comunità di stati o anche nazioni che tuttavia dovranno 
        rinunciare a una serie di rivendicazioni di sovranità e di privilegi. 
        L’unità europea; e anche quella di quest’unico mondo, si basano su un 
        rapporto di sussidiarietà che non deve livellare la molteplicità, ma la 
        deve rendere possibile. Una simile consapevolezza comune a livello 
        globale andrebbe cercata anche nel dialogo tra le religioni del mondo. 
        Questo è il compito della Chiesa cattolica come chiesa mondiale ma anche 
        delle chiese protestanti.
 
 Che cosa significa tutto questo per noi e per il nostro obbligo etico? 
        Per noi che vogliamo fare politica a partire dalla nostra responsabilità 
        cristiana, ciò significa impegnarsi e sforzarsi al massimo in un mondo 
        che si globalizza sempre di più. Il nostro campo di lavoro si è esteso. 
        Dobbiamo quindi guardare oltre “l’orizzonte ristretto” del nostro mondo 
        circostante, indipendentemente dal fatto che siamo lavoratori o 
        imprenditori. Sicuramente saremo minacciati da altre difficoltà e 
        pericoli in questa globalizzazione. I nostri posti di lavoro sono 
        sicuri? Ne perdiamo qualcuno? Possiamo creare qualcosa di nuovo e di 
        innovativo per poter continuare ad esistere? E’ certo che è questo che 
        ci viene richiesto. Saremo però anche in grado di affrontare tutto ciò 
        se riconosceremo che come cristiani abbiamo l’obbligo etico di farlo: 
        poiché la frase del Vangelo “ogni volta che avete fatto queste cose a 
        uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” 
        mantiene tutto il suo valore e tutta la sua forza in questo processo. 
        Non possiamo dirci che ciò che avviene nei Balcani non ci riguarda, che 
        le inondazioni che devastano la Cina non hanno alcun significato per 
        noi. La pusillanimità, la paura e l’egoismo sopito in noi qui non sono 
        d’aiuto. Dobbiamo riconoscere con la ragione ed il coraggio e con la 
        necessaria oggettività questi cambiamenti del nostro mondo e cercare di 
        dargli una forma. Abbiamo la possibilità di mostrare che il 
        cristianesimo non è una vecchia ideologia priva di contenuti ma un 
        fermento che può aiutare – che dovrebbe aiutare – a creare un mondo più 
        giusto.
 
 Siamo sulla strada verso un ordine del mondo nuovo e migliore? 
        L’ottimismo di molti, in particolare degli americani, è stato smorzato 
        dopo l’11 settembre 2001. A ragione. Non solo noi, come singoli 
        individui ma anche la società mondiale, vive gli effetti costanti del 
        “male” sotto forma del terrorismo, del nazionalismo emergente, 
        dell’egoismo. Eppure: a noi rimane l’obbligo di combattere tutto questo. 
        Queste mie riflessioni intendono indicare delle norme generali per ciò 
        che noi come cristiani – come politici – possiamo e dobbiamo far 
        fruttare. Ne vale la pena!
 
 5 luglio 2002
 
 (da Ideazione 6-2001, novembre-dicembre)
 
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