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        Gli interessi nazionali dell’Italiadi Sergio Romano
 
 “Interesse nazionale” è una delle espressioni più abusate del linguaggio 
        politico. Ciò che maggiormente mi sorprende, ogniqualvolta mi accade di 
        leggerla in discorsi o analisi, è l’apodittica sicurezza con cui viene 
        utilizzata. L’autore se ne serve generalmente per condannare ciò che gli 
        sembra essere il suo opposto, vale a dire una politica estera ispirata 
        da preoccupazioni ideali o motivazioni ideologiche. L’“interesse 
        nazionale” diventa così una categoria evidente e ovvia di cui è inutile 
        illustrare i contenuti. E’ sinonimo di realismo, concretezza, 
        pragmatismo, “sacro egoismo” o addirittura giustificato cinismo. La 
        discussione si sposta a questo punto dal giudizio sui contenuti alla 
        disputa sulle motivazioni, e l’espressione diventa una bandiera da 
        contrapporre ad altre bandiere, altrettanto astratte e imprecise. Nel 
        contesto politico italiano serve generalmente a condannare le ambiguità, 
        le reticenze, il pacifismo e l’umanitarismo della politica estera 
        italiana. Chi crede nell’“interesse nazionale” pensa che l’Italia 
        dovrebbe disporre di maggiori forze militari ed essere pronta a 
        servirsene, o difendere la propria sovranità contro gli editti di 
        Bruxelles. Ma sul merito e sulla sostanza dei problemi le discussioni 
        generalmente sono poche e superficiali. Proviamo a rovesciare i termini 
        del problema. Proviamo a sostenere, con un pizzico di paradosso 
        provocatorio, che non vi è stato momento, dal giorno della sua nascita, 
        in cui la Repubblica non abbia fatto, chiunque la governasse, una 
        politica corrispondente al proprio “interesse nazionale”.
 
 Per accettare il paradosso converrà ricordare che è “interesse 
        nazionale” ciò che la classe dirigente percepisce in un particolare 
        momento come necessario al futuro del paese e al suo benessere. Mi 
        spiego con qualche esempio. Dopo il clamoroso rifiuto del trattato di 
        Versailles e lo scacco subìto da Wilson al Congresso, gli Stati Uniti 
        rifiutarono di lasciarsi coinvolgere nella politica degli equilibri 
        europei. Fu un errore. Ma lo commisero nella convinzione che l’opinione 
        pubblica americana non avrebbe approvato una politica “wilsoniana” e che 
        l’America avrebbe perduto una parte della propria autonomia. Negli anni 
        seguenti l’America pretese che i suoi alleati rimborsassero i debiti 
        contratti negli anni della guerra. Fu un errore (erano soldi spesi per 
        la vittoria comune). Ma lo commise nella convinzione che l’opinione 
        pubblica si sarebbe opposta a qualsiasi altra soluzione. Verso la metà 
        degli anni Cinquanta la Francia decise di concedere l’indipendenza alla 
        Tunisia e al Marocco, ma si ostinò a considerare l’Algeria come una 
        provincia metropolitana di oltremare. Fu un errore.
 
 Ma la Francia lo commise per non abbandonare un milione di europei e 
        nella convinzione che il possesso dell’Algeria le avrebbe permesso di 
        esercitare una maggiore influenza sugli affari del Mediterraneo. Nel 
        1956 la Francia e la Gran Bretagna decisero di opporsi con le armi alla 
        nazionalizzazione egiziana del Canale di Suez. Fu un errore. Ma il primo 
        ministro francese Guy Mollet credette che la sconfitta di Nasser avrebbe 
        facilitato la guerra dei francesi in Algeria e il primo ministro inglese 
        Anthony Eden ritenne che Londra non potesse rinunciare al controllo 
        della via delle Indie. Verso la metà degli anni Sessanta il presidente 
        americano Johnson chiese e ottenne dal Congresso una risoluzione che gli 
        permise d’impegnare in Vietnam, nei mesi seguenti, circa mezzo milione 
        di uomini. Fu un errore. Ma l’America lo commise nella convinzione che 
        tutta l’Asia del Sud-est, se i comunisti avessero preso il potere a 
        Saigon, sarebbe divenuta comunista. Nel dicembre del 1979 l’Unione 
        Sovietica mandò un corpo di spedizione a Kabul per dirimere una faida 
        tra le opposte fazioni del partito al potere. Fu un errore. Ma i 
        dirigenti dell’Urss lo commisero nella convinzione che avrebbero 
        acquistato così un nuovo satellite e si sarebbero aperta la strada verso 
        i “mari caldi” del Golfo Persico e dell’Oceano Indiano. Nell’agosto del 
        1991 il presidente iracheno Saddam Hussein decise di conquistare e 
        annettere il Kuwait. Fu un errore. Ma Saddam lo commise nella 
        convinzione che avrebbe definitivamente rafforzato il suo potere nel 
        Golfo e che nessuno gli avrebbe sbarrato la strada.
 
 Potremmo citare altri errori, tutti commessi in nome dell’interesse 
        nazionale. Ma questi bastano, credo, a suggerire qualche riflessione. 
        L’interesse nazionale, in nome del quale i governi prendono spesso 
        decisioni difficili e pericolose, è in realtà una combinazione 
        d’interessi concreti, pregiudizi ideologici, preoccupazioni di politica 
        interna, considerazioni storiche e culturali. La Francia non si sarebbe 
        arroccata in difesa dell’“Algeria francese” se lo scacco subìto nel ’40 
        e il suo incerto status di grande potenza non l’avessero indotta a 
        difendere il suo impero coloniale. La Gran Bretagna avrebbe accettato la 
        nazionalizzazione del Canale se non avesse ritenuto di poter conservare, 
        sotto altro nome, il suo vecchio impero. Johnson non avrebbe fatto la 
        Guerra del Vietnam se si fosse accorto (lo compresero Nixon e Kissinger 
        dieci anni dopo) che il miglior modo per fronteggiare il comunismo in 
        Asia era quello di sfruttare il dissidio tra l’Urss e la Cina. 
        Sbagliarono, ma tutti credettero, nel momento in cui agivano, di 
        difendere l’interesse nazionale del loro paese; e non si accorsero che 
        stavano difendendo in realtà le loro convinzioni e i loro pregiudizi.
 
 In quasi tutti questi casi le classi dirigenti mutarono prima o dopo la 
        loro percezione dell’interesse nazionale, corressero l’errore, 
        perseguirono altri obiettivi e talvolta si spinsero a fare esattamente 
        l’opposto di ciò che avevano fatto negli anni precedenti. Gli Stati 
        Uniti intervennero nella seconda guerra mondiale, decisero da allora di 
        essere “potenza europea” e anziché pretendere il pagamento dei debiti di 
        guerra dettero all’Europa il Piano Marshall. La Francia rinunciò 
        all’Algeria. La Gran Bretagna accettò la perdita del Canale e cominciò a 
        smantellare il suo impero coloniale. Gli Stati Uniti abbandonarono il 
        Vietnam e riconobbero la Cina comunista. L’Unione Sovietica ritirò le 
        sue truppe dall’Afghanistan. Soltanto l’Iraq, sembra, non ha imparato la 
        lezione. Ma l’avrebbe imparata forse se gli americani, dopo la 
        liberazione del Kuwait, avessero fatto una chiara scelta: occupare 
        Baghdad e cacciarne Saddam o accettare il dittatore iracheno come il 
        necessario interlocutore di un paese sconfitto.
 
 Queste riflessioni servono a capire meglio la politica estera italiana 
        del secondo dopoguerra. In una prima fase una buona parte della nuova 
        classe dirigente auspicò il capovolgimento della politica interventista 
        degli anni precedenti e propose che l’Italia si richiudesse in una sorta 
        di aurea neutralità. Ma De Gasperi e Sforza capirono che il paese non 
        avrebbe potuto permetterselo. La neutralità richiede mezzi e virtù di 
        cui il paese, in quel momento, era completamente privo: un importante 
        bilancio militare, una forte coesione morale, il desiderio di proteggere 
        con le armi l’integrità del territorio nazionale. L’Italia era prostrata 
        dal conflitto, divisa dalla guerra civile, bisognosa di aiuti che 
        potevano giungerci prevalentemente dagli Stati Uniti e insidiata 
        all’interno da una quinta colonna (il partito comunista) che avrebbe 
        approfittato del suo isolamento internazionale per trasformare la 
        neutralità in una sorta di vassallaggio sovietico.
 
 Aderimmo al Patto Atlantico quindi per difenderci contro un nemico 
        esterno, l’Urss, e un nemico interno, il Pci. De Gasperi prevalse perché 
        si servì di un argomento che ebbe in quel momento una straordinaria 
        efficacia. Dimostrò che l’Italia aveva un evidente interesse a stare nel 
        Patto Atlantico con i suoi nuovi partner europei e che la nostra assenza 
        l’avrebbe esclusa dal gruppo che si stava costituendo nel continente per 
        la creazione di una Europa integrata. Ma le pressioni di De Gasperi 
        sull’ala neutralista del suo partito non impedirono che nel voto con cui 
        il trattato di Washington venne ratificato alle Camere vi fosse una 
        considerevole parte di ambiguità. Rimasero antiatlantici tutti coloro 
        che escludevano a priori l’ipotesi di un conflitto, respingevano 
        l’ideologia “capitalista” degli Stati Uniti, rifiutavano di considerare 
        l’Urss e il Pci alla stregua di un nemico. Restammo nella Nato perché 
        l’organizzazione ci garantiva sicurezza e ci permetteva di consacrare 
        alle spese militari una modesta percentuale del nostro bilancio; ma 
        tiepidamente e con molte riserve mentali.
 
 La storia della politica estera italiana tra la firma del Patto e il 
        crollo del muro di Berlino è la storia del modo in cui la classe 
        dirigente cercò di conciliare la fedeltà all’Alleanza e la vocazione 
        neutralista di una larga parte del paese. I primi uomini di governo dopo 
        la firma del Patto – De Gasperi, Sforza, Pella, Scelba, Martino – 
        capirono l’importanza e l’utilità dell’impegno che l’Italia aveva 
        assunto. Ma gli altri – Gronchi, Fanfani, Moro, Forlani, Andreotti – 
        cercarono di temperare e diluire l’atlantismo con una serie di 
        iniziative mediterranee, terzomondiste, filoarabe e filosovietiche. Lo 
        fecero tra l’altro ogniqualvolta la Democrazia cristiana ritenne utile 
        “aprire a sinistra”: ai socialisti nel 1963 e ai comunisti nel 1976. In 
        ambedue i casi assistemmo a una sorta di singolare commedia degli 
        equivoci. Grazie ai governi di centrosinistra e di solidarietà 
        nazionale, l’Italia divenne ecumenicamente atlantica, ma i nuovi 
        arrivati si allearono con la sinistra democristiana per imporre al 
        governo una versione ancora più edulcorata dell’impegno che avevamo 
        assunto nel 1949. L’eccezione, in questo quadro, furono Francesco 
        Cossiga e Bettino Craxi. Il primo dette un contributo fondamentale alla 
        delibera con cui il Consiglio atlantico, nel dicembre del 1979, decise 
        lo stanziamente di missili Cruise e Pershing in cinque paesi 
        dell’Alleanza. Il secondo tenne fede all’impegno.
 
 Ma la musica di fondo della politica estera italiana continuò a essere, 
        sia pure con stili diversi, pacifista e neutralista. Forse l’uomo che 
        dette prova di maggiore coerenza, nel perseguire questa linea, fu Giulio 
        Andreotti. Coltivò l’amicizia con l’Unione Sovietica, promosse la prima 
        visita di Arafat in Italia, tenne rapporti cordiali con Gheddafi e con 
        gli iraniani, gettò Gladio in pasto alle sinistre e avrebbe rifiutato, 
        se le circostanze glielo avessero permesso, di partecipare alla Guerra 
        del Golfo. Fu indifferente all’“interesse nazionale”? Andreotti 
        risponderebbe probabilmente che la sua politica estera teneva 
        realisticamente conto di alcuni fattori italiani a cui è pericoloso 
        voltare le spalle. Il paese non ha grandi ambizioni nazionali, non vuole 
        spendere per la propria difesa, non è disposto ad accettare che i suoi 
        ragazzi rischino la vita, ha un sistema politico che non permette 
        decisioni “energiche”, ospita nel corpo stesso della sua società una 
        istituzione universale (la Chiesa cattolica) che è necessariamente 
        pacifica e a cui molti italiani ispirano le loro scelte. “Provate a 
        sommare questi fattori: – vi risponderebbe Andreotti – il risultato sarà 
        una politica estera non troppo diversa da quella che ho cercato di fare 
        negli anni in cui sono stato ministro della Difesa, presidente del 
        Consiglio, presidente della commissione Affari Esteri della Camera e 
        ministro degli Esteri”.
 
 Se la nostra politica atlantica fu spesso ambigua e tiepida, quella 
        europea fu quasi sempre chiara e coerente. La migliore classe dirigente 
        nazionale capì che l’integrazione europea presentava per l’Italia alcuni 
        vantaggi. Le permetteva di uscire decorosamente dal girone umiliante dei 
        paesi sconfitti. Le dava un posto di prima fila tra i “costruttori”. Le 
        permetteva di appellarsi alla memoria di Mazzini e di atteggiarsi a 
        “precursore”. La costringeva a tenere il passo con paesi prosperi e 
        dinamici. Quando socialisti e comunisti si convertirono all’idea di 
        Europa, l’integrazione del continente divenne il solo “interesse 
        nazionale” su cui non vi fossero forti dissensi. Queste considerazioni 
        concernono in gran parte i governi di quella che fu definita, con un 
        frettoloso necrologio, la “Prima Repubblica”. Da allora molte cose sono 
        cambiate. I comunisti italiani hanno perduto la loro “casa madre” e 
        molti di essi hanno cambiato ragione sociale. Esistono ancora due 
        partiti comunisti, ma non sono più la “quinta colonna” di una grande 
        potenza ostile. I governi sono ancora deboli, ma la nascita di un 
        sistema bipolare dovrebbe garantire esecutivi più omogenei e di più 
        lunga durata. Esistono molte minacce di varia natura, ma non esiste più 
        la minaccia incombente della grande potenza sovietica. Potremmo quindi, 
        senza troppi rischi, rimettere in discussione l’utilità della Nato e 
        chiederci se essa sia ancora adatta alle nostre esigenze. Ma potremmo 
        farlo soltanto se l’Europa assumesse una dimensione politico-militare e 
        fosse in condizione di garantire da sola la propria sicurezza. Poiché 
        nessun paese dell’Unione, a parte la Gran Bretagna, appare disposto a 
        spendere per la difesa una parte considerevole del proprio reddito, 
        continueremo a far parte della Nato e ad accettare in tal modo la 
        leadership degli Stati Uniti.
 
 Ho l’impressione tuttavia che il governo Berlusconi abbia interpretato 
        questa esigenza con un fervore filoamericano che è parso, in alcune 
        circostanze, eccessivo e inutile. La solidarietà contro il terrorismo è 
        giusta e opportuna; la bandiera americana appuntata sull’occhiello della 
        giacca mi è sembrata, quali che fossero le intenzioni del presidente del 
        Consiglio, una smanceria cortigiana. E mi è parso sorprendente che a 
        questo fervore filoamericano non corrispondesse un maggiore entusiasmo 
        per l’integrazione europea. Anziché investire le proprie energie sul 
        futuro dell’Unione e riconquistare una parte di primo piano nel processo 
        della sua costruzione, il governo sembra considerare l’Europa come un 
        obbligo a cui non è possibile sottrarsi.
 
 Non è soltanto un obbligo, è anche il potenziale moltiplicatore 
        dell’influenza che l’Italia può esercitare nelle questioni a cui è 
        maggiormente interessata. Il paese è troppo piccolo per essere veramente 
        “potenza” ed è troppo grande per lasciare ad altri la trattazione degli 
        affari che lo riguardano. L’Unione Europea può amplificare il suo ruolo. 
        Ma occorrerà che le iniziative della politica estera italiana, 
        soprattutto nel Mediterraneo, vengano prese nell’ambito dell’Europa e 
        servano in tal modo a estenderne le competenze. Mi spiego con un esempio 
        tratto dalla cronaca delle scorse settimane. Quando il presidente 
        francese Jacques Chirac volle che il Consiglio europeo di Gand fosse 
        preceduto da una riunione ristretta del “direttorio” 
        anglo-franco-tedesco sul terrorismo, l’Italia non avrebbe dovuto 
        deplorare la propria assenza, ma denunciare l’errore di una iniziativa 
        che divide l’Unione e pregiudica la formazione di una volontà comune. 
        Più degli altri maggiori paesi del continente l’Italia ha un forte 
        interesse a valorizzare l’Europa per dare risonanza alle proprie 
        ambizioni e ai propri interessi. A dispetto dell’impeccabile europeismo 
        di Renato Ruggiero, il governo Berlusconi sembra invece attratto dalla 
        convinzione che certe affinità “ideologiche” – con Bush, Aznar, Blair – 
        siano più importanti della costruzione dell’unità europea. Spero si 
        accorga rapidamente che l’Europa non è soltanto un ideale: è soprattutto 
        un “interesse”.
 
 5 luglio 2002
 
 (da Ideazione 6-2001, novembre-dicembre)
 
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