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        Le paure della gente qualunquedi Sergio Benvenuto
 
 Un sociologo mio amico sta elaborando un suo progetto di Democrazia 
        Stocastica: "Perché, anziché eleggere i rappresentanti del potere 
        legislativo ed esecutivo del nostro Paese, non estrarli a sorte?". Siamo 
        davvero sicuri che dei cittadini sorteggiati si dimostrerebbero 
        governanti peggiori dei politici professionisti che costituiscono la 
        "classe politica"? Dopo tutto, la giustizia americana, che si basa su 
        giurati estratti a sorte, non funziona peggio di quella italiana basata 
        su ferree carriere giuridiche. Una proposta del genere - che prima o poi 
        verrà applicata, ci scommetto - riflette un bisogno di democrazia 
        diretta: il nocciolo del populismo. In Italia avevamo un termine più 
        bello, qualunquismo. Proviene da "L'Uomo Qualunque" di Guglielmo 
        Giannini, partito che nel 1946 ottenne il 5,6 per cento dei voti alle 
        politiche. Giannini attaccava la classe politica nel suo insieme, 
        difendeva l'everyman; soprattutto reclamava meno tasse. La copertina del 
        primo numero del giornale L'Uomo Qualunque (dicembre 1944) portava la 
        vignetta di un signore torchiato dal governo, dai cui vestiti 
        sprizzavano tante monetine. E il tema anti-tasse era il leitmotiv dei 
        qualunquismi, prima che i leader liberalpopulisti dagli anni Ottanta in 
        poi se ne impadronissero. In effetti, pagare le tasse e fare il servizio 
        militare sono i due momenti in cui il singolo in modo evidente deve dare 
        qualcosa alla res publica.
 
 Populismo e qualunquismo sono uno stile politico che si costruisce sulla 
        base di una rigida dicotomia tra "il Popolo Puro" e "l'élite corrotta": 
        rifiuto della classe politica e primato della società civile. L'idea di 
        dare il potere alla gente qualunque deriva da Jean-Jacques Rousseau: 
        rifiuto della rappresentanza politica, partecipazione immediata e direi 
        ingenua della gente al governo. Riprendendo la distinzione classica di 
        Tönnies tra Gesellschaft (società) e Gemeinschaft (comunità), possiamo 
        dire che il populismo diffida della Gesellschaft ed esalta la 
        Gemeinschaft come fonte della legittimità politica. E' "il popolo" come 
        insieme della gente comune, che non si aliena nelle macchine ermetiche e 
        opache della politique politicienne. La battuta di Reagan - "il governo 
        non è la soluzione, è il problema" - ha sintetizzato in modo brillante 
        questo rifiuto delle élites politiche. In Francia, i crescenti attacchi 
        agli enarques - i laureati dell'Ena (Ecole Nationale d'Administration) 
        che formano gran parte della classe governativa francese - esprimono 
        impulsi analoghi. Da qui un certo anti-europeismo, da qui la paura 
        dell'europeismo: l'Europa è identificata al potere remoto degli 
        eurocrati di Bruxelles e dei banchieri di Francoforte. La 
        centralizzazione tecnocratica del potere contraddice l'esaltazione 
        populista dell'Heimat localista. Il populista diffida del cosmopolitismo 
        sradicato degli intellettuali - dei bobos - si fida solo di ciò che "mi 
        è vicino", che "capisco subito"; aborrisce - teme - la complessità 
        problematica, sogna una politica acqua e sapone. Il populismo rigetta 
        quello che la sociologia moderna considera la sua più grande conquista: 
        che le soluzioni dei problemi non sono semplici, che, insomma, la 
        società è un aggeggio maledettamente complicato.
 
 Nel 1994 il 52 per cento dei norvegesi bocciò con un referendum 
        l'entrata nell'Unione europea, che pur era auspicata dalla quasi 
        totalità della classe politica norvegese. Quando chiesi ad amici 
        norvegesi perché avessero votato contro l'Europa, mi dissero "i nostri 
        politici vogliono entrare in Europa perché così si sentiranno più 
        importanti, meno provinciali. Ma noi gente comune non abbiamo nulla da 
        guadagnarci". Anche in Norvegia ha trionfato l'"uomo qualunque". Il 
        qualunquista è, di solito, una persona incompetente di politica, che 
        bada solo agli affari propri, ma che, ad un certo punto, anziché 
        nascondere con scorno questa propria incompetenza, ne fa una bandiera 
        politica, ed esige una società governata da "gente qualunque come me". 
        Una certa dose di populismo è sempre presente in ogni società 
        democratica; ma il fatto nuovo di questi anni è che una quota crescente 
        di gente senza coscienza politica... sta prendendo coscienza politica di 
        sé. Fioriscono i partiti degli anti-partito, i politici 
        dell'anti-politica. Ora, per uno di sinistra un populista è 
        essenzialmente "uno di destra", che non sempre sa di esserlo. Negli anni 
        Sessanta, se uno mi diceva "sono a-politico", davo per scontato che 
        votasse per qualche partito di centro-destra; e mi sbagliavo davvero di 
        rado. Perché essere di sinistra è credere nel primato assoluto della 
        Politica - qui la maiuscola ci vuole. Ma di fatto il populismo si può 
        combinare a tutte le ideologie politiche. Prospera oggi così la variante 
        "liberal-populista, che paradossalmente associa ultraliberismo, 
        individualismo, consumismo, darwinismo sociale e xenofobia" (Alain de 
        Benoist).
 
 Oltre lo spartiacque destra/sinistra
 
 Anche se oggi si classificano i partiti populisti nell'estrema destra, 
        questi sfuggono alla dicotomia sinistra/destra, asse portante di quella 
        tradizione parlamentare e politica che il populismo, appunto, rifiuta. 
        Del resto, il desideratum populista di fondo - l'eliminazione della 
        rappresentanza politica e il potere dato alla "gente qualunque" - viene 
        spesso fatto proprio anche da movimenti di estrema sinistra. Parte 
        dell'anarchismo radicalizza temi populisti: viva il "mondo della vita" 
        popolare, a morte le macchine statali! La cometa maoista univa ad un 
        marxismo iper-semplificato temi squisitamente populisti: da qui la 
        pletora di riferimenti al popolo, "servire il popolo", ecc. Gli sterminî 
        dei khmer rossi in Cambogia furono una deriva estrema del populismo 
        asiatico, che celebrava le campagne sane contro le città corrotte. 
        Attorno al 1968 l'appello alla democrazia diretta - anche se entro un 
        frame linguistico marxista - divenne un leitmotiv. E spande un odore 
        populista persino l'esaltazione di Gramsci della cultura 
        nazional-popolare. Il suffragio universale si è affermato solo nel 
        Novecento. Con esso, tanta gente che ha opinioni politiche molto vaghe 
        ha avuto accesso al voto. In un primo tempo, il suffragio universale ha 
        premiato i partiti "popolari": socialisti, comunisti, cristiani, 
        nazionalisti (anche perché alle loro origini questi partiti usarono 
        moduli populisti). Ma le élites dirigenti di questi partiti non si erano 
        formate nell'agone elettorale: le loro radici, marxiste o confessionali, 
        affondavano in organizzazioni pre-suffragio-universale. Per molti 
        decenni il voto della "gente qualunque" ha delegato la gestione del 
        potere a queste élites cristiane, marxiste, nazionaliste. Ma da qualche 
        anno le cose stanno cambiando. I "qualunque", sempre più, reclamano di 
        essere governati da gente qualunque come loro. Il che però genera 
        paradossi a non finire: come avere dei governanti che non siano 
        politici? Ho voglia di sognare che un salumiere diventi primo ministro: 
        nella misura in cui diventerà primo ministro, sarà un politico e non più 
        un salumiere. Difficile evadere dal double bind. Il populista sogna una 
        circolarità quadrata dove il badare ai propri interessi particulari 
        coinciderebbe - miracolosamente - con gli interessi di tutti.
 
 "Le cose vanno male perché i politici rubano": questa è la visione 
        popolare della Storia. Karl Popper denunciò la concezione cospiratoria 
        della storia, il populismo ha invece una concezione corruttoria della 
        storia: tutto andrebbe bene se non ci fossero i politici corrotti. I 
        "qualunque" non vedono che la politica si fa in una rete complessa e non 
        trasparente di relazioni e negoziazioni, e che quindi ogni politica non 
        può mai essere lineare. Questa negazione della complessità porta ad una 
        fortissima personalizzazione della politica: trionfa il body language 
        del demagogo carismatico. Oggi la gente si aspetta meno dalla politica 
        ma, proprio per questo, chiede di più al politico come star mediatica. I 
        "qualunque" scelgono come leader il politico che appare più vicino a 
        loro, soprattutto stilisticamente. Non l'esperto, ma il seduttore. Così, 
        il programma politico del leader populista o ha aspetti puramente 
        negativi (un programma solo contro) o si risolve in overpromising, in 
        promesse iperboliche di salvazione. Il "qualunque" vuole essere salvato 
        soprattutto dalla politica nella misura in cui questa insidia la sua 
        tranquillità. Come scriveva Giannini nel suo Manifesto: "l'Uomo 
        Qualunque, stufo di tutti, il cui solo ardente desiderio è che nessuno 
        gli rompa più le scatole" (L'Uomo Qualunque, 27 dicembre 1944, p. 4.).
 
 La politica "rompe" perché è complessa, difficile da leggere e 
        interpretare, esige conoscenze sofisticate - il populista ha, invece, 
        bisogno di semplificazioni, "noi contro loro", come nel tifo sportivo. 
        Si dirà: "ma tutte le ideologie, di destra e di sinistra, sono una 
        riduzione della complessità". E' vero, ma le grandi ideologie 
        tradizionali si pensano come teorie complesse spiegate alle persone 
        semplici - il populismo invece, si pensa come teoria semplice della 
        gente semplice. Ed è questo bisogno di semplificazione a spingere ad una 
        visione di sé come popolo. L'utopia populista presume una coincidenza 
        tra la volontà generale e la volontà di ciascuno; una società dove si 
        farebbero contenti tutti, senza scelte laceranti. "La politica non mi 
        rompa le scatole!", diceva Giannini. La politica che rompe è quella che 
        obbliga a scelte dolorose, talvolta eroiche. Ad esempio, quando 
        Churchill prometteva ai britannici "solo lacrime, sudore e sangue" agiva 
        nel senso alto della politica: ai singoli posso chiedere dolore, purché 
        ciò vada a vantaggio del pubblico nel suo insieme. La pretesa quadratura 
        populista del cerchio individualista rimuove non solo la complessità del 
        sociale, ma anche la dimensione tragica della politica: che non c'è 
        sempre armonia prestabilita fra il mio interesse privato e quello 
        generale. Insomma, per parafrasare la Thatcher, "il popolo non esiste". 
        Il sogno di una democrazia diretta che faccia a meno di ogni burocrazia 
        e classe politica è non meno utopico del comunismo, dei movimenti 
        radicali degli anni '60 e '70, e oggi dei no-global. E le utopie, quando 
        vincono, si sa, producono disastri.
 
 La grande paura degll'immigrazione
 
 In questi anni di crescente immigrazione in Occidente, la rivolta 
        populista si coniuga sempre più all'angoscia xenofoba. L'anti-islamismo 
        oggi ha preso il posto dell'anti-semitismo come paradigma del 
        disprezzo-paura dell'estraneo e dell'altro. Che cosa fa del "qualunque" 
        una preda favorita della propaganda xenofoba? Prima di tutto perché le 
        persone economicamente e culturalmente povere - vivaio che alimenta il 
        voto populista - si sentono più esposte al pericolo di quanto non si 
        sentano le persone economicamente e culturalmente ricche. La "ricchezza" 
        (in tutti i sensi) ammortizza in parte l'angoscia: smorza l'impatto 
        dell'altro minaccioso, perché chi è colto e/o ricco vive entro un 
        orizzonte ampio, comprensibile. Chi vive invece nel proprio "piccolo" 
        non riesce a dare senso e prospettiva all'incombenza insensata di un 
        altro-da-sé inquietante. Xenofobia e politico-fobia si fondano spesso su 
        un'esaltazione dell'identità del proprio focolare. Non importa se questo 
        focolare identitario assuma forme nazionali (come nel lepenismo o 
        haiderismo), o regionali (come nella Lega Nord) o etno-linguistiche 
        (come nei separatismi basco o corso) o nazional-religiose (come 
        nell'irredentismo nord-irlandese): la mistica del Popolo - come 
        categoria della "gente qualunque" - esige un'identificazione forte 
        rispetto a tutto ciò che è "estraneo". Il populismo esalta la 
        Gemeinschaft coesa e unita in una focolarità indubitabile, senza 
        arzigogoli. L'immigrato è funesto come il politico, il tecnico, il 
        burocrate, il piccolo criminale: tutte figure estranee al focolare, 
        virus estranei che si intrufolano nella casa comune, agenti 
        de-costruttivi di un'unità ad un tempo trascendente e viscerale. "Con 
        tutti questi extracomunitari, non ci sentiamo più a casa nostra". Il 
        populismo esprime il backlash spontaneo alla globalizzazione tecnologica 
        ed economica del pianeta: contro i flussi deterritorializzati che 
        spappolano le identità storiche, il populismo fa quadrato - o meglio, 
        crea quadrato - attorno alla casa. Rivendica il sogno di un'identità 
        vernacolare inalienabile senza crepe interne - con l'uscio di casa ben 
        chiuso col chiavistello, nella lunga notte della storia.
 
 27 settembre
        2002
 
 (da Ideazione 4-2002, luglio-agosto)
 
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