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        Berlusconi e gli antidoti alla pauradi Eugenia Roccella
 
 Da cosa deriva la paura, l'emotività che oggi, come del resto è accaduto 
        in altri periodi di crisi, s'infiltra nel territorio della politica? La 
        post-modernità, e gli effetti psicologici che induce nei singoli, si 
        potrebbero riassumere con il titolo di una raccolta di racconti di Grace 
        Paley: Enormi cambiamenti all'ultimo minuto. Le nostre abitudini più 
        radicate, i nostri comportamenti più scontati, sono soggetti a 
        modificazioni incontrollabili e rapidissime; e soprattutto, si allarga 
        in maniera vertiginosa la forbice tra il senso comune e il pensiero 
        scientifico, tra il modo tradizionale di immaginare e organizzare 
        mentalmente la realtà e la conoscenza specialistica. Scopriamo che le 
        mucche non sono più erbivore, che gli esseri viventi sono clonabili e 
        che l'uomo può intervenire nella selezione genetica; e inoltre, che 
        tutte quelle "ragioni del cuore" che si dicevano irriducibili alla 
        razionalità, sono chimicamente modificabili, e dunque nemmeno la 
        sofferenza, lo strazio dei sentimenti, resta a contrassegnare l'umano. 
        La tecnologia diventa sempre più simile alla magia, perché non riusciamo 
        a seguirne i percorsi, ormai troppo lontani dal sapere artigianale o 
        dalla passione del dilettante; il mercato offre prodotti complicati, 
        misteriosi ed efficienti, che non sappiamo come funzionino e spesso 
        nemmeno di che materiale siano fatti. Spossessata delle vecchie forme di 
        sapere diffuso, della manualità e fisicità della conoscenza, la gente 
        comune - come appurano le ultime ricerche sui comportamenti degli 
        italiani - si rivolge in massa a maghi, cartomanti, taumaturghi e guru 
        di varia specie.
 
 La ciliegina sulla torta delle nostre ordinarie paure è la crisi delle 
        certezze identitarie, delle appartenenze. I nuovi flussi migratori, 
        apparentemente inarrestabili, prospettano la realizzazione del 
        sogno-incubo di una società multiculturale, o quantomeno multietnica. 
        Tutti insieme appassionatamente, a mangiare couscous e hamburger, pizza 
        e pollo tamdoori, goulash e involtini primavera; praticando tutte le 
        religioni e nessuna, inventandocele, cambiandole come si cambia un abito 
        che non ci sta più bene. Il rifiuto del diverso, radicato 
        nell'inconscio, la coscienza dei confini territoriali, che 
        contribuiscono a definire l'identità e a strutturare il senso di sé, 
        vengono subito apparentati alla xenofobia, parola impronunciabile 
        nonostante i patetici sforzi di Giovanni Sartori di legittimarla presso 
        la sinistra. La famiglia è sempre più ridotta alla coppia, grazie al 
        processo di destrutturazione che la investe da anni, e che incrina i 
        legami tra parenti e tra generazioni. La coppia stessa può essere di 
        vario tipo, immettendo nel bagaglio della cultura politicamente corretta 
        il concetto che la tutela della procreazione e del gruppo di parentela 
        non siano affatto essenziali alla coesione sociale. Tutto questo, 
        sempre, naturalmente, all'ultimo minuto, cioè senza essere preparati, 
        senza che riusciamo ad aprire un vero dibattito sulla qualità del 
        mutamento e sulla nostra possibilità di esprimere accettazione o 
        rifiuto, e di chiedere correzioni.
 
 C'è chi sostiene che già la modernità industriale aveva prodotto 
        sconquassi simili, così come ogni fase di rivolgimenti profondi negli 
        equilibri sociali ed economici, ogni rivoluzione tecnologica. È 
        senz'altro vero; e tuttavia, c'è qualcosa di assolutamente peculiare, 
        nelle crisi dell'oggi, qualcosa di estraneo alla natura dei grandi 
        cambiamenti che hanno segnato il percorso dell'umanità. Che fosse il 
        sole a girare intorno alla terra o viceversa, non mutava, nel 
        quotidiano, la percezione di sè del contadino o del mercante, la sua 
        immagine del corpo, la coscienza dolorosa della finitezza e fragilità 
        umana. Se la penicillina riusciva a salvare malati senza speranza, se le 
        aspettative di vita nell'Occidente s'impennavano, se le macchine e 
        l'automazione cambiavano la vita d'ogni giorno, non veniva mai intaccata 
        l'idea dei confini dell'esistenza, né la certezza di essere comunque 
        esposti alla casualità, o a un arbitrio superiore. Considerando la 
        storia umana come un grande videogame, si potrebbe dire che mentre 
        finora si è passati a livelli superiori di uno stesso percorso, oggi 
        siano in discussione i fondamenti, le regole. Con queste nuove regole 
        non abbiamo mai giocato, e nemmeno sappiamo se si può davvero giocare, o 
        se la questione investa la natura stessa del gioco (la vivibilità della 
        vita).
 
 Elaborare le paure e i timori diffusi
 
 Le ombre, le paure, il nostro lato oscuro, devono avere spazio, non 
        possono essere semplicemente negati, né si può pensare ancora che 
        bastino i lumi della ragione per scacciare le tenebre. Il buio è un 
        rifugio necessario, il luogo del simbolo e del fantasma, fa parte di noi 
        e deve trovare un luogo di elaborazione che non sia solo privato. Se 
        esorcizziamo l'ombra o facciamo finta che non esista, questa si vendica, 
        materializzandosi in incarnazioni imprevedibili, emergendo 
        all'improvviso, più temibile e spaventosa. Abbiamo eliminato i mostri 
        dalle favole, allevando i nostri figli alle insulse filastrocche di 
        Gianni Rodari, siamo stati persino in dubbio se comprar loro le pistole 
        giocattolo, e i bambini si sono appassionati ai mostri di plastica, a 
        quelli virtuali o televisivi. Abbiamo affermato che bisogna andare oltre 
        l'apparenza, scoprire il Quasimodo che si cela nel deviante, e ci siamo 
        ritrovati terrorizzati dai pedofili, dal "brutto sporco e cattivo". 
        Abbiamo demonizzato Haider per ritrovarci con Le Pen, abbiamo insistito 
        con gli orrori dell'Olocausto per avvertire ancora una volta il subdolo 
        venticello xenofobo che percorre l'Occidente, abbiamo proclamato la 
        facile accettazione dell'altro per sentir risorgere in noi l'altrettanto 
        facile e vecchio grido: "Mamma li turchi!".
 
 Per elaborare le paure bisogna, prima di tutto ammetterne l'esistenza e 
        la legittimità, evitando di radicalizzare lo scontro frontale tra 
        razionalità astratta - sempre giusta, sempre nel giusto - e ossessioni 
        oscure, sempre sbagliate e patologiche. Dei timori diffusi bisogna 
        parlare, portarli in piazza prima che in piazza ci arrivino brutalmente, 
        con il linguaggio estremizzato dell'emarginazione e del rifiuto. Questo, 
        forse, oggi la politica l'ha capito, l'hanno capito a proprie spese 
        soprattutto i partiti della sinistra europea non più vincente. Ma c'è un 
        di più che la politica potrebbe assumersi come obiettivo, e che in 
        Italia è stato introdotto da Berlusconi. È quello che Gramsci aveva 
        identificato come "ottimismo della volontà", e che oggi dovrebbe essere 
        allargato, diventare tout court ottimismo della politica. Per molto 
        tempo la sinistra ha avuto il monopolio della speranza. Magari chiedeva 
        sacrifici, chiedeva fede cieca, ma prometteva meraviglie per il futuro, 
        lasciando intravedere la realizzazione delle utopie, o anche soltanto un 
        domani migliore. Ma, come si sa, tutta l'impalcatura ideologica e 
        culturale del comunismo, e anche del socialismo riformista, si è 
        sbriciolata, lasciando pochi miti (e confusi) a cui aggrapparsi.
 
 L'eterno sorriso di Berlusconi (che qualcuno ha paragonato al ghigno del 
        gatto del Cheshire di Alice nel paese delle meraviglie) è arrivato 
        mentre i giudici processavano un'intera classe politica, 
        contrapponendosi al volto severo di Borrelli, allo stile accusatorio 
        scamiciato di Di Pietro, al volto tormentato, ripreso in primo piano, 
        del povero Forlani. Chiamare il suo movimento Forza Italia, mentre 
        vivevamo nel pieno della crisi dell'idea di nazione e di una grave crisi 
        della nostra nazione significava: siamo ancora una squadra, uniti ce la 
        faremo. Nel momento forse più difficile per la nostra Repubblica, 
        Berlusconi e il suo eroismo d'impresa, così americano, così raro nel 
        nostro Paese, ha funzionato come una cura d'urto, dosi massicce di 
        ricostituente per un'opinione pubblica smarrita e sfiduciata. Sullo 
        stile berlusconiano, all'inizio, si sprecavano le ironie pesanti, si 
        esercitavano i migliori specialisti di corsivi e vignette della 
        sinistra, certi che si trattasse di un fenomeno passeggero, di qualcosa 
        di profondamente estraneo alla politica. I grandi della Prima 
        Repubblica, personaggi la cui sobrietà era così teatralmente 
        caratterizzata da sfiorare l'istrionismo e la maniera (e valeva per 
        tutti, da De Gasperi a Moro, da Togliatti a Berlinguer), non potevano 
        avere per erede un uomo incline a un certo riduttivismo semplificatorio, 
        e che della politica non rispettava le regole e i modi codificati. 
        Invece, Berlusconi si è installato nel cuore di quella tradizione, 
        svecchiandola, inserendovi il suo eloquio diretto e semplice, la sua 
        comprensibilità, una capacità comunicativa mai vista, un'energia 
        elementare e contagiosa. La sinistra ha tentato disperatamente di 
        imitarlo, ritenendo che tutto si giocasse sul piano dell'immagine: e 
        dunque Prodi come figura paternalistica ma affidabile, Rutelli pulito e 
        attraente, e poi i girotondi, le finte allegrie, il tentativo di 
        rianimare lo spento "popolo della sinistra" con infiltrazioni 
        tardo-movimentiste e neo-populiste. Inutilmente. Il fatto è che il 
        sorriso di Berlusconi, irritante e galvanizzante, è autentico, rimanda a 
        una vita vissuta, a una biografia che tutti conoscono (vedereUna storia 
        italiana!) e che rispecchia i desideri profondi degli italiani. 
        Berlusconi, nato come campione della voglia diffusa di liberismo e 
        liberalismo, oggi può permettersi di fare il keynesiano, promettere 
        posti di lavoro e ponti sullo stretto, aumentare le pensioni minime, 
        mentre la sinistra ancora non sa che fare, se irrigidirsi 
        sull'immigrazione o buttarsi verso Bertinotti, accusare la polizia di 
        essere "cilena" o separarsi dalla rischiosa commistione con le piazze 
        no-global.
 
 Dopo il primato dell'economia
 
 Il tempo del primato dell'economia sta giungendo al termine, e tornano 
        in primo piano questioni più essenziali, che riguardano i sentimenti, la 
        vita e la morte, l'etica e l'identità. La politica deve farsi carico in 
        primo luogo delle speranze e delle paure, non più delle ideologie; deve 
        essere moderata, ma di un moderatismo non "democristiano", cioè tutto 
        politico, bensì pragmatico, cioè ispirato al senso comune. La politica 
        italiana è stata per decenni un regno separato, dotato di un suo 
        linguaggio, di specifici canali di accesso, circondata da un'aura di 
        lontananza carismatica e incomprensibile ai più. Il rispetto che 
        incuteva agli elettori era più simile a un atteggiamento ottocentesco da 
        sudditi del Regno di Napoli, quelli descritti da Tomasi di Lampedusa, 
        che al rispetto dei cittadini moderni per le loro istituzioni e i loro 
        rappresentanti. Berlusconi ha demitizzato queste forme di separazione 
        ("il teatrino della politica") stabilendo con l'opinione pubblica un 
        rapporto senza mediazioni partitiche, sostituendo con la comunicazione 
        diretta anche le antiche forme di controllo clientelare sulla base. Il 
        sistema dei partiti in Italia ha attraversato una fase di crisi profonda 
        da cui è uscito totalmente trasformato, ma se l'elettorato non è stato 
        troppo scosso, se il passaggio è stato relativamente indolore e comunque 
        ottenuto in forme controllate e nonviolente, lo si deve in gran parte 
        alla presenza di Berlusconi. La sua leadership ha costituito una sorta 
        di antidoto naturale all'emergere di conflitti, rifiuti, paure, troppo 
        laceranti. Il fondatore di Forza Italia ha portato sulla scena con 
        immediatezza e positività, tutta la "zona vietata" e negata della 
        politica, l'ha espressa in modi concreti e ragionevoli, le ha dato voce 
        e rappresentazione fin dal suo nascere. Se oggi non abbiamo Le Pen, se 
        le tentazioni da giustizia in piazza sono state battute, se la bufera 
        degli anni Novanta è stata superata in modo civile, mantenendo un grado 
        accettabile di affezione e credibilità alla politica, si deve alla 
        presenza di questo leader anomalo, e della sua spontanea capacità di 
        mantenere un contatto vivo e diretto con l'elettorato. Berlusconi ha 
        funzionato come un farmaco, forse anche solo un placebo, che, dopo 
        Tangentopoli, ha restituito speranza e voglia di farcela a un'opinione 
        pubblica rabbiosa e sfiduciata. Adesso che è al governo dovrà superare 
        altre prove; bisognerà verificare se presenta gravi controindicazioni o 
        se, in dosi massicce, può provocare assuefazione.
 
 27 settembre
        2002
 
 (da Ideazione 4-2002, luglio-agosto)
 
 
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