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        Paura e disgusto in Europadi Giuseppe Sacco
 
 Due sentimenti assai potenti, il disgusto e la paura - sentimenti 
        entrambi poco costruttivi, ed entrambi assai pericolosi - hanno 
        caratterizzato tutti i più recenti episodi elettorali della vita 
        politica europea, con la sola eccezione - val la pena di notare - delle 
        elezioni italiane di fine maggio. Sono sentimenti che caratterizzano, 
        per ora, solo il clima politico-psicologico, che è cosa diversa dagli 
        equilibri e dalla situazione politica. Questi sono, infatti, 
        caratterizzati dal fronteggiarsi di due o più disegni che hanno una loro 
        proposta per ogni aspetto della vita sociale, o anche dal dominare di 
        uno solo di essi. Il "clima" politico è invece creato dagli umori 
        dell'opinione pubblica che possono, con la mutevolezza propria dei 
        sentimenti di massa, concentrarsi su un solo tema e dargli importanza 
        assolutamente prevalente, almeno in quel momento. Mentre una posizione, 
        un progetto, un partito debbono poter rispondere alla totalità dei 
        problemi, quale che sia l'aspetto su cui caschi l'accento in un 
        qualsiasi momento. E' con il "clima politico" oggi prevalente nel 
        Vecchio continente, cioè con gli umori dell'opinione pubblica e le 
        irritazioni dell'elettorato, che si possono spiegare tanto la bruciante 
        umiliazione subìta dalla power élite francese al primo turno delle 
        elezioni presidenziali, quanto la nascita e il brusco successo di un 
        movimento o di una lista elettorale come quella di Fortuyn in Olanda. 
        Altra cosa è, invece, avere la chiara percezione dei cambiamenti 
        politici di fondo, cambiamenti che di solito si manifestano nel lungo 
        periodo, ma attraversano oggi una fase di "accelerazione della storia". 
        Anche una riflessione su un elemento così effimero come il clima 
        politico consente, però, di andare a capire un po' meglio quel fenomeno 
        anomalo che è stato chiamato "populismo", le cui ondate si susseguono a 
        ritmo assai frequente, e che si propaga in forme diverse da un Paese 
        d'Europa all'altro. Un fenomeno che promette di continuare, e forse di 
        trasformarsi in qualcos'altro di più compiuto, in un vero cambiamento 
        degli equilibri politici, se non addirittura in un rinnovamento del 
        personale e delle "famiglie" politiche. Qualcosa di simile è già 
        accaduto in Italia, e si verificherà probabilmente anche negli altri 
        Paesi europei, perché le ragioni che hanno fatto diffondere questi due 
        sentimenti - il disgusto e la paura - attraverso tutto il Vecchio 
        continente sono ancora presenti, e non sembrano destinate ad esaurirsi 
        nel futuro prevedibile.
 
 Tra clima politico-psicologico e fenomeni politici compiuti c'è - come 
        dicevamo - una netta differenza, ma esiste naturalmente reciproca 
        influenza. Gli umori dell'opinione pubblica, le irritazioni 
        dell'elettorato, gli entusiasmi o lo scoraggiamento, la partecipazione o 
        il distacco nei confronti della lotta politica sono tutti elementi che 
        finiscono spesso per sfociare nel cosiddetto voto di protesta, o nel 
        "voto sprecato" per partiti o candidati che non hanno nessuna chance di 
        vincere, o nell'astensionismo, o nei cosiddetti voti nulli, tra cui 
        vengono conteggiate soprattutto le schede su cui l'elettore ha scritto 
        insulti per la classe politica, o addirittura nel boicottaggio esplicito 
        delle elezioni. Sono comportamenti "umorali" e sintomi di irrequietezza 
        ma che possono, anche se non immediatamente, avere un ruolo 
        importantissimo nel determinare la strategia e il successo di partiti o 
        candidati "politici", cioè che hanno chances di vincere e programmi di 
        governo completi e coerenti. Basterà ricordare la travagliata elezione 
        presidenziale americana del 1968, che si svolse nel pieno di un periodo 
        di profondo smarrimento, delusione e irritazione dell'opinione pubblica. 
        Il candidato progressista era allora il presidente uscente Johnson, che 
        in politica interna aveva fortemente sviluppato i programmi sociali 
        della Grande Società, ed in politica estera era chiaramente impegnato a 
        sostenere il Vietnam del Sud. Anzi, in quella guerra era impegolato fino 
        al collo, tanto da concludere che la sola maniera onorevole per uscirne 
        era la vittoria. E i suoi rivali repubblicani - mentre criticavano 
        l'ampiezza delle politiche di welfare - avevano difficoltà, per il 
        carattere anticomunista del loro partito, a contrapporgli una diversa 
        linea di politica estera. Ma il Paese era stanco della guerra, e durante 
        le primarie il suo malumore si espresse ripetutamente e con intensità 
        sorprendente nei successi locali di un candidato senza speranze, il 
        pacifista Eugene McCarthy, che contestava "da sinistra" il presidente 
        uscente.
 
 Voti sprecati, apparentemente buoni solo a manifestare un sentimento, ma 
        voti il cui significato fu chiarissimo agli occhi di Johnson: "se 
        McCarthy ha successo - egli aveva detto - avrò subito Bob Kennedy alla 
        gola". Analoga conclusione fu tratta dal fratello del presidente 
        assassinato: il clima politico del Paese faceva intendere umori e 
        insofferenze che consentivano di contrapporre a Johnson un altro 
        programma politico-militare in Asia e un altro candidato democratico 
        alla presidenza. E lo stesso Johnson trasse dagli umori del Paese la 
        conclusione di non ripresentarsi. Certo, il clima politico era così teso 
        che Bob Kennedy pagò questo tentativo con la vita, lasciando aperta la 
        via della Casa Bianca al più improbabile tra i candidati: 
        l'arciconservatore Richard Nixon. E il principale consigliere di Nixon 
        seppe sfruttare a fondo gli umori del Paese ed avviare la ritirata dal 
        Vietnam. Nel giro di pochi anni, così, l'irrequietezza giovanile (che 
        era in gran parte la paura della chiamata alle armi) ed il disgusto 
        dell'opinione pubblica per quella che era diventata una guerra davvero 
        "sporca", le cui ragioni geo-politiche apparivano troppo astratte, 
        avevano reso possibile per un puro professionista - quale era Henry 
        Kissinger - di impostare in tutta la sua completezza e complessità una 
        strategia politica compiuta.
 
 Campanelli d'allarme di cambiamenti profondi
 
 Paura e disgusto sono però sentimenti che giocano soprattutto, ma non 
        solo, nei momenti in cui si manifestano le mere avvisaglie dei 
        cambiamenti politici, che preludono a fenomeni nuovi, o che si 
        incontrano solo nei momenti di trasformazione accelerata. Al contrario, 
        basta ricordare l'importanza che - all'interno dei singoli Paesi del 
        blocco occidentale - ha avuto la paura del comunismo e dell'Armata Rossa 
        nel determinare il consenso dell'elettorato attorno ai partiti 
        democratico-cristiani e conservatori, anche in Paesi dove c'era più da 
        innovare che da conservare, negli anni della Guerra Fredda, che sono 
        anni di grande stabilità. E come sia stata la paura della rivoluzione 
        comunista e del regime collettivista che ha spinto l'establishment dei 
        Paesi occidentali ad essere - o almeno a comportarsi come se fosse - più 
        democratico, corretto e aperto al "sociale" di quanto il suo istinto di 
        potere non lo avrebbe portato ad essere. Sulla scena internazionale, 
        poi, è ancora più evidente che è stata la paura dell'Unione Sovietica e 
        della sua propaganda rivoluzionaria, che ha a lungo indotto la potenza 
        egemone dell'Occidente ad ostentare una grande attenzione per gli 
        alleati, a favorire l'indipendenza dei territori coloniali, a sostenere 
        con aiuti materiali le politiche di sviluppo economico dei Paesi del 
        Terzo mondo. Non a caso, tutto ciò - ed altri atteggiamenti analoghi - 
        si è attenuato nel periodo post-comunista, anche se la potenza 
        vittoriosa presentava il crollo dell'Urss come il trionfo del 
        liberalismo nel campo delle relazioni internazionali come in quello 
        dell'organizzazione economica interna, e mascherava il proprio 
        interventismo dietro l'etichetta dei "diritti umani". E non a caso, dopo 
        l'11 settembre, si è aperto un periodo in cui la paura americana per il 
        terrorismo ha spinto Washington ad abbandonare l'ispirazione ideologica 
        e utopistica di Wilson, di Truman e di Kennedy e ad avviare una politica 
        di interventismo globale fondata esclusivamente sui propri interessi.
 
 Ma se il ruolo determinante della paura non è certo - in politica - un 
        fattore nuovo e sconosciuto, non lo è, peraltro, neanche il disgusto. 
        Anzi, negli stessi anni della Guerra Fredda, del "rischio disgusto" si è 
        dovuto tenere seriamente conto per evitare che si indebolisse il 
        consenso politico attorno agli "insostituibili" governi anticomunisti. 
        Il famoso "turatevi il naso e votate Dc", ne era una prova, e non certo 
        limitata all'Italia. Anzi il "turatevi il naso" potrebbe peraltro non 
        essere un concetto made in Italy e neanche un'invenzione di Montanelli. 
        Anche in Inghilterra negli anni '60 i liberali invitavano a votare 
        conservatore "turandosi il naso". Mentre è certo un'imitazione il 
        fenomeno del tutto analogo che si è visto anche nelle recenti elezioni 
        presidenziali francesi, quando alcuni gruppi della sinistra incitavano a 
        votare Chirac, ma solo dopo aver infilato un paio di guanti. Paura e 
        disgusto possono, in certe occasioni, cumulare la loro forza di spinta, 
        oppure temperarsi reciprocamente. Semplificando al massimo, la prima 
        combinazione si è vista nell'opposizione americana alla guerra del 
        Vietnam. La seconda combinazione di forze è apparsa evidente in 
        occasione delle elezioni presidenziali francesi, dove il disgusto per 
        alcuni discorsi di Le Pen e per il suo passato personale - accusato 
        com'è di aver partecipato alle pratiche di tortura largamente usate 
        dall'esercito francese durante la guerra algerina - ha in parte 
        controbilanciato la rispondenza evidente tra le preoccupazioni 
        prevalenti di larga parte dell'opinione pubblica transalpina e i temi da 
        lui agitati. E questi erano i temi dell'insicurezza e della criminalità 
        dilagante, della perduta garanzia della pensione, e dell'affidabilità 
        dei servizi sociali in generale. Erano cioè temi che puntavano ad 
        alimentare le paure di una vasta maggioranza dei francesi e a sfruttarle 
        elettoralmente. Al primo turno delle presidenziali, hanno prevalso le 
        paure dei francesi. Al secondo, il disgusto per il candidato 
        dell'estrema destra.
 
 Il quadro, naturalmente, è un po' più complesso. Se è stato evidente che 
        le pulsioni antisemite e razzistiche di Le Pen hanno creato un disgusto 
        che ha controbilanciato - specie al secondo turno delle elezioni 
        presidenziali - il fattore paura, su cui puntava il candidato di estrema 
        destra, è anche vero che - al primo turno - le stesse spinte 
        contrapposte avevano giocato contro i suoi avversari. In quella 
        occasione, infatti, il disgusto per la classe politica e, in generale, 
        il disgusto per la meschinità della routine nazionale - che è forte in 
        Francia come in altri Paesi europei - ha temperato l'altra grande paura 
        degli europei, quella della globalizzazione. Nel ridurre a circa il 
        trentacinque per cento complessivo la percentuale di consenso dei due 
        candidati più importanti (uno presidente uscente, l'altro primo Ministro 
        in carica) non potevano bastare solo gli scandali e la noia. Anche se è 
        stato più che comprensibile che la sfida tra Jospin e Chirac venisse 
        definita il "duello tra i due noiosi", un ruolo importante è stato anche 
        quello che ha avuto il disgusto per i giochetti e la consumata retorica 
        della politique politicienne, per il conformismo asfissiante che domina 
        nella vita interna del Paese, sia nella prassi del potere che nelle 
        ossessive campagne propagandistiche per ottenere il consenso elettorale 
        al regime della co-abitazione, campagne propagandistiche che sono 
        martellanti nei media, nelle università, dappertutto.
 
 Di questa plumbea political correctness contro cui l'opinione pubblica 
        europea non riesce più a nascondere il proprio disgusto, fanno, 
        naturalmente, parte in primo luogo le tematiche nazionalistiche, ormai 
        oscillanti tra il funereo e il patetico, in tempi di globalizzazione 
        economica e di ristrutturazione imperiale dell'ordine mondiale. E poi, 
        le tematiche ideologiche e culturali che non riescono a superare la 
        rimasticatura di un marxismo chiaramente appreso sul Bignami, e ciò 
        mentre l'Occidente vive una fase della sua storia in cui le ideologie 
        sono in piena crisi, ed intere biblioteche hanno perso ogni capacità di 
        aiutare un'interpretazione della realtà vivente, e si sono trasformate 
        in archivi di documenti d'epoca. Ad imitazione dell'America nel 
        repertorio del conformismo hanno trovato posto persino alcune tematiche 
        religiose, in cui riemerge il ridicolo "antipapismo" di un mondo ormai a 
        totale dominante culturale anglosassone, ma in cui il protestantesimo 
        originario si è dissolto, trasformandosi in una semplice mentalità volta 
        al successo e quindi agli affari. E infine ci sono le tematiche 
        protezionistiche e burocratico-dirigiste, in un'economia mondiale dove 
        ormai - come la generazione Internet ha chiaramente percepito - contano 
        soprattutto i flussi di informazioni, di tecnologie, di capitali, di 
        merci, e - in minor misura - di uomini; in cui conta la trasformazione 
        tecnologica e la capacità dei singoli di arricchirsi cavalcandola finché 
        essa corre, e poi abbandonandola rapidamente.
 
 E siccome la "generazione Internet" ha ormai compiuto trent'anni, la 
        frattura con le élites del potere, in tutti i Paesi europei, appare 
        assai grave e l'establishment avverte di essere impreparato alla 
        globalizzazione, e sgomento di fronte ad essa. L'establishment, perciò, 
        vive anch'esso nella paura e cerca, per mantenersi a galla, di 
        "combattere il fuoco con il fuoco", di sfruttare le paure 
        dell'elettorato e il capriccioso combinarsi dei loro variabili umori. Le 
        paure che determinano il clima spirituale e politico dell'Europa d'oggi, 
        appaiono così una mescolanza di paure vecchie e nuove. Si tratta molto 
        spesso di timori legati a fenomeni già da lungo tempo presenti nella 
        società, ma in maniera non acuta, come portato di minacce diffuse, di 
        cui la più tipica è quella nei confronti dell'immigrato. Se la 
        sensibilità a tali fenomeni risulta oggi accresciuta, è per il venir 
        meno di paure vecchie, in particolare quella del comunismo, la cui morte 
        ha riportato al primo posto problemi un tempo considerati secondari ma 
        anche di paure ancora più antiche: quella del nazismo e del fascismo, 
        razzista, nazionalista, gerarchico, tardo-romantico, che hanno reso meno 
        automatica la condanna dei sentimenti xenofobi. Il caso Fortuyn è in 
        questo senso assai significativo. Per lanciare la sua folgorante - e 
        brevissima - carriera politica, egli ha infatti potuto riprendere temi 
        la cui ultima fase di popolarità era stata negli anni Trenta - come il 
        tema della "superiorità" di alcune culture su altre - e mescolarli senza 
        che ciò suscitasse scandalo (anzi con notevole successo popolare) a 
        tematiche prodotte dalle società affluenti degli anni Sessanta, e 
        diventate luogo comune di massa, nel chiassoso "assalto al cielo" della 
        generazione sessantottina e post-sessantottina. E' un cocktail, come si 
        è visto, che può essere assai inebriante, e che fa apparire come una 
        svista colossale quella di paragonare Fortuyn a Le Pen. Per capire il 
        fenomeno da lui rappresentato e la bizzarra mescolanza di posizioni 
        libertarie e xenofobe, di tolleranza della diversità sessuale e di 
        ostilità contro gli immigrati e in particolare contro gli islamici, è 
        perciò più utile fare il parallelo con un altro leader, di casa nostra, 
        questo. E che non è Bossi, che pure in genere viene citato quando - 
        confondendo movimenti tra loro assai diversi - si tracciano pasticciati 
        affreschi pan-europei di questa "nuova destra", bensì Marco Pannella, 
        che con un cocktail non molto dissimile riuscì a raccogliere qualche 
        anno fa addirittura un sette per cento alle elezioni europee.
 
 I radicali sono stati più volte, negli ultimi decenni, termometro del 
        "clima politico", degli umori e talora dell'esasperazione degli 
        italiani. Pur fregiandosi del nome di "partito", e pur essendo in 
        esistenza fin dal 1956 - avendo cioè una storia infinitamente più lunga 
        di quella del partito di Pim Fortuyn - i radicali non presentano il 
        profilo, come lo abbiamo brevemente descritto, di una forza politica 
        compiuta, o almeno non lo presentano più da quando Marco Pannella ne è 
        diventato leader. Il ruolo giocato da questa singolare personalità 
        nell'evoluzione della società italiana negli ultimi decenni è certamente 
        assai importante, ma è consistito soprattutto nel fare emergere 
        trasformazioni anche profondissime che i partiti tradizionali non 
        osavano neanche prendere in considerazione, provocando come conseguenza 
        sconquassi epocali nel sistema. E tutta l'attività dei radicali è stata 
        volta più a destabilizzare situazioni, che a offrire progetti precisi 
        per la creazione di equilibri più avanzati, mentre le limitate forze 
        dell'uomo e dei suoi seguaci si concentravano su temi specifici, ma non 
        erano in grado di offrire un disegno complessivo, che comprendesse, ad 
        esempio, una strategia economica, un'articolata visione in materia 
        internazionale, militare, sociale, ecc. Cioè non erano in grado di 
        offrire una politica compiuta ed organica, e forse non erano neanche 
        interessati a farlo. Farlo è toccato ad altre forze, più burocratiche, 
        più lente, meno audaci, ma anche più strutturate, più rispondenti ad 
        interessi organizzati e costituiti nella società, in una parola: a forze 
        più autenticamente politiche.
 
 E la somiglianza tra Fortuyn e Pannella è uno dei più singolari punti di 
        contatto tra l'attuale evoluzione del clima politico dell'Europa in 
        generale e quello dell'Italia in particolare. Ma non è l'unico, ed è - 
        in definitiva - solo un punto di contatto secondario. Perché - a parte 
        ogni altra differenza di contenuto e di merito - esiste tra l'evoluzione 
        del sentimento pubblico nel nostro Paese e nel resto d'Europa un chiaro 
        parallelismo, anche se con un netto divario temporale. Nel senso che, in 
        questo campo, l'Italia precede l'evoluzione europea circa una decina, 
        che non sono pochi, in politica, di anni. Sottolineare questo tipo di 
        parallelismi è sempre un'operazione audace. Nonostante tutte le 
        convergenze dell'ultimo cinquantennio, le società politiche europee 
        mantengono, infatti, forti elementi di differenza. E tra le vicende dei 
        vari Paesi è, quindi, necessario fare le dovute distinzioni. Per quel 
        che riguarda la Francia, va per esempio tenuto conto del fatto che il 
        fenomeno non ha nulla dell'improvvisa e sorprendente fiammata 
        sprigionatasi in Olanda attorno alle provocazioni di Fortuyn. Al 
        contrario, si tratta di un fenomeno che - specie per quel che riguarda 
        l'antisemitismo - ha tutta la muffa della viellie France, e in cui la 
        rivolta contro l'inefficienza di una élite incrostata al potere in 
        maniera ormai divenuta intollerabile si è per un verso incanalata in odi 
        e risentimenti che risalgono alla guerra d'Algeria, e per un altro verso 
        si innesta - paradossalmente - sullo scontento derivante da una patente 
        discriminazione ai danni dei francesi di origine araba, anche se di 
        seconda o terza generazione.
 
 Metabolizzare la protesta: il caso italiano
 
 In Germania, invece, il peso del passato - cioè il disgusto, vero o 
        forzato che sia - nei confronti dei neo-nazisti, impedisce da anni che 
        le paure della popolazione prendano questo sinistro profilo e finiscano 
        per dirigere il voto protestatario verso i comunisti dell'ex Ddr, o 
        verso il partito del "giudice inflessibile" di Amburgo. Ma una volta 
        fatte le debite differenze, i casi suddetti - così come quelli del 
        movimento anti-immigrati in Danimarca, del British National Party in 
        Inghilterra, dei movimenti isolazionisti in Svizzera, ecc. - appaiono 
        abbastanza analoghi da poterli considerare correlati, e quindi da 
        consentire di prenderli in esame come un fenomeno unico, ancorché 
        fortemente venato di componenti locali. E, soprattutto, consente di 
        confrontarlo al fenomeno elettorale che si ebbe in Italia con le 
        elezioni politiche del 1992, quando la Lega Nord portò a sorpresa in 
        Parlamento ben 25 senatori e 55 deputati. Fu, quello, un fenomeno 
        dirompente, uno scatto di insofferenza e di protesta, un'esplosione che 
        chiaramente indicò quale fosse l'umore del Paese, in una parola il 
        "clima" politico. Ma poco più, perché nel sistema politico 
        corporativo-consociativo che reggeva l'Italia di allora, il voto per la 
        Lega era un voto di protesta, un "voto sprecato". Eppure è stato in 
        virtù di quel segnale di un'insoddisfazione dell'elettorato italiano per 
        i vecchi partiti che fu possibile, due anni dopo, la nascita di Forza 
        Italia e l'inizio di un processo di rinnovamento della classe politica 
        di governo del nostro Paese che - si spera - è lungi dall'essere 
        terminato.
 
 Certo, la Lega Nord non poteva essere definita un movimento 
        "nazionalista", come invece fanno alcuni politologi inglesi a proposito 
        della destra radicale europea. Al contrario, la Lega Nord - che da anni 
        aveva una sua rappresentanza ai margini del sistema - era allora un 
        movimento regionalista che esprimeva i sentimenti e le illusioni di una 
        parte del Paese, forse culturalmente arretrata, ma in rapido sviluppo 
        sulla base di un modello export-oriented, e che trovava un'occasione 
        storica che sembrava fatta su misura per lei nel clima intellettuale 
        dell'immediato post-comunismo, in cui era esplosa la globalizzazione e 
        il mito della fine dello Stato nazionale. Il successo della Lega Nord si 
        innestava anche su un residuo di rivalità tra Nord e Sud Italia e su un 
        arcaico sentimento "austriacante" che, nello smarrimento determinato 
        dalla fine dell'impero sovietico, oltre a giocare un tragico ruolo in 
        Slovenia e Croazia, diede qualche segno della sua esistenza anche in 
        Ungheria e in Cecoslovacchia. Ma era una congiuntura storica assai 
        fragile e fatalmente effimera. Perciò, se la Lega finisce oggi per 
        essere affastellata tra movimenti "nazionalisti" d'Europa, non è solo 
        per la superficialità di molti commentatori, ma perché anch'essa ha 
        intelligentemente messo a frutto - per evolvere - i dieci anni di 
        vantaggio che la stagione politica italiana ha sul resto delle società 
        dell'Europa continentale. Essa ha compiuto un'obiettiva evoluzione, 
        prendendo coscienza che l'unica identità popolare cui sia oggi possibile 
        appellarsi in Italia, è quella italiana, e non certo quella, astratta, 
        della Padania. Anche l'evoluzione della Lega mostra, insomma, che 
        l'Italia è avanti di un decennio sul resto del Vecchio continente.
 
 Si potrebbe osservare che il passaggio dai successi della Lega alla 
        vittoria di Berlusconi non è così lineare come quello dalle vittorie di 
        McCarthy alle primarie e la discesa in campo di Bob Kennedy. Che il 
        decennio degli anni Novanta è stato in gran parte perduto. Che, in 
        definitiva, la coalizione di Berlusconi non riuscì, dopo la vittoria del 
        1994, a governare che sette brevi ed agitati mesi, e che fu proprio la 
        Lega a determinarne la caduta. Ma ciò avvenne probabilmente proprio 
        perché il leader leghista avvertiva - con l'istinto e il fiuto politico 
        che lo caratterizzano - che Forza Italia era un tentativo di trovare una 
        risposta nazionale e a livello di alternativa politica - e non più 
        fondato su frustrazioni provinciali e scatto umorale - 
        all'insoddisfazione degli italiani. E che, pertanto, essa rappresentava 
        una minaccia per il movimento guidato da Umberto Bossi, che sarebbe 
        stato travolto e assorbito, così come nel 1968 il "voto di protesta" e 
        quindi "sprecato" per McCarthy era stato risucchiato dal consenso per 
        Bob Kennedy, candidato "politico". E se si volesse poi ricavare, dalla 
        breve durata del primo governo Berlusconi, il significato di una ridotta 
        rilevanza storica di quella transizione, sarebbe facile controbattere 
        che anche il primo governo laburista inglese giunto a Downing Street 
        sotto la guida di Ramsey McDonald a fine gennaio del 1924, nel quadro di 
        una rivolta contro l'establishment che - dopo la Prima guerra mondiale - 
        scosse profondamente tutta l'Europa, riuscì a resistere in Parlamento 
        soltanto per sette mesi. Ma ciò non gli impedì di tornare 
        successivamente al potere con una vittoria elettorale e di trasformare 
        così profondamente la società britannica con l'introduzione del welfare 
        state, che nessun governo conservatore arrivato al potere negli ottant'anni 
        successivi ha potuto disfare quell'opera. Neanche quando a guidarlo c'è 
        stata la signora Thatcher.
 
 Paura e disgusto, rabbia e protesta non sono - come dicevamo - in grado 
        di produrre direttamente fenomeni, proposte e soluzioni politiche, ma 
        solo di creare il clima necessario perché queste vengano tentate: il 
        clima di irrequietezza dell'opinione pubblica e di rifiuto contro i 
        politici di professione, contro le burocrazie di partito, contro i 
        leaders figli di leaders cresciuti nel serraglio dell'apparato, contro 
        la mancanza di idee, di soluzioni innovative, di contatto con una realtà 
        che cambia tumultuosamente. E, soprattutto, paura e disgusto esprimono 
        il rigetto umano, prima che politico, della mentalità di una casta dei 
        politici di professione, casta che si considera pregiudizialmente 
        superiore e che ritiene di poter cambiare slogans e parole d'ordine, 
        casacche ideologiche e punti di riferimento internazionali, mantenendo, 
        sempre e comunque, al potere le stesse dinastie politiche e 
        intellettuali.
 
 Una rivolta contro la vecchia èlite
 
 Il crollo di questa vecchia nomenklatura è visibile dappertutto 
        in Europa. E se in Italia il fenomeno è avvenuto con un decennio 
        d'anticipo, non è naturalmente perché gli italiani siano più 
        intelligenti o più maturi degli altri, ma soltanto perché nel nostro 
        Paese questa casta si era più strettamente identificata con gli 
        equilibri della Guerra Fredda. I democristiani come garanzia della 
        permanenza della società italiana nell'Occidente, e i comunisti come il 
        partito di obbedienza sovietica che più di ogni altro al mondo riusciva 
        a raccogliere adesioni spontanee. Screditati i secondi, e non più 
        indispensabili i primi, dopo il crollo del comunismo ed il dissolvimento 
        dell'Unione Sovietica, l'Italia è stata perciò investita dall'aria nuova 
        molto più immediatamente, direttamente ed apertamente di quanto non sia 
        accaduto ai Paesi in cui si era stabilizzata l'alternanza tra 
        socialdemocrazia e conservatori "illuminati", forze politiche che 
        conducevano la lotta contro la minaccia rivoluzionaria attraverso il 
        welfare state, cioè ammortizzando le iniquità sociali più stridenti. In 
        misura certamente minore, ma forse non irrilevante, l'Italia è stata, 
        poi, favorita nell'accelerare i tempi del rinnovamento dal fatto di 
        essere riuscita ad esprimere un leader di tipo animalo rispetto al 
        passato. Su tale leader è naturalmente troppo presto per esprimere un 
        giudizio storico. Ed il clima politico è troppo caldo anche per 
        qualsiasi giudizio che abbia un minimo di obiettività. Ma si può già 
        dire che - se non altro per estrazione professionale e formazione - 
        Berlusconi presenta caratteristiche, connotazione sociale e interessi 
        intellettuali molto diversi tanto da quelli del personale 
        politico-burocratico del passato, quanto da quello dei leaders populisti 
        ai quali è stato talora assimilato. E forse è stato proprio per il fatto 
        di essere diverso dagli uni e dagli altri che è riuscito a trasformare 
        in un fenomeno abbastanza compiutamente politico il rigetto e la 
        protesta che gli italiani - all'inizio degli anni Novanta - avevano 
        espresso nel massiccio consenso popolare al referendum di Segni, 
        all'inchiesta di Mani pulite e alla persona di Antonio Di Pietro, e 
        infine nel voto per la Lega. Cosicché Berlusconi si trova ad essere per 
        alcuni aspetti beneficiario, per altri causa determinante, in Italia, di 
        quel tentativo di rinnovamento che, in modi diversi, appare necessario 
        in quasi tutte le nazioni dell'Europa continentale. Tentativo che, nella 
        maggior parte di esse, è ancora lontanissimo dal grado di avanzamento 
        raggiunto nel nostro Paese, e che quindi si esprime attraverso fiammate 
        xenofobe o reazionarie, populiste o nazionaliste. Fenomeni politicamente 
        rozzi, che mostrano ancora crudamente la paura e il disgusto che ne sono 
        all'origine.
 
 27 settembre
        2002
 
 (da Ideazione 4-2002, luglio-agosto)
 
 
 
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