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        Cofferati e il bivio dei Dsdi Paolo Mossetti
 
        
        Una cosa oramai è certa: dopo l’intervista che Sergio Cofferati ha 
        rilasciato martedì scorso a “Repubblica”, quel poco di simpatia che 
        rimaneva tra lui e i Ds è sparita per sempre. Come previsto un po’ da 
        tutti i commentatori, l’ex segretario della Cgil approfitta della sua 
        posizione privilegiata, fuori da tutto, per menare fendenti a destra e a 
        manca. Il momento è quello giusto. L’ultima assemblea dei parlamentari 
        diessini è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: la 
        definitiva affermazione del gruppo cosiddetto “riformista” (guidato da 
        Fassino e D’Alema), e la seconda sconfitta, dopo quella di Pesaro, per 
        il “correntone” di sinistra. Non si sa se a spingere Cofferati verso 
        posizioni così estreme e spietate nei confronti della dirigenza Ds siano 
        stati (anche) rancori personali, da sempre coltivati nei confronti di 
        antagonisti come il Baffino. Però di certo la coincidenza, come ha detto 
        Angius, non è casuale. Piombano giù come macigni nel giorno in cui si 
        riunisce l'assemblea dei parlamentari dell'Ulivo. E un’altra cosa ormai 
        è certa. Cofferati non potrà mai essere considerato un riformista, un 
        moderato, un uomo di coesione e pacificazione. Le sue parole non hanno 
        fatto altro che infierire definitivamente sull’Ulivo già morto, e 
        lacerare ancor di più i rapporti tra le varie fazioni della Quercia. 
        
        Il successo del 23 marzo, con la sterminata manifestazione al Circo 
        Massimo, gli ha dato alla testa, al Cinese e ai suoi. Stanno sempre lì a 
        guardare e a riguardare il film di quell'adunata e ogni volta si 
        convincono di essere i più forti. E che tutto il resto della sinistra, a 
        cominciare dalla nomenklatura della Quercia, non doveva avere altro 
        destino che sottomettersi ai conquistatori in arrivo dal palazzo di 
        corso d'Italia. Per questo Cofferati non ha mangiato giù quest’ennesimo 
        schiaffo al radicalismo della piazza. «La regola delle decisioni a 
        maggioranza è un suicidio, un atto di autolesionismo». Ma che ci trova 
        di tanto scandaloso? Non è lo stesso modello adottato da tutte le 
        democrazie europee? «Non capisco a quale modello di organizzazione 
        risponda un sistema in cui, tra forze politiche diverse per storia e 
        cultura, si decida a maggioranza». «Provo tristezza e anche un po' di 
        pena, soprattutto per quelli che nel mio partito, ai tempi del vecchio 
        Pci, sono stati più volte umiliati proprio in nome della "disciplina"» 
        L'inquisitore di corso d'Italia grida ai Fassino, ai D'Alema, ai 
        Bersani, ai Morando, ai Violante: voi non credete più ai valori della 
        sinistra, alla sua identità, alla sua storia di lotte in difesa dei 
        deboli. Ma diremmo noi: questa è una logica ben peggiore del 
        “centralismo democratico”. E’ una logica staliniana, bulgara: la 
        contraddizione è dovuta al traditore che si annida nel tuo campo, se lo 
        espelli, o lo umili, elimini la contraddizione... 
        
        L'intervistatore di Repubblica, quotidiano schierato da sempre con 
        D'Alema e che però ha pure dato voce alle istanze movimentiste, chiede, 
        apparentemente severo: "Ma intanto oggi l'Afghanistan è un Paese in cui 
        le donne possono dismettere il burqa, i bambini non saltano più sulle 
        mine, negli stadi si gioca a calcio invece di giustiziare gli infedeli. 
        E' un passo avanti o nega anche questo?» «Lo nego eccome», gli risponde 
        Tex. «Ero contrario allora, resto contrario oggi all'intervento a Kabul: 
        il terrorismo non è debellato, si continua a morire come prima e le 
        vittime dei bombardamenti sono state tante, ma non ce le hanno fatte 
        vedere in tv». Cofferati, come pure milioni di elettori della sinistra 
        rifondarola e diessina, quelli più nostalgici, granitici e inamovibili 
        dalle loro convinzioni, riesce a negare persino quello Sofri ammette dal 
        carcere di Pisa: che cioè, pur fra mille difficoltà ed errori, gli Usa 
        più di una volta hanno riportato un riportato un minimo di civiltà in un 
        pezzo di mondo con le armi. Allora, certo, per dire no alle decisioni a 
        maggioranza è preferibile lo spettacolo vergognoso di un'opposizione che 
        vota in ordine sparso sugli alpini in Afghanistan. Ma certo, per i 
        pacifisti, per Cofferati e Gino Strada è tutto più facile: basta andare 
        in piazza a gridare no alla guerra, e il problema è risolto. 
        
        «Su un tema fondamentale come la guerra si può anche cadere». E se 
        questa è la linea della sinistra, anche se tornasse al governo cadrebbe 
        al primo voto in Parlamento. Ma chi se ne frega?, direbbe il nostro Tex 
        insieme a Bertinotti. Ci sono certe battaglie che vanno fatte anche se 
        perse in partenza. Meglio rossi che morti, si diceva sotto la minaccia 
        dei missili sovietici. Oggi invece si pensa, ma non si dice, che è 
        meglio abbandonare qualunque alleanza contro il terrorismo, meglio 
        rinunciare a qualunque piano di controllo delle frontiere, delle piazze, 
        dei movimenti, pure se si va incontro a rischi di degenerazione. Per lo 
        meno si salvaguardia la “democrazia diretta”, questo abbaglio, migliore 
        della “democrazia formale”, si diceva una volta. Per questo, che importa 
        della coerenza, del realismo, del senso di Stato e di istituzione? 
        Meglio Un capo pronto anche a perdere, ma restando in piedi, con in 
        pugno il vessillo di una battaglia giusta. Ma questa è l'ennesima 
        maschera dello sconfittismo, il male eterno della sinistra. L'ultima 
        traduzione pratica della teoria che è meglio stare all'opposizione che 
        governare.
        
         
        
        Cofferati vorrebbe che i Ds si aprissero, si allargassero, dialogassero 
        con tutti, e nel frattempo i movimenti chiedono «più sinistra», alla 
        Moretti, che è un principio escludente per definizione. E la stessa Cgil 
        è stata diretta in maniera opposta agli slogan Cofferatiani: altro che 
        apertura, chiusura e insofferenza verso i “traditori” della Cgil. Sono 
        soprattutto queste contraddizioni, che portano ad atteggiamenti 
        arroganti e presuntuosi, che non ci convincono. Così come non ci 
        convincono le ragioni di politica economica che, secondo il Cinese, 
        meritavano uno sciopero generale. In realtà la situazione è aggravata 
        soprattutto dall’andazzo delle borse mondiali, dagli scandali passati, 
        dalla fiacca che colpisce tutta Europa. E in anni non lontani la 
        situazione era anche peggiore. Ma niente, la Cgil non ci sente. Ha ormai 
        impersonato l’immagine di un esercito impegnato in uno scontro 
        all'ultimo sangue con un governo di destra nemico di chi lavora..«Di 
        sciopero generale non ne basta uno, ma ne servono altri due». Ma intanto 
        con questa linea è andata a pezzi l'unità sindacale, nel momento del 
        dramma Fiat.
        
         
        
        «Oggi l'Ulivo è di fronte a un bivio: o si dà un progetto visibile e un 
        programma condiviso, per poi scegliere regole e leader, oppure si 
        condanna all'asfissia tattica di queste settimane». Davvero qui poi si 
        raggiunge il colmo dell'incoerenza. Sembra far finta di nulla, 
        Cofferati, ma non dovrebbe capire da solo che l'asfissia tattica, come 
        la chiama, è stata imposta all'Ulivo proprio dai movimenti, dalla “base” 
        dalla Cgil e dai girotondi? «Il problema non può essere il radicalismo 
        dei movimenti, che sono radicali per definizione. E poi alla distanza i 
        movimenti hanno dimostrato di non nutrire nessuna propensione per 
        l'antipolitica. Il vero guaio è che l'opposizione non sa rispondere alle 
        istanze della società e arriva sempre dopo i girotondi". Se il problema 
        è questo, allora bisogna chiedersi a che serve dare una struttura a un 
        partito così come avviene nel resto del mondo. E bisogna chiedersi che 
        fine avrebbe fatto il vecchio, monolitico Pci se avesse ceduto di fronte 
        al fiume in piena del '77, non del '68. Basti vedere i volti e le 
        biografie di molti leader noglobal, e si scoprirà che facevano parte non 
        tanto di quell'ala "riformista" dei movimenti sessantottini, quanto 
        piuttosto di quella galassia incomprensibile e settaria che voleva il 
        Pci ancora più a sinistra, ancora più contro gli Usa, la Nato, il 
        capitalismo, l'odiata socialdemocrazia. Non è un caso che sono proprio 
        tutti questi leaderini a fare da giullari nella corte cofferatiana, 
        visto che ne condividono il carisma, il vigore, e soprattutto le folle 
        oceaniche che altrimenti, pur con mille G8, loro così saputelli non 
        saprebbero mai raccogliere.
        
         
        
        Il vero bivio dell’Ulivo, sia detto forte e chiaro, è di fronte al 
        rapporto tormentato (a dir poco) con il “correntone”. Che in realtà non 
        è affatto una corrente, ma una quinta colonna del populismo piazzaiolo 
        portato dentro i Ds. Come si potranno conciliare le decisioni della 
        maggioranza con una minoranza così rumorosa, rissosa, prepotente? E come 
        conciliare il progetto di chi vuol convincere il ventre molle del Paese 
        a non votare più Berlusconi, con quello di chi guarda con simpatia più 
        Bertinotti e Casarini che membri del loro stesso partito? E si leggano 
        le dichiarazioni di Cesare Salvi, applaudito a Porto Alegre dai 
        devastatori di Genova, che non a caso sottoscrive in pieno le frasi del 
        Cinese, mentre il capogruppo al Senato Angius le demoliva. Qui non si 
        forte dissenso, ma di rottura. Forse è inutile ripeterlo, ma davvero 
        siamo convinti che una separazione consensuale, fra questi due mondi 
        diversi, sarebbe meglio di una rottura definitiva nei momenti cruciali 
        per il Paese, o peggio durante il governo? Ricordiamoci di come cadde 
        Prodi. Per quanto si potrà andare avanti così? Nessuno pronuncia, o 
        vuole pronunciare, la parola «scissione». Quando proposi quest’idea un 
        anno fa, tutti mi dissero che sarebbe stata una tragedia. Ma non si vede 
        come e chi possa fermare la Quercia, in questo progressiva scivolamento. 
        E non sarebbe, come per ottant’anni, l’ala riformista ad andarsene dal 
        primo partito di sinistra, ma l’ala più radicale. E, avvistato lo 
        spaurecchio della “cacciata”, i diretti interessati fanno di tutto per 
        esorcizzarlo. Ma il dissanguamento continua. 
        
        Cofferati impersona, come al solito, la Verità, la Vox Populi: «Sono 
        convinto che come me la pensi tanta, tanta gente». Intanto, come ha 
        mostrato mesi fa un sondaggio di Mannheimer, la leadership del Cinese 
        non si tramuterebbe affatto in un trionfo dell’Ulivo. Alla domanda: “Se 
        domani ci fossero le elezioni politiche e Cofferati fosse leader 
        dell’Ulivo, lei per chi voterebbe?”, gli interpellati darebbero il 43 
        per cento dei suffragi al centrosinistra. Mentre, senza il leader della 
        Cgil, attualmente l’Ulivo si attesterebbe intorno al 45 per cento. E un 
        altro sondaggio, per quello che può valere, ci dice che la maggioranza 
        dell’elettorato di centro-sinistra chiede sì un’opposizione più 
        intransigente, ma non per questo più “radicale” o “di sinistra”. 
        Meditate, companeros, meditate... Insomma, il Gigante della Pirelli è 
        ormai in preda a un individualismo esasperato, che gli fa pensare di 
        essere l'unico leader in grado di ribaltare le sorti di una sinistra in 
        declino. Ma le conseguenze di questa certezza sono tragiche. Perché, 
        alla fine della fiera, il Cinese si ritroverà a regnare su un territorio 
        di rovine. Visto che ha spaccato il movimento sindacale, il proprio 
        partito e l'Ulivo. 
        
        29 ottobre 2002 |