| 
        
        “Così ho cambiato la politica estera”intervista a Silvio Berlusconi di Pierluigi 
        Mennitti
 
 L’anno che si chiude ha rappresentato per la politica estera italiana 
        una curiosa particolarità: in seguito alle dimissioni del ministro degli 
        Esteri Renato Ruggiero, nel gennaio 2002, il presidente del Consiglio 
        Silvio Berlusconi ha deciso di assumere l’interim della Farnesina. Non è 
        una novità per l’Italia repubblicana, giacché il doppio incarico 
        (presidente del Consiglio e ministro degli Esteri) fu quasi una costante 
        negli anni Cinquanta. Capitò ad Alcide De Gasperi nel 1953, a Giuseppe 
        Pella tra il 1953 e il 1954, ad Amintore Fanfani tra il 1958 e il 1959. 
        E’ invece una particolarità, perché rispetto alle esperienze di 
        quarant’anni fa questo interim di Berlusconi sembra voler ridisegnare 
        ruoli e competenze di chi dirige la politica estera del paese. La 
        complessità dei tempi moderni, che in politica sembra riassumersi anche 
        nella contaminazione tra spazio interno e spazio esterno (e dunque tra 
        politica interna e politica estera), ha accelerato nelle democrazie 
        avanzate d’Occidente la prevalenza del capo del governo rispetto al 
        ministro degli Esteri nella direzione e nelle strategie da applicare 
        agli affari esteri. Perché tali affari investono sempre di più la cifra 
        politica complessiva di un governo: cosa è estero e cosa è interno 
        quando si parla di guerra al terrorismo, di sicurezza nazionale, di 
        Europa? Capita così che si percepisca come attore principale della 
        politica estera britannica Tony Blair, e si ignori completamente il nome 
        del suo ministro degli Esteri, Jack Straw. Lo stesso accade per la 
        Francia, gli Stati Uniti o la Russia. Solo in Germania Joschka Fischer è 
        oggi più famoso di Gerhard Schröder, ma quella è un’altra storia, tutta 
        politica.
 
 Nel ripercorrere assieme al presidente del Consiglio gli undici mesi di 
        sdoppiamento tra Palazzo Chigi e la Farnesina, abbiamo dunque cercato di 
        tracciare il nuovo profilo della politca estera italiana così come il 
        governo della Casa delle Libertà ha inteso impostarlo dopo i primi mesi 
        di rodaggio. L’intervista spazia su più questioni, dagli interessi 
        nazionali alla guerra al terrorismo internazionale, dall’espansione 
        economica dell’Italia nel mondo globalizzato all’Unione europea, dalla 
        riunificazione del Vecchio Continente al ruolo italiano rispetto all’Est 
        europeo e al Mediterraneo. Fino al passaggio di consegne al nuovo 
        ministro che dovrà interpretare la sua funzione in maniera del tutto 
        nuova.
 
 Signor Presidente, lei ha assunto da quasi un anno 
        la guida del ministero degli Esteri. Un periodo in cui la politica 
        estera italiana è cambiata sensibilmente, nello stile e negli obiettivi. 
        In cosa si è distinto il suo modo di intendere il ruolo del ministro 
        degli Esteri da quello dei suoi predecessori?
 
 Di norma la politica estera di un paese è fatta di interessi nazionali 
        di lungo e lunghissimo periodo che non cambiano quando muta il quadro 
        politico interno. Esiste una continuità dettata dal tragitto storico 
        compiuto da ciascun paese all’interno di un determinato contesto 
        geopolitico, che lo vede protagonista di una rete di impegni bilaterali 
        e multilaterali che non possono essere disattesi. Il successo della Casa 
        delle Libertà alle ultime elezioni politiche ha conferito al governo che 
        ho l’onore di guidare una prospettiva di lungo termine senza precedenti 
        negli ultimi cinquant’anni. E’ ovvio che ne risulti accresciuta la 
        credibilità, il peso, la capacità di incidere del presidente del 
        Consiglio sulla scena internazionale. Non parlerei di un cambiamento di 
        obiettivi ma piuttosto di maggior chiarezza nelle cose da fare e nei 
        traguardi da raggiungere. Vi è una maggiore consapevolezza del ruolo che 
        il nostro paese è chiamato a svolgere, degli obblighi che discendono dal 
        fatto di essere la quinta economia mondiale, il terzo contributore netto 
        al bilancio dell’Unione europea, il terzo paese in termini di truppe 
        impegnate all’estero in operazioni di pace sotto l’egida delle Nazioni 
        Unite. Dobbiamo rendercene conto noi, dobbiamo farlo intendere anche ai 
        nostri interlocutori. Lei mi parlava di un cambiamento di stile. Forse 
        si tratta proprio di questo: di una maggiore convinzione, di un maggiore 
        senso di responsabilità che trova espressione in un modo nuovo di 
        condurre la politica estera. Non lo chiamerei uno stile, ma piuttosto un 
        modo di operare frutto dell’esperienza tratta da anni di lavoro nel 
        mondo del privato, nel quale il rapporto personale, la parola data, gli 
        impegni assunti e rispettati sono la base della credibilità e del 
        successo.
 
 Dal momento in cui si è insediato alla Farnesina, 
        lei ha insistito sul fatto che l’Italia avrebbe dovuto interpretare in 
        maniera più dinamica il proprio ruolo all’interno del consesso 
        internazionale. Ma quale deve essere, a suo parere, il ruolo dell’Italia 
        nel mondo globalizzato?
 
 In un mondo globalizzato, come lei lo definisce, ciò che conta è la 
        capacità di affermarsi del paese nel suo complesso e ciò comporta una 
        revisione dal profondo del modo di intendere il ruolo e i compiti della 
        nostra diplomazia. Una visione tradizionalista, riduttiva e statica 
        degli interessi dell’Italia ci vedrebbe progressivamente perdere 
        posizioni rispetto alla dinamicità degli altri paesi. Mi scuso se 
        utilizzo metafore tratte dal mondo dell’economia, ma è proprio sul piano 
        economico che si misura la vitalità di un paese. Grandi aspirazioni non 
        supportate da una economia di dimensioni comparabili sarebbero soltanto 
        velleitarie e prive di credibilità. Quella che era un tempo l’espansione 
        territoriale di una nazione è diventata ora la sua presenza economica 
        sui mercati mondiali. Ecco perché dal mio insediamento alla Farnesina ho 
        voluto operare un riorientamento delle priorità dei nostri diplomatici. 
        Il loro operato verrà d’ora in poi misurato anche sulla base di criteri 
        quantitativi, sull’incremento dell’import-export con un determinato 
        paese, sul numero di imprese italiane che si insediano all’estero, sulla 
        capacità di incrementare il flusso di investimenti esteri in Italia, di 
        aumentare il numero di stranieri che ogni anno visitano il nostro paese. 
        Non si tratta di trasformare i nostri ambasciatori in altrettanti 
        “piazzisti”, ma di affiancare questi nuovi obiettivi ai loro compiti 
        tradizionali. Stiamo inoltre reimpostando il lavoro degli istituti di 
        cultura che debbono affiancare la proiezione del modello italiano 
        all’estero, accompagnando la penetrazione economica con quella 
        culturale, artistica e linguistica. Come presidente del Consiglio posso 
        assicurarvi che i rappresentanti dei principali paesi nostri 
        interlocutori non si fanno certo scrupolo di difendere con orgoglio e 
        caparbietà i loro interessi nazionali.
 
 Solo in tempi recenti il concetto di interesse 
        nazionale è tornato al centro del dibattito. Ovviamente, l’interesse 
        nazionale è un concetto dinamico. Quali sono gli interessi permanenti e 
        quelli nuovi che sostanziano la nostra politica estera?
 
 L’Italia punta a rafforzare la sua posizione sia in ambito atlantico che 
        in ambito europeo e l’azione del mio governo in politica estera è volta 
        al raggiungimento di questo obiettivo che interpretiamo con il giusto 
        equilibrio. Le due vocazioni, quella atlantica e quella europea, si sono 
        fuse ad esempio nell’iniziativa di Pratica di Mare: l’apertura verso la 
        nuova Russia di Vladimir Putin è un nostro interesse nazionale, ed è 
        anche al tempo stesso un interesse di tutta l’Europa e di tutto il mondo 
        occidentale. Lo stesso vale per la tradizionale vocazione mediterranea 
        dell’Italia, che per collocazione geografica, vicende storiche e, 
        aggiungerei, per simpatia, ci colloca al centro dei rapporti che 
        uniscono l’Africa settentrionale, il Medio Oriente ed il Nord Europa. I 
        paesi di queste regioni guardano all’Italia con rinnovato interesse, 
        ammirano il nostro patrimonio culturale e storico, invidiano il nostro 
        sistema delle piccole e medie imprese, in altri termini guardano 
        all’Italia come modello e come interlocutore privilegiato.
 
 Lo scenario entro il quale ci si muove, dopo l’11 
        settembre 2001, è quello della lotta al terrorismo internazionale. La 
        lunga guerra, come è stata definita dal presidente George W. Bush, è 
        condotta su più tavoli: militare, economico-finanziario, diplomatico. 
        Può definire il ruolo e i compiti dell’Italia nella guerra al 
        terrorismo?
 
 L’11 settembre ha segnato la storia di tutti noi. Ricordo ancora come, 
        al G8 di Genova, osservando i leaders dei principali paesi mondiali 
        scherzare fraternamente tra loro, pensavo che avremmo consegnato alle 
        nuove generazioni un futuro ben diverso dagli orrori che avevamo 
        conosciuto nel Novecento. L’attacco alle Torri Gemelle è stato invece un 
        tragico monito del fatto che la libertà non è un bene acquisito per 
        sempre, ma un bene che dobbiamo difendere continuamente.
 Sul piano diplomatico abbiamo espresso ammirazione per l’equilibrio con 
        il quale il presidente Bush ha evitato una reazione eccessiva sulla scia 
        dell’emozione che avrebbe potuto provocare un vero e proprio scontro tra 
        civiltà, con conseguenze che nessuno sarebbe in grado di arginare, e ci 
        siamo uniti alla grande coalizione che si è schierata dalla parte degli 
        Stati Uniti nel combattere il terrorismo. I nostri servizi hanno svolto 
        un eccellente lavoro in collaborazione con quelli alleati consentendo di 
        individuare e di neutralizzare le reti operanti nel nostro e in altri 
        paesi. Così come i nostri ragazzi in divisa hanno dato il contributo che 
        ci è stato richiesto nelle operazioni militari in Afghanistan, e adesso 
        i nostri alpini si accingono a dare il cambio alle truppe del 
        contingente internazionale nella zona nord del paese.
 
 Al di là delle dichiarazioni ufficiali di buona 
        volontà, l’Unione europea non sembra svolgere un ruolo decisivo nel 
        Grande Gioco delle potenze mondiali. Ritiene che l’Unione possa davvero 
        sostituire gli Stati nazionali con una politica estera comune? E se sì, 
        attraverso quali passaggi?
 
 Siamo tutti consapevoli della difficoltà dell’Europa a far valere il 
        proprio peso nella gestione delle recenti crisi internazionali. Ma è una 
        difficoltà che ci accomuna ad altre grandi organizzazioni 
        internazionali. Il problema dell’Europa è quello di diventare sempre più 
        realtà politica dotata di meccanismi decisionali efficaci e di uomini in 
        grado di rappresentare gli interessi comunitari. Dopo aver costruito 
        l’Europa economica e della moneta unica si sta passando alla costruzione 
        dell’Europa politica. Io sono convinto che un’Europa forte politicamente 
        e capace di parlare con una voce sola sia essenziale per gli equilibri 
        del globo. Non è conveniente per nessuno che esista una sola 
        superpotenza, l’Europa deve arrivare ad essere in grado di condividere 
        con gli Stati Uniti le responsabilità della pace e della sicurezza nel 
        mondo.
 
 L’allargamento a venticinque Stati, poi a 
        ventisette forse già nel 2007, può dare più peso all’Unione europea?
 
 Sicuramente. Anche se non è solo un problema di quantità, ma di 
        efficacia. Dobbiamo da un lato snellire i meccanismi di decisione, 
        dall’altro trovare il modo di avvicinare ancora di più le istituzioni ai 
        cittadini europei. Il problema del deficit democratico nell’Unione è 
        assai avvertito a livello di pubblica opinione ed anche a livello 
        politico. La Convenzione sta lavorando su una proposta di Costituzione 
        per un’Europa più forte, che speriamo possa essere firmata a Roma 
        durante il semestre di presidenza italiano.
 
 E l’allargamento?
 
 Io ho sempre, intenzionalmente, usato il termine “riunificazione”.
 
 Qui si sfonda una porta aperta. L’editoriale dello 
        scorso numero di Ideazione parlava di riunificazione, infatti.
 
 Non è una definizione ideologica. E’ proprio di una riunificazione che 
        si tratta e l’idea che entro quindici anni dalla caduta del Muro di 
        Berlino l’Europa sarà in grado di riaccogliere i paesi dell’Europa 
        centro-orientale tagliati fuori da mezzo secolo di dittature comuniste è 
        una cosa che deve riempire di orgoglio tutti noi europei. Ovvio che 
        un’Europa riunificata con venticinque e poi ventisette Stati potrà 
        contare di più sul piano internazionale. Io vado più in là: l’Unione 
        potrà diventare un soggetto di politica estera ancora più forte 
        completando il proprio disegno storico di riunificazione, allargando i 
        propri confini anche alla Russia. Non oggi, forse neppure domani. Ma la 
        strada deve essere quella.
 
 Le opinioni su questo punto sono molto divergenti 
        a livello europeo.
 
 Certo, non tutti la pensano in questo modo. Ma avremo occasione di 
        discuterne insieme e di valutare a fondo lo svolgersi degli eventi.
 
 Restiamo ad Est. E’ evidente un rinnovato 
        interesse dell’Italia per l’Europa centro-orientale, danubiana e 
        balcanica, fino alla Russia. Quale ruolo politico e quali interessi 
        economici l’Italia intende perseguire nell’area ex-comunista?
 
 Il bilanciamento geopolitico ad Est, come dicevo, ci restituisce un 
        ruolo centrale nello scacchiere europeo. In più con i paesi dell’area 
        danubiana – Ungheria, Slovenia, Romania – ci sono legami economici 
        importanti. La stabilità politica di quest’area è altresì decisiva per 
        la stabilità nei Balcani. Per Romania e Bulgaria, che non entreranno 
        nella Ue con il primo blocco, si è definito come obiettivo temporale il 
        2007: è nel nostro interesse aiutarli a centrare questo obiettivo. Così 
        come è nel nostro interesse promuovere una seconda apertura ai paesi dei 
        Balcani. Siamo i più interessati alla stabilità politica e sociale di 
        quell’area, al suo benessere economico, al suo reintegro a pieno titolo 
        nel consesso europeo, alle reti e ai corridoi di trasporto 
        indispensabili per sviluppare la cooperazione economica. Se la Germania 
        è stato il motore della prima unificazione, l’Italia deve essere il 
        motore della ulteriore riunificazione che ci restituisca i nostri vicini 
        di sempre, quei popoli che abitano l’altra sponda dell’Adriatico. Sarà 
        un processo più lungo e più complesso perché sono paesi che escono da 
        anni di guerra o da feroci dittature: ma è proprio la prospettiva di 
        entrare nell’Unione europea lo stimolo più efficace per comportamenti 
        virtuosi negli Stati che ambiscono a farne parte.
 
 E’ opinione diffusa che, nelle democrazie 
        avanzate, delineare la politica estera sia compito del capo del governo. 
        Al ministro degli Esteri, invece, resterebbe un ruolo puramente 
        operativo, quasi tecnico. L’Italia si sta allineando a questa tendenza?
 
 E’ così, senza ombra di dubbio. L’Italia ha vissuto negli anni della 
        Prima Repubblica una sorta di diarchia tra politica interna e politica 
        estera. La prima restava sotto l’egida del capo del governo, la seconda 
        veniva appaltata al partito alleato, o alla corrente interna più forte. 
        Negli anni del Pentapartito questa diarchia era addirittura 
        istituzionalizzata, con l’alternanza di democristiani o socialisti. Oggi 
        le esigenze sono diverse anche perché sono cambiate le competenze e 
        molte questioni che prima erano considerate di politica estera investono 
        direttamente la linea e la responsabilità del governo. Tante materie 
        sono state delegate all’Europa, ma la gobalizzazione stessa ha spinto 
        temi di politica estera nell’agenda di politica interna, tanto che 
        questa distinzione ha ormai perso di senso. Quella che molti 
        commentatori hanno chiamato il ritorno della politica estera necessita 
        dunque una guida forte e riconosciuta sul piano internazionale: il primo 
        ministro ne diventa inevitabilmente l’interprete principale, anche se 
        non si deve ridurre il ruolo del titolare della Farnesina a quello di un 
        mero esecutore tecnico.
 
 Dunque il prossimo ministro degli Esteri...
 
 Sarà un ministro in grado di presiedere con intelligenza, rapidità di 
        giudizio e autorevolezza il Consiglio Europeo dei ministri degli Esteri 
        durante il semestre di Presidenza italiana dell’Unione e consapevole di 
        dover lavorare in stretto e continuativo contatto con Palazzo Chigi.
 
 (da Ideazione 6-2002, novembre-dicembre)
 
 pmennitti@ideazione.com
 |