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        Medio Oriente. La lenta fuga dalla repressionedi Giuseppe Mancini
 
 A leggere i dati dell’Index of Economic Freedom per i paesi del Medio 
        Oriente e dell’Africa settentrionale, si scopre che la comune percezione 
        di Stati fortemente repressivi, statalisti e dirigisti, è valida solo in 
        parte. I casi fortemente negativi non mancano: lo Yemen 131esimo in 
        graduatoria, la Siria 143esima, l’Iran 146esimo, la Libia 151esima 
        (questi ultimi due paesi sono inseriti nella categoria dei “repressed”); 
        mentre l’Irak, già ultimo lo scorso anno, per il 2003 è risultato non 
        giudicabile per mancanza di dati. Ma c’è anche chi ha puntato sulle 
        libertà economiche come unico strumento praticabile di sviluppo: il 
        Bahrein 16esimo, gli Emirati arabi uniti 24esimi (una posizione per 
        entrambi migliore di quella dell’Italia, 29esima), Israele 33esima 
        seguita a breve distanza da Kuwait, Qatar, Oman, Giordania, Marocco, 
        Arabia Saudita e Tunisia: tutti inseriti nella categoria degli Stati 
        “mostly free”, cioè “prevalentemente liberi”. Più indietro, e 
        “prevalentemente non liberi”, Libano, Algeria ed Egitto.
 
 Nell’insieme, secondo il report della Heritage ci sono stati dei 
        progressi apprezzabili, visto che ben 11 paesi su 17 hanno migliorato i 
        loro punteggi (con gli incrementi più sensibili registrati da Iran e 
        Libia) e solo 5 hanno peggiorato, con il Bahrein che ha conservato il 
        suo invidiabile punteggio. Tuttavia, come ricorda nel suo commento 
        Robert Pollock, non bisogna dimenticare che gli Stati meno liberi 
        economicamente sono anche quelli più grandi e più popolati, mentre gli 
        Stati economicamente liberi raccolgono complessivamente pochi milioni di 
        abitanti. Il Bahrein, gli Emirati arabi, il Qatar, l’Oman, a causa del 
        tasso elevato di apertura verso l’esterno che deriva dalle loro 
        dimensioni limitate e grazie alle loro immense risorse petrolifere, sono 
        spinti ad assicurare una cornice istituzionale e una stabilità 
        finanziaria che rendono appetibili gli investimenti stranieri e 
        consentono il progressivo svilupparsi dell’imprenditorialità privata. E 
        questi sono anche gli Stati in cui, parallelamente alla liberalizzazione 
        economica, sono stati compiuti i passi più decisi verso la democrazia; o 
        per meglio dire, verso il coinvolgimento attivo della popolazione nelle 
        attività di governo, anche attraverso libere elezioni.
 
 Il protezionismo ben radicato, l’inaffidabilità del sistema giuridico 
        che mal tutela i diritti di proprietà, il ruolo invasivo delle autorità 
        pubbliche nel mercato: questi sono i maggiori ostacoli che impediscono 
        ad Algeria, Egitto, Arabia Saudita, Iran, Libano e Libia di compiere la 
        necessaria transizione verso un modello di crescita e di sviluppo che 
        dia risultati migliori di quello attuale. Un’analisi che vale per il 
        presente, ma soprattutto per il futuro, visto che l’Index of Economic 
        Freedom ha come obiettivo proprio quello di evidenziare le potenzialità 
        economiche future: più uno Stato è economicamente libero, più è 
        destinato a crescere e a svilupparsi; più uno Stato è economicamente 
        represso, più è destinato alla stagnazione e alla crisi permanente. Ma 
        le considerazioni di Pollock richiamano l’attenzione su un altro 
        pressante problema, illustrato alla perfezione dal recente Arab Human 
        Development Report (del luglio 2002): l’inesistenza, nei maggiori paesi 
        mediorientali e nordafricani, del “buon governo”, che vuol dire 
        trasparenza, responsabilità e partecipazione. Partecipazione che è prima 
        di tutto politica: e senza la quale le libertà economiche sono 
        illusorie.
 
 6 dicembre 2002
 
 giuse.mancini@libero.it
 
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