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      Ex e post: gli abiti vecchi dell’imperatoredi Diego Gabutti
 
 Come vecchi cappotti rivoltati, come scarpe risuolate e maglioni da sci 
      ritinti, le identità politiche della nostra classe dirigente escono per lo 
      più dallo stesso armadio (salvo un’eccezione o due). E’ la “credenza piena 
      di lini e di vecchie lavande” di cui parlava Paolo Conte in una sua famosa 
      canzone. Eternamente spaventati dall’idea di rinnovare il guardaroba, 
      sempre fedeli alle buone e solide stoffe d’una volta, gli ex-questo e i 
      post-quello della nostra scena politica diffidano delle novità, che 
      talvolta chiamano sprezzantemente “mode”, dimenticando che le tradizioni 
      alle quali si richiamano (magari soltanto in negativo, per dichiararle 
      superate) gli sono già state fatali una volta. Come ex tabagisti, in 
      perpetua crisi d’astinenza, gli “ex” e i “post” non parlano che di 
      sigarette. Ne parlano male, ma non parlano d’altro.
 
 Si sono riuniti a Fiuggi per esorcizzare gli antichi fantasmi, hanno 
      ripudiato le meraviglie del socialismo reale, si sono rassegnati (o quasi) 
      al declino elettorale del papismo organizzato, hanno cambiato bar e fatto 
      buoni propositi per il nuovo anno, ma la verità è che continuano a 
      venerare gli antichi idoli. Idoli che da parte loro non la smettono mai di 
      fissare con espressione acida e stizzita, come vecchie zie nubili, gli 
      spaventosi e indecifrabili orrori della modernità: il tramonto dello Stato 
      etico, l’alba dell’ingegneria genetica, il tripudio delle tecnologie, gli 
      sfracassi dell’emigrazione, le incessanti rivoluzioni del costume, i primi 
      imperscrutabili vagiti d’un nuovo ordine mondiale.
 
 Stare al passo: è questa, in soldoni, l’arte degli “ex” e dei “post”. Ma 
      campacavallo. Gli “ex” – diventati non il contrario esatto ma il riflesso 
      speculare di ciò che sono stati – hanno barattato la vecchia identità 
      concava per un’identità “nuova” e convessa: la stessa di prima, ma 
      rovesciata. E ora non fanno che sospirare ed eccitarsi al ricordo dei loro 
      peccati di gioventù (un po’ offesi perché il resto del mondo li ha 
      dimenticati, dopo averli liquidati con uno sbadiglio). Quanto ai “post” – 
      che teneramente conservano nelle radici dei loro simboli elettorali 
      qualche polverosa pansé dei bei tempi andati – non intendono rinunciare al 
      rassicurante casual della nostalgia: temono (forse a torto e forse a 
      ragione) che il loro pubblico votante non li riconoscerebbe più se mai 
      osassero cambiare decisamente look e togliersi definitivamente dal punto.
 
 Fateci caso. Sono diventati tutti liberali, o almeno “liberal”, qualcuno è 
      diventato persino liberista, ma non c’è verso che si riconoscano l’unica 
      libertà che valga davvero qualcosa: la libertà di farla finita con il 
      passato e di mettersi finalmente comodi, in vestaglia e pantofole, 
      affrancati dal peso intollerabile (per loro, ma soprattutto per noi) degli 
      abiti vecchi dell’imperatore. Meglio in mutande, però, che vestiti da 
      clown, come attori al tramonto reclutati dalla tivù dei ragazzi.
 
 Gli abiti nuovi dell’imperatore, la fiaba di cui tutti gli “ex” e i “post” 
      temono giustamente la morale catastrofica, avevano tuttavia la virtù di 
      mettere a nudo, insieme alle vergogne dell’imperatore, anche la natura del 
      potere e le miserie della politica. Da quel giorno, dopo essere stato 
      beffato sia dal sarto imbroglione che dai suoi sudditi stanchi d’imbrogli, 
      l’imperatore non poteva più mettersi in maschera, come prima 
      dell’incidente. Non gli era più consentito indossare l’ermellino e fingere 
      che non fosse successo nulla. Erano diventati d’un tratto impresentabili e 
      grotteschi anche gli altri abiti di scena: l’evidente nudità del sovrano 
      aveva abrogato, meglio d’un referendum, il suo intero guardaroba, corona 
      compresa. Finito in farsa, anche se la fiaba non lo racconta, l’impero ne 
      uscì però infinitamente migliorato, senza più illusioni da coltivare, 
      senza più chimere.
 
 Gli “ex” e i “post” (nelle cui introspezioni e militanze invece ricicciano 
      monotone sempre le solite stracche fantasie d’interesse zero, la riforma o 
      la rivoluzione, la globalizzazione o il campanile) proprio non si 
      rassegnano a cambiare sartoria. Può darsi che non sappiano neppure a che 
      sarto votarsi. Così fingono che l’irreparabile non sia mai successo o 
      (peggio) che stia ancora succedendo. Pensano che la vista panoramica delle 
      loro chiappe nude, quando sono crollati i muri e le antiche bandiere sono 
      state tutte ammainate, non abbia compromesso per sempre quello che 
      s’ostinano a vantare come il proprio profilo migliore: l’idea fissa e 
      divorante, gli stracci vecchi della propaganda, il profondo illiberalismo 
      demodé dell’ideologia.
 
 28 febbraio 2003
 
 (da Ideazione 1-2003, gennaio-febbraio)
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