Amministrative 2003. Il ritorno del profondo Nord
di Carlo Stagnaro

Le elezioni del 25 e 26 maggio 2003 sembrano segnare il ritorno dell’“egoismo nordista”. I buoni risultati concretizzati dai candidati leghisti, quando hanno corso da soli (su tutti, i casi di Brescia e Treviso), vanno senza dubbio letti come affermazioni personali. Se il veneto Giampaolo Gobbo splendeva della luce riflessa del discusso Giancarlo Gentilini, sindaco uscente giunto al secondo mandato, il lombardo Cesare Galli è uomo d’un livello e d’una preparazione tali che ben pochi membri del Carroccio possono vantare. Anche nella cittadina ligure di Chiavari le cose non sono andate diversamente: l’ex borgomastro Vittorio Agostino, che pure ha abbandonato il movimento sbattendo la porta, ha lasciato con un palmo di naso tutti gli avversari, conquistando la prima posizione per il ballottaggio e riducendo la Casa delle Libertà – che qui correva unita – al lumicino. Si dirà: questioni amministrative prive di significato politico. Tuttavia, non è solo la componente “umana” a pesare.

Come in molte altre realtà padane, nei casi citati a far pendere l’ago della bilancia verso il partito di Umberto Bossi è stato probabilmente il ritorno d’una retorica apertamente liberale, anti-fiscale, federalista quando non secessionista, sommata a una dura critica verso quella che un tempo veniva chiamata partitocrazia. E’ stato, insomma, il trionfo dei vecchi slogan: “Padroni a casa nostra”, “Basta Roma, basta tasse”, “Nord gallina dalle uova d’oro” e via dicendo. L’elettorato settentrionale sembra strizzare l’occhiolino al tentativo del Senatùr di riposizionarsi e riconquistare quelle tematiche che, abbracciando il brodino riscaldato della devolution, aveva abbandonato. Non solo non è tramontato lo “spirito del ’92” (quello che aveva determinato la rovinosa frana dei partiti della prima repubblica), ma esso si ripresenta oggi sano e robusto, non appena gliene viene data l’occasione.

In effetti, ciò che unifica le esperienze di Brescia, Treviso, Chiavari, eccetera è l’esplicito richiamo a un forte localismo; la pretesa che le risorse restino sul territorio che le produce, che leggi e regole vengano fissate dai governi locali e non da un lontano governo centrale. Non è escluso che le polemiche su Roma capitale e sulla clausola dell’“interesse nazionale” abbiano giocato un ruolo cruciale: molti, pur diffidenti verso le capriole bossiane, hanno voluto significare che l’appartenenza alla comunità locale pesa più dell’identità nazionale e travalica ogni steccato partitico. E’ significativo, per esempio, che Cesare Galli abbia raccolto sul proprio nome oltre il doppio dei voti del suo partito, superando pure di svariati punti percentuali la somma delle liste che lo appoggiavano. Va pure notato che la sua campagna elettorale s’è giocata nel segno dell’“estremismo della libertà” – ai bresciani è stata fornita un’opzione radicale, ed essi l’hanno apprezzata.

Chi credeva ormai spenta la fiamma dell’indipendentismo, insomma, alla luce dei recenti risultati deve ricredersi. Può darsi che si sia esaurito il fuoco di paglia; certamente Bossi ha perso molta credibilità. Ma la brace continua a scaldarsi, e rischia d’esplodere davvero se non s’arriverà – in tempi rapidi – a dare una risposta concreta al lamento ch’emerge dalle terre padane. Una soluzione non può giungere dalla devolution, che si limita a ridisegnare alcune competenze amministrative ma non sfiora il cuore del problema. Ciò che il Nord chiede – e quello su cui probabilmente la Casa delle Libertà giocherà la fiducia dell’elettorato in occasione delle prossime consultazioni politiche – è una radicale riforma che assegni alle regioni e ai comuni (cioè agli enti vicini al cittadino e da lui direttamente controllabili) poteri fiscali e legislativi reali ed esclusivi. Che significa: lo Stato rinuncia a legiferare su un ampio spettro di questioni e abbandona una quota notevole delle tasse. Cioè, più precisamente, Roma mantiene la facoltà di fissare poche scelte (tipicamente relative alla politica estera, alla difesa e alla moneta) e accetta d’imporre pochi e ridotti tributi, possibilmente indiretti, volti a finanziare questo e nulla più.

Non molto tempo fa, l’ex ministro Agazio Loiero criticava l’attuale ministro Bossi per il presunto egoismo insito nelle riforme da lui avanzate. Ebbene, il Nord non si accontenta della cosiddetta devolution, e l’ha dimostrato con chiarezza. Ha ribadito che non esiste alcun diritto di calabresi e siciliani a spendere a proprio beneficio le ricchezze prodotte da lombardi e veneti ed estorte dal meccanismo parassitario dello stato nazionale. Quello che serve, retorica a parte, è un cristallino e gagliardo federalismo “non solidale”. Tutte queste cose le capiscono bene i vari leader della maggioranza e dell’opposizione. Sta ai primi decidere se rispondere a tali esigenze (ponendo fine all’assistenzialismo e rischiando lo scontento nel Mezzogiorno), oppure attendere l’ineluttabile bocciatura da parte dei ceti produttivi padani.

27 maggio 2003

cstagnaro@libero.it