Il governo “popolare”, dieci anni dopo
di Paola Liberace
Dieci anni fa, ai primi sentori della discesa in campo di Berlusconi, la società civile assisteva ai colpi di scena di Tangentopoli, alla comparsa della Lega Nord e alla riforma elettorale che introduceva il maggioritario. Eventi diversi, che insieme suscitarono nei cittadini un comune sentire: la possibilità di intervenire attivamente nella costruzione della vita politica e nel governo del paese. Una novità, almeno apparentemente, rispetto alla storia repubblicana fino a quel momento, allora identificata con il naufragante sistema partitico. Eroi del nuovo sentire sarebbero divenuti i sindaci usciti dalle urne grazie al nuovo sistema di elezione diretta; lo erano già i magistrati, che a colpi di indagini e avvisi di garanzia si facevano braccio dei desideri di cittadini risentiti.
Lo stimolo di partecipazione alla vita pubblica si tradusse in forze differenti. Alcune erano tese alla sostituzione dei tradizionali interlocutori politici ed istituzionali con “uomini del fare”, che rimuovessero le pastoie burocratiche e consociative in favore di azioni concrete per le riforme e l’innovazione. Nel codice espressivo di queste forze, era centrale l’enfasi sul “candidato” contrapposto al “partito”: una persona nota, fidata contro un coacervo irresponsabile e truffaldino. Altre forze si concentrarono su una modalità di intervento più diretta dei cittadini nella cosa pubblica, tramite meccanismi associativi dal basso, per elaborare in prima persona progetti rispondenti alle proprie reali esigenze. Il linguaggio di movimenti come la Rete di Leoluca Orlando, l’Alleanza Democratica di Ferdinando Adornato, il Patto di Mario Segni indicava chiaramente questa linea di tendenza; ne era protagonista indiscusso il “programma”, voluto e promosso da un’aggregazione di cittadini e non più da un partito fatto solo di politici di professione.
Il Cavaliere si fece portavoce della prima istanza, interpretando la partecipazione democratica come una delega – la migliore possibile – in nome dell’urgenza dell’agire. Un orientamento che deludeva i fautori del “programma dal basso”, i quali vedevano nella sua figura l’ennesimo surrogato della vera partecipazione popolare alla cosa pubblica – nonostante Forza Italia nascesse proprio come un movimento, innestato su un tessuto di partecipazione, quello dei “club”, basato su organismi nati dall’associazione spontanea. Sarebbe impreciso individuare negli antiberlusconiani della prima ora semplicemente un manipolo di ex comunisti: si trattava anche e soprattutto di soggetti fino ad allora politicamente silenti, i quali, invitati per la prima volta a dire la loro – sia pure ancora avviluppata in invettive qualunquiste e rivendicazioni giustizialiste – liberavano nuove energie politiche. AI loro occhi, Berlusconi rappresentava un residuo del sistema in declino, e la sua vittoria significava un’occasione persa per prendere finalmente la parola. Lo hanno intuito certi leader di centrosinistra, che hanno continuato a fare appello a questa componente di consenso per molto tempo; anche a costo di immergere ancora più profondamente le mani nell’improvvisazione e nel qualunquismo di certe aspettative, trasformandole in un interlocutore politico: la “ggente”, nella sua ultima evoluzione.
Chi si espresse per il Cavaliere lo considerava invece una formidabile risposta all’inerzia partitocratrica; un campione della società civile, un professionista che avrebbe lavorato per gli italiani rendendo efficace il cambiamento, e mettendo all’opera un’abilità già indiscutibilmente provata nel campo imprenditoriale. La vittoria del suo schieramento, come reale alternativa alla sinistra, sarebbe stata la migliore prova del corretto funzionamento del nuovo sistema elettorale, che prometteva una vera alternanza nata dalla preferenza dei cittadini. Durante il primo governo Berlusconi, tuttavia, questa promessa fu stroncata dall’esperienza del ribaltone, che vanificò il sistema, frustrando l’efficacia del voto popolare, e lo espose nuovamente al rischio dell’allontanamento dalla base elettorale. Il sistema degli enti locali, che non fu esposto alla stessa delegittimazione, continuò a reggere diventando un modello da additare ed una riserva affidabile di nuovi volti per la politica nazionale, in primis quelli dei sindaci; e ciò, paradossalmente, soprattutto da quella parte politica che aveva salutato il ribaltone quasi come una liberazione dalla tirannide.
A dieci anni di distanza, per ragioni diverse, la trasformazione dell’inizio degli anni Novanta, animata dalla fiducia nella possibilità di reale intervento dei cittadini nella cosa pubblica, sembra lontanissima tanto ai sostenitori quanto ai detrattori di Berlusconi. Recentemente è ricomparso qualche tentativo di recuperare quel linguaggio, facendone uno strumento di dissenso rispetto al governo, opponendo nuovamente i “noi” spossessati dal potere berlusconiano al “lui” che se ne sarebbe impadronito. Si tratta di una lettura che pare ignorare l’evoluzione occorsa: il contesto che avrebbe dovuto rendere possibile un vero ed efficace governo popolare, qualsiasi delle due interpretazioni di questo governo si scegliesse, è svanito per effetto di eventi irreversibili. Una delle sue principali componenti, il sistema elettorale che contrappone una maggioranza ed un’opposizione, è diventato quanto meno discutibile. La retorica dell’”uomo del fare”, così come quella del “governare insieme”, è ormai chiaramente individuabile come tale; manca un linguaggio nuovo, proponibile in uno scenario parlamentare e governativo di nuovo orientato al professionismo della politica. Il presidente del governo in carica non può tornare a fare appello ad una volontà personale di risoluzione delle difficoltà del paese, indipendente dalla condivisione di un alto grado di consapevolezza e padronanza degli strumenti del risanamento. Per la stessa ragione, l’opposizione non può ignorare ingenuamente la necessità di un sistema politico maturo, articolato in soggetti politici coesi e non in aggregazioni più o meno volontaristiche di cittadini uniti da rivendicazioni e risentimenti, Proprio come accade continuando a fare dei magistrati i campioni della “ggente”, invece che elaborare una proposta politica indipendente, capace di riaggregare il consenso.
12 settembre 2003
pliberace@yahoo.it
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