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        Si gioca tutto sulle riformedi Carlo Fusi
 
 Da un lato la certezza che l’autunno che si apre sarà foriero di 
        tensioni e scontri – magari potenzialmente devastanti – tra i partiti 
        della coalizione di centro-destra, impegnati su fronti tanto delicati 
        quanto essenziali: riforme costituzionali, legge Finanziaria, semestre 
        di presidenza europeo; dall’altro la determinazione con la quale Silvio 
        Berlusconi insiste nel dire che collassi della maggioranza sono 
        impossibili, che elezioni politiche anticipate appartengono al novero 
        dell’immaginazione e non della realtà politica, che le riforme si 
        faranno e anzi l’ambito temporale per la loro realizzazione va allargato 
        fino a ricomprendere la prossima legislatura: come a dire che la 
        compagine che ha vinto le elezioni nel 2001 si presenterà tale e quale 
        agli elettori nel 2006 per chiedere un nuovo mandato quinquennale. Sono 
        i due estremi entro i quali si muove la ripresa politica e la fase che 
        durerà fino a dicembre; due estremi contraddittori entro cui si 
        inseriscono anche elementi che riguardano l’opposizione alle prese con 
        un travagliato percorso di ricomposizione e riassemblaggio interno di 
        cui la proposta di lista unica alle europee del prossimo anno avanzata 
        da Romano Prodi, funge da catalizzatore, anche e soprattutto polemico, 
        tra Ds e Margherita.
 
 Vediamo. Che la maggioranza viva un momento di grande fibrillazione è 
        palese. I deludenti risultati delle amministrative hanno fatto saltare 
        il tappo di divaricazioni a lungo covate e sottaciute, e lo stato dei 
        rapporti interni è tale che ogni passaggio – riguardi temi istituzionali 
        come la giustizia o sociali come le pensioni, per arrivare fino a 
        questioni apparentemente lontanissime da ogni programma elettorale tipo 
        il decreto “anti-Tar” per frenare la crisi del calcio – produce 
        divisioni e distinguo, sempre più spesso agitati con toni ultimativi. La 
        Lega è il motore principale del sommovimento: il partito di Bossi appare 
        deciso a ritagliarsi un ruolo di differenziazione forte che ha il suo 
        epicentro nella devoluzione, architrave di qualunque intesa per il 
        prosieguo della legislatura. Alleanza nazionale, risolti alla bell’e 
        meglio i problemi di gestibilità interna con la nomina a coordinatore di 
        Ignazio La Russa, soffre il protagonismo leghista e cerca ad ogni 
        occasione di far valere una propria identità peraltro difficile da 
        individuare e percepire. I centristi dell’Udc rappresentano il terminale 
        opposto dell’insofferenza bossiana: hanno accolto con malcelata 
        diffidenza la chiusura, in verità piuttosto pasticciata, della verifica 
        rimandando la resa dei conti a gennaio, e alcuni settori del partito non 
        fanno mistero di puntare ad un Berlusconi-bis senza la Lega o comunque 
        con il Carroccio notevolmente ridimensionato. Forza Italia, infine, 
        funge da camera di compensazione delle tensioni nella coalizione, in 
        molti casi restringendo il proprio raggio d’azione all’attesa 
        dell’intervento risolutore del premier.
 
 Comunque la si rigiri, è chiaro che il potere di iniziativa è tutto e 
        solo nella mani di Berlusconi. Il quale, abituato a pensare con sospetto 
        ad ogni eventualità di delega, è nella scomoda posizione da un lato di 
        essere sempre e comunque il bersaglio delle fibrillazioni – 
        dall’atteggiamento da assumere nei confronti dell’intervento in Iraq 
        alle misure per risolvere la crisi di un consiglio comunale – e 
        dall’altro a dover spendersi in un estenuante lavoro di mediazione che 
        spesso si traduce in puro logoramento. Il punto, infatti, è proprio 
        questo. Il risultato amministrativo è stato sì penalizzante ma non tale 
        da provocare smottamenti. Tuttavia ha messo in luce il fatto che due 
        anni di governo non hanno consolidato la Casa delle libertà e anzi è 
        bastato il primo scossone negativo per dare la stura ad un vento di 
        litigiosità che via via è diventato un tornado. Molti ritengono che il 
        male oscuro che ha colpito il Polo sia nell’appannamento della capacità 
        di leadership del Cavaliere e che quindi basti un colpo d’ala di Palazzo 
        Chigi per recuperare il senso di marcia. Quegli stessi però, per un 
        verso faticano a dare conto del come e perché l’appannamento si sia 
        determinato, visto che i primi trenta mesi di governo sono stati 
        contraddistinti dall’azione diretta del capo dell’esecutivo e 
        dall’agenda che egli ha imposto; e per l’altro si dividono sulla 
        diagnosi: troppo ampio il ventaglio di promesse senza un 
        ridimensionamento imposto dal mutato scenario internazionale soprattutto 
        in campo economico? Troppo spazio dato alla Lega? Troppa attenzione ai 
        temi della giustizia a scapito di altri, diciamo così, meno “personali” 
        del Cavaliere? Oppure troppo poca collegialità, con tanti saluti proprio 
        alla conclamata carenza di leadership?
 
 Sia quel che sia, è evidente che il destino dello schieramento di 
        centro-destra è legato alla capacità di mettere in campo le riforme. 
        L’aspettativa di rinnovamento che la Casa delle libertà ha incarnato 
        agli occhi di una larga e maggioritaria fetta di elettorato è stata la 
        chiave di volta del successo elettorale, ma quello stesso successo può 
        risolversi in una disfatta se l’attesa del “cambiamento” dovesse 
        risultare effimera e rivelarsi una chimera. L’ampiezza dei numeri in 
        Parlamento scaccia ogni alibi e dunque o le riforme prendono corpo – 
        dalle più ostiche come le pensioni e il conflitto di interessi alle più 
        immaginifiche come l’ammodernamento dello Stato, le grandi opere o le 
        modifiche istituzionali – oppure la delusione si trasformerà 
        inevitabilmente in disaffezione. Con tutto quel che comporta. E’ 
        possibile che il presidente del Consiglio punti sulle incertezze del 
        centro-sinistra per continuare a veleggiare nei consensi. E’ una 
        tentazione ricorrente e in parte, almeno ai suoi occhi, anche 
        giustificata. L’Ulivo, infatti, fatica a trovare un baricentro proprio, 
        e il rapporto con Rifondazione o l’Italia dei Valori, decisivo ai fini 
        elettorali, è lungi dall’essere stabilizzato. Benché a parole tutti 
        siano per la candidatura di Romano Prodi, nei fatti il problema della 
        leadership nell’opposizione continua a fomentare difficoltà e sospetti.
 
 Insomma, non è ancora risolto, e il dibattito che si è scatenato sulla 
        proposta di lista unica alle europee, col balletto conseguente di 
        “venite con noi nel Pse; neanche a parlarne entrate voi nel Ppe”, è 
        l’evidente spia di divaricazioni tuttora presenti e di notevole 
        spessore. Senza dimenticare che anche su questioni strategiche, come la 
        politica industriale o, soprattutto, quella estera, non solo il 
        centro-sinistra nella sua completezza ma l’Ulivo stesso è diviso e assai 
        poco coeso. Tuttavia confidare eccessivamente nei tormenti 
        dell’avversario potrebbe rivelarsi un boomerang. Alla fine un qualche 
        coagulo elettorale il centro-sinistra finirà per trovarlo, è certo. Come 
        è certo che al momento del redde rationem nelle urne, il centro-destra e 
        Berlusconi verranno giudicati per ciò che hanno fatto al governo, per le 
        realizzazioni concrete, per gli obiettivi centrati, per le promesse 
        mantenute. E a quel punto gli anatemi ideologici serviranno a poco.
 
 (da Ideazione 5-2003, settembre-ottobre)
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