Non c'è solo Andreotti
di Mauro Mellini
Andreotti assolto definitivamente per l’omicidio Pecorelli. La fine di un
incubo, non solo per il senatore a vita ma, potremmo dire, per tutti noi.
Perché l’atmosfera kafkiana di certi processi, di certi metodi, il potere
di certi architetti di certe accuse e di certe macchine capaci di tradurle
in sentenze non incombono mai solo sul capo di chi al momento ne è oggetto
ed obbiettivo. All’indomani delle pronunzia della Cassazione tutti
dobbiamo porci l’interrogativo: come tutto questo è potuto succedere. Un
interrogativo che ci dovremmo porre (ed avrebbe dovuto porselo anche
Andreotti) a conclusione del processo ad Enzo Tortora ed all’indomani di
molte altre vicende in vario modo concluse, ma nelle quali il marchio di
fabbrica di un giustizialismo cinico e sprezzante di ogni regola e di ogni
limite è chiaro ed inconfondibile.
Intendiamoci bene. Oggi sono in molti a porsi questo interrogativo per
mettere avanti un alibi. Orditori di trame d’accuse, manipolatori di
pentiti, persecutori di mancati o calcitranti persecutori, compagni (e
compagne) di partito e beneficiari dell’opera di siffatti orditori, sono
disposti a discutere di “imperfezioni” del sistema, di “pericolosità” di
certi metodi, di necessità di cautela e di garanzia, proprio come se in un
caso come quelli di Andreotti, in quello di Corrado Carnevale, le garanzie
che non c’erano o che furono eluse e la cautela che non fu esercitata
avrebbero dovuto servire proprio per scongiurare gli effetti delle loro
ben architettate e ciniche manovre, delle loro calunnie di quelle dei
pentiti da loro ingaggiati ed esaltati. Ma è pure certo che a render
possibile il Calvario, pianificato da un ben individuabile pianificatore,
di Giulio Andreotti sono state leggi, prassi, metodi, andazzi, situazioni
di vera e propria succumbenza di giudici di fronte ai furori di loro
colleghi e di pennivendoli e di gentaglia da loro aizzata e manovrata.
E’ stata la retorica della dietrologia, l’esaltazione del sospetto, la
paura di andare controcorrente, il degrado intellettuale, di preparazione
e del senso dell’equilibrio di troppi magistrati, lo squallore della loro
mancanza di fede nella ragione e di rispetto per la propria autonomia
della coscienza. L’assoluzione, alla fine, è intervenuta. Ma la Cassazione
non ha cassato la brutta, terribile pagina che una vicenda durata oltre un
decennio ha rappresentato per la giustizia, l’insulto per la ragione di un
rinvio a giudizio, di una sentenza, di fronte alle quali si debbono
riabilitare quelle naziste sulla “colpa d’autore”. Può apparire odioso e
scorretto personalizzare certe sciagurate aberrazioni ed evocare
responsabilità personali e bisogna aver rispetto, se non altro, della
collegialità di certi provvedimenti. Ma ciò non impedisce affatto che sia
d’obbligo considerare che gli artifici ed i complici di certe malefatte
sono e rimangono nelle condizioni per poter continuare a battere certe
strade. Il caso Tortora insegna.
Perché se è vero che la vicenda, anzi, le vicende giudiziarie di Andreotti
non avrebbero potuto realizzarsi senza le condizioni della giustizia di
cui sopra si è detto, è pure vero che, in qualche misura, una vicenda come
quella di questo uomo politico si è sottratta, e non solo nella sua
conclusione, ad un andazzo terribile, ad un vero e proprio annientamento
in partenza dell’imputato che è proprio dei processi cosiddetti di mafia.
Andreotti ha dovuto subire l’umiliazione di essere giudicato in base alla
parola di spregevoli assassini di professione, di vivere il dramma
d’essere oggetto di accuse di pentiti ma almeno, il suo è stato un
processo in cui egli è stato il soggetto o, almeno, l’oggetto del
giudizio. C’è stato, bene o male, un processo alla persona di Andreotti.
E’ potuto andare in aula, guardare in faccia i suoi giudici ed, al
contempo, mostrarsi a loro, parlare, farsi vedere. Si è discusso, bene o
male, della sua colpevolezza o della sua innocenza, seppure in base a
dichiarazioni di pentiti, teoremi, teorie del “consenso implicito”, etc.
Ebbene, tutto ciò è un privilegio. Negli ordinari processi di mafia (ma un
po’ in tutti quando vi siano pentiti e collaboratori) l’imputato si può
dire che non esista e non solo perché è tenuto lontano dall’aula, con il
sistema della “videoconferenza”. La sua sorte non è l’oggetto centrale del
giudizio, ma una mera conseguenza di una decisione che riguarda i pentiti.
E’ il processo “pentitocentrico”. Leggete le sentenze (sempre
“monumentali”, “storiche” e, poi, “pregevoli”, “puntuali” etc. etc.) di
uno qualsiasi di questi processi sviluppatisi per le dichiarazioni di uno
o più pentiti. E’ sempre la stessa musica. Si enunciano criteri di
valutazione delle dichiarazioni dei pentiti con ricchezza di
elucubrazioni, contraddistinte dalla conclusione rigorosamente a senso
unico, e poi si passa a “l’importanza”, “l’attendibilità”, “i meriti” etc.
etc. dei pentiti protagonisti di quel processo. E’ solo di nome, l’oggetto
delle dichiarazioni del collaboratore delle elucubrazioni al riguardo di
essi di pm e di giudici. La sua colpevolezza o (eccezionalmente) la sua
assoluzione sono solo un accessorio, una “ricaduta” di ciò che si dice e
si fa dell’oggetto del processo: il pentito, i pentiti.
Per altri (ce ne accorgemmo già con il caso Tortora) questo sarà un buon
motivo per dire che, tutto sommato quello lì, sotto gli occhi di tutti, è
un caso sul quale non vale la pensa di fare troppo chiasso, perché è “un
privilegiato” etc. Noi non possiamo che ringraziare Giulio Andreotti,
anzitutto, come egli stesso dice, per essere arrivato a vedere ed a far
vedere agli altri la fine di questa vicenda e poi per aver saputo,
facendosi assolvere prima dal Papa, da uomini politici d’ogni parte, dal
presidente della Repubblica e, magari, da Fidel Castro, e poi battendosi
con sagacia e tenacia, con bravissimi avvocati, far valere malgrado tutto
la sua innocenza, sfruttando il fatto che non gli si era potuta togliere
la qualifica reale di imputato e protagonista del processo. Per far
valere, alla fine, un po’ di giustizia per sé, così da rappresentare
almeno un dato di confronto per gli altri. Grazie, dunque, senatore ed
auguri. Auguri anche di fare il poco, ma, forse, perché no, il molto che
potrà per gli anonimi, per le vittime senza volto e senza pubblicità a
vera ed efficace difesa contro i metodi e le logiche che hanno consentito
la sua persecuzione.
5 novembre 2003
da
L'opinione
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