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      Quel ’68 dei giornali sempre al potereintervista a Ruggero Guarini di Eugenia Roccella
 
 Ruggero Guarini non aveva previsto di fare il giornalista. Dopo una vita 
      passata a scrivere sui quotidiani, sostiene ancora di sentirsi un 
      letterato prestato al giornalismo, uno capitato lì per caso, anzi, per 
      disciplina di partito. Perché successe che lui, studente di Lettere 
      all’Università di Napoli, iscritto al Pci, manifestò contro la guerra 
      americana in Corea (peraltro votata dall’Onu), e fu sbattuto a Poggioreale 
      (va detto che pacifisti e “partigiani della pace” allora, non finivano in 
      televisione, più facilmente in galera). Uscì subito, ma fece in tempo ad 
      essere notato dalla dirigenza comunista, da Cacciapuoti e Amendola, e fu 
      invitato a lavorare nella redazione napoletana di Paese Sera. Guarini però 
      è uno di quegli intellettuali che Pierluigi Battista metterebbe nella 
      lista degli irregolari ad appartenenza libera e, dopo i carri armati 
      sovietici in Ungheria, le sue proteste contro le “violazioni della 
      legalità socialista” furono tali che il Pci decise di liberarsene, 
      espellendolo. Lui venne a Roma, e rimase per circa vent’anni nella 
      redazione del Messaggero, quotidiano romano di antica tradizione. Io l’ho 
      conosciuto durante la mia giovanile militanza radicale. Un giorno Marco 
      Pannella ci trascinò – eravamo sempre in numero esiguo, mai più di una 
      trentina di persone – sotto l’abitazione di un privato cittadino. Si 
      chiamava Ferdinando Perrone, ed era uno dei due cugini proprietari del 
      Messaggero; anzi lo era stato, perché proprio il giorno precedente aveva 
      ceduto la sua quota a Edilio Rusconi. La solidarietà di Pannella ai 
      giornalisti in sciopero aveva un preciso senso politico: Il Messaggero era 
      stato un fondamentale strumento della battaglia per il divorzio, che aveva 
      visto i radicali e la redazione del giornale schierati sullo stesso 
      fronte. Per un po’ la redazione del Messaggero fu un luogo familiare, 
      combattivo e vitale, poi il giornale finì nelle mani di Eugenio Cefis, e 
      gli eroici giorni di lotta si esaurirono in una sostanziale sconfitta.
 
 Intanto Guarini continuava a fare il letterato prestato al giornalismo. 
      Nei primi anni Settanta ha pubblicato con Franco Maria Ricci un romanzo, 
      Parodia; nel ’76 una raccolta di «infernali bestialità», dice lui, scritte 
      e dette dai comunisti (libro non a caso intitolato I primi della classe); 
      poi il Breve corso di morale laica, per Rizzoli; infine la fatica a cui 
      tiene di più, una splendida traduzione (la migliore, secondo Piero Citati) 
      del Cunto de li cunti di Basile, raccolta di favole barocche in lingua 
      napoletana. Dopo l’abbandono del Pci, solo due volte si è lasciato 
      coinvolgere dalla politica, anche se mai direttamente: la prima durante i 
      giorni febbrili dello sciopero del Messaggero, la seconda con gli arresti 
      di Mani Pulite, l’ondata giustizialista e la discesa in campo di 
      Berlusconi. Laico irriducibile, con un gusto particolare per il paradosso, 
      Guarini attacca le banalità del luogocomunismo di oggi con lo stesso 
      spirito con cui difende la potenza fantastica e irridente del Basile 
      contro il moralismo pedante dell’abate Galiani: «Stiamo insomma insinuando 
      che le oneste paginette del Galiani contro il Cunto, frementi di virtù 
      civile, ardore pedagogico e zelo poliziesco, non siano affatto lo sfogo di 
      uno scrittore invidioso: sono un eccellente compendio delle ragioni della 
      ragione e del buon costume, contro la scostumatezza e l’irragione 
      letteraria».
 
 Mi devi raccontare la storia della gloriosa 
      resistenza del Messaggero, di cui sei stato protagonista. Cominciamo da 
      quando sei arrivato al giornale...
 
      
      Sono entrato nel Messaggero nel ’61, dopo un’avventura a Telesera, un 
      quotidiano fondato da Ugo Zatterin, dove fui chiamato insieme a Fausto De 
      Luca, Nicola Cattedra, molti ex redattori di Paese Sera, per un progetto 
      che avrebbe dovuto fiancheggiare la nascita del primo centro-sinistra, con 
      la cooptazione dei socialisti al governo. In realtà dietro c’era Tambroni, 
      che in un primo momento sembrava orientato appunto in quella direzione. 
      Poi, però, con i fatti di Porta San Paolo le cose cambiarono; e tutto quel 
      gruppo fatto da giornalisti timbrati come progressisti, che era entrato 
      con l’idea di appoggiare la formazione del primo governo di 
      centro-sinistra, si trovò in un giornale improvvisamente convertito al 
      centro-destra. La cosa mi turbò molto, allora. Oggi penso che a 
      quell’epoca ero ancora abbastanza stupido politicamente: non avevo capito 
      che in realtà quello del ’60 fu una sorta di colpo di Stato della sinistra 
      che, manovrando la piazza, sabotò un governo legittimo. Era un governo 
      appoggiato dal Msi, ma i missini erano in Parlamento, liberamente votati 
      dagli italiani. Io, però, non ero ancora abbastanza attrezzato, non ero in 
      grado di riconoscere la pericolosità di un comportamento del genere.
 Consolati: credo che nessuno, nella sinistra di 
      allora, potesse avere questa consapevolezza…
 
      
      Ma, non so. Sono abbastanza presuntuoso da vergognarmi, oggi, di averci 
      messo tanto a capire una cosa elementare; né mi sento giustificato dal 
      fatto che moltissimi non l’abbiano ancora capita. Perché la democrazia 
      consiste esattamente in questo: se i dispositivi giuridici, parlamentari e 
      politici del tuo Paese rendono possibile la nascita di un governo che non 
      ti piace, lo devi accettare.
 Torniamo al Messaggero: quando tu sei entrato lo 
      dirigeva da vent’anni Sandro Perrone, che ne era anche l’editore.
 
      
      Sandro Perrone era un grande direttore, con un grande fiuto politico. Io 
      credo di aver avuto questa fortuna, di aver conosciuto bene, e di aver 
      avuto un ottimo rapporto con l’ultimo esemplare di una figura che già 
      allora era quasi estinta: l’editore borghese indipendente. L’ho visto più 
      volte sbattere il telefono in faccia a politici che gli rompevano le 
      scatole: non che non avesse anche lui i suoi condizionamenti, ma riusciva 
      a mantenere aperti per il giornale spazi di libertà che poi si sono 
      chiusi. Naturalmente c’erano anche i condizionamenti personali, tra cui il 
      rapporto con il cugino Ferdinando, più bigotto, meno intelligente, con cui 
      c’era qualche contrasto, qualche rivalità. 
 Ferdinando era l’altro proprietario del Messaggero.
 
      
      Sì. Inoltre, sia Ferdinando che Sandro avevano due sorelle: Il Messaggero 
      era un’azienda solida, dava da vivere a sei famiglie, e molto 
      generosamente: pare che al momento della vendita assicurasse tre o quattro 
      miliardi di utili l’anno, e parlo dei primi anni Settanta. 
 Com’è nato il tuo rapporto con Sandro Perrone?
 
      
      Sandro riuscì in pochissimo tempo a conquistarsi la mia simpatia, la mia 
      amicizia, anche il mio affetto. Quando mi assunse naturalmente parlammo un 
      po’ di me, e venne fuori il fatto che mio padre stava a New York, e io non 
      l’avevo mai conosciuto. Avevo cercato più volte di andare in America, ma 
      essendo stato iscritto al Pci, non mi avevano mai concesso il visto, anche 
      dopo che ne ero uscito, nel ’58. Poche settimane dopo il nostro colloquio, 
      Perrone mi convocò per dirmi di andare in America. Chiesi quali servizi 
      avrei dovuto fare. «Nessuno – mi disse – vada a conoscere suo padre». «Ma 
      non mi danno il visto», obiettai. «Non si preoccupi, vada». E riuscì a 
      farmi partire. Perrone aveva i suoi difetti, era nevrotico, anche insicuro 
      su alcune cose, ma era un signore, una persona perbene. Ti faccio un 
      esempio: una sera mi telefona mia cognata da un caffè di via Veneto, 
      dicendomi: vieni a bere qualcosa con noi, c’è Peppino (Patroni Griffi), 
      Dudù (Raffaele La Capria), e poi un tale che ti conosce, dice che lavora 
      con te. Era Sandro Perrone: un altro avrebbe detto «Guarini è un mio 
      redattore, lavora per me»… lui invece, con incredibile tatto, diceva 
      «lavoro con lui».
 Al Messaggero tu facevi il vaticanista, incarico 
      piuttosto insolito per uno notoriamente laico come te, soprattutto in 
      quegli anni.
 
      
      Quando sono entrato, Perrone voleva farmi fare l’inviato politico. Io 
      rifiutai perché allora, appena uscito dal Pci, e ancora solidamente di 
      sinistra, non potevo condividere pienamente la linea del giornale. Così 
      per alcuni anni mi occupai di cronaca. Poi nel ’72 il direttore mi chiamò 
      e mi disse: «Guarini, sui rapporti tra Stato e Chiesa abbiamo idee simili; 
      a me non interessano le pantofole del papa, mi interessa la battaglia per 
      il divorzio: perché non fa il vaticanista?». E così, con Pasquale Prunas 
      che la pensava come me, con altri che non la pensavano esattamente come 
      me, ma su questo erano d’accordo, cominciò l’impegno del Messaggero sul 
      divorzio, che costò a Perrone la perdita del giornale.
 Quindi fu l’adesione alla battaglia per il divorzio, 
      secondo te, che compromise il destino del Messaggero?
 
      
      Senza dubbio. Fanfani e il cardinale Benelli gliela giurarono, a Perrone, 
      dopo la sconfitta sul divorzio. Né la Dc, né, soprattutto, la Curia 
      romana, potevano più tollerare che il principale quotidiano della 
      Capitale, il terzo d’Italia, fosse su posizioni esplicitamente e 
      radicalmente laiche. Non ricordo i numeri delle vendite, ma il peso 
      politico del Messaggero era certamente superiore a quello della Stampa. Ci 
      furono momenti di scontro diretto, con il Vaticano. Per esempio, un giorno 
      sull’Osservatore Romano uscì un corsivo di attacco al giornale, con una 
      frase che ricordo testualmente a memoria, per motivi di orgoglio: «Il 
      Messaggero, quotidiano in cui da qualche tempo il redattore vaticano 
      pretende di sovrapporre ogni giorno il suo personale magistero a quello 
      del Santo Padre». Dopo il divorzio Perrone tentò di salvarsi, sforzandosi 
      di ricucire lo strappo con la Curia, e mi offrì la terza pagina; io 
      accettai, anche perché fare il vaticanista non è che fosse la mia 
      vocazione. Tra l’altro mi chiese di suggerirgli il nome del successore, e 
      ancora me ne pento, perché proposi un redattore che si rivelò poi un 
      tremendo “baciapile”, un vero catto-comunista. Però il risentimento 
      politico che Perrone aveva suscitato secondo me trovò un varco, un punto 
      debole nella famiglia.
 Quale?
 
      
      Una delle figlie di Ferdinando Perrone fu coinvolta nel caso di 
      Primavalle. Non so se ricordi, fu un caso tipico di quegli anni: qualcuno 
      versò una tanica di benzina nell’abitazione del segretario della sezione 
      dell’Msi di Primavalle, e nell’incendio morirono i figli del poveretto. 
      L’indagine portò ad alcuni militanti di Potere Operaio, tra cui appunto la 
      Perrone. Non mi sembra un delirio dietrologico supporre che su Ferdinando 
      furono fatte delle pressioni, o perlomeno che gli arrivò qualche segnale, 
      qualche suggerimento: con la cessione della sua quota del Messaggero 
      avrebbe potuto contribuire a salvare la figlia.
 Come storia familiare è interessante, ma credi 
      davvero che abbia contato nella vicenda proprietaria del giornale?
 
      
      Prima di tutto è una chiave di lettura inedita, e poi ti dà un’indicazione 
      importante sull’epoca: mi pare significativo che uno dei due proprietari 
      del Messaggero, uno degli ultimi editori borghesi, abbia mollato perché 
      inguaiato dalla figlia extraparlamentare! Sono casi che si sono ripetuti, 
      famiglie di miliardari in cui il conflitto edipico sfocia nella ribellione 
      politica, e finisce in un atto di autodistruzione, o di distruzione del 
      padre. 
 Come avete saputo che Ferdinando Perrone aveva 
      venduto, e come è stata accolta in redazione la notizia?
 
      
      Non mi sembra che ci fossero state avvisaglie; io almeno l’ho saputo 
      all’improvviso. Arrivo al giornale, un giorno di primavera del ’73, e 
      trovo la redazione in subbuglio, il direttore a pezzi, e qualcuno che mi 
      sussurra: il cugino ha venduto la sua quota a Rusconi. Sandro Perrone 
      soffriva di enfisema, ed era anche fisicamente stravolto dalla notizia, lo 
      ricordo in canottiera, con la bombola di ossigeno. A quel punto, sui cocci 
      di quel che restava del Messaggero, si buttarono gli sciacalli del 
      sindacato, con esiti funesti. D’altra parte l’ipotesi che si profilava, 
      quella di Rusconi editore e Barzini direttore, non era accettata da gran 
      parte della redazione, nonostante la figura onorevole del possibile 
      direttore. Noi sostenevamo Perrone, e inoltre di Edilio Rusconi non 
      piacevano le simpatie politiche, il suo legame con la destra cattolica e 
      democristiana. Si scatenò la battaglia politica, legale e sindacale. In 
      quelle condizioni era necessaria una mediazione, e Felice La Rocca, allora 
      legato a De Martino, svolse un ruolo in questo senso; un ruolo 
      problematico, ambivalente, che favorì il passaggio da Rusconi a 
      Montedison. Alla fine l’ipotesi Montedison fu considerata più accettabile, 
      anche se in effetti non offriva maggiori garanzie di Rusconi, e portava il 
      giornale in un’area governativa, catto-social-comunista. Forse il povero 
      Rusconi non era la soluzione peggiore. Non credo che fossero soltanto la 
      Dc e il Vaticano a volere la fine di Perrone: anche al Psi e al Pci faceva 
      comodo sostituire gli editori privati con quelli pubblici. I partiti 
      volevano il controllo dell’informazione, e ottenerlo era assai più 
      semplice se i quotidiani cadevano nelle mani di enti come Eni o 
      Montedison. Dici che con Rusconi si andava meglio, che ho sbagliato anche 
      in questo? Probabile. Magari con Barzini sarebbe nato il quotidiano 
      conservatore che pochi mesi dopo ha fatto Montanelli uscendo dal Corriere, 
      chissà... Devo ammettere che a un certo punto ho avuto qualche dubbio. Per 
      esempio quando l’amico Fabrizio Cicchitto, che veniva spesso in redazione 
      per cercare una soluzione mentre eravamo in sciopero, mi disse: «Forse 
      abbiamo trovato un direttore che può essere gradito a voi giornalisti, un 
      democratico, Italo Pietra». Io lo guardai in faccia: «Ma Pietra non ha 
      niente a che vedere con la linea del Messaggero. Italo Pietra ha mai 
      scritto una riga sul divorzio, sul rapporto tra stato e chiesa, sul 
      concordato? Una riga vagamente dissenziente nei confronti della politica 
      vaticana?». Mi rispose: «Però ha fatto il partigiano». 
 C’erano altre proposte in campo?
 
      
      Io ce l’avevo una proposta per la direzione: Vittorio Gorresio, ed ero 
      anche riuscito a convincerlo. Era stato al Messaggero, era un ottimo 
      giornalista ed era un laico, anzi aveva avuto una curiosa polemica con 
      Fanfani, proprio sui rapporti tra Stato e Chiesa. Non è che poi Il 
      Messaggero avesse queste grandiose tradizioni democratiche alle sue 
      spalle, era stato persino forcaiolo in certi momenti, per esempio aveva 
      appoggiato la condanna per plagio del povero Aldo Braibanti. Il vero 
      titolo d’onore politico del giornale era la sua fiera indipendenza dalla 
      Chiesa, e questo era significativo perché si trattava del quotidiano 
      romano per eccellenza. L’orientamento laico era l’unica linea che dovevamo 
      difendere, e Gorresio era perfetto. Però bisognava ammetterlo: non aveva 
      fatto il partigiano.
 La redazione intanto era in stato di agitazione 
      permanente, ricordo che avete fatto un lungo sciopero.
 
      
      Credo che nella storia del giornalismo italiano non esista uno sciopero 
      così lungo e così compatto. Durò più di un mese, alla fine facemmo anche 
      gli approvvigionamenti di cibo per non abbandonare la redazione, 
      preparandoci a fronteggiare una specie di serrata. È curioso che libri 
      come quello di Paolo Murialdi sottovalutino così clamorosamente la vicenda 
      del Messaggero, ostentando una indifferenza sprezzante, uno stupido 
      snobismo lombardo e torinese. I fatti vanno valutati nella loro 
      obiettività: c’è stato un altro sciopero di quella portata, o una lotta di 
      redazione così tenace?
 Alla fine, però, fu accettata l’abbinata 
      Montedison-Italo Pietra.
 
      
      Sì, dopo un mese e mezzo di sciopero, la redazione capitolò, anche per 
      l’introduzione del patto integrativo (che veniva sventolato come una 
      bandiera e che poi invece si rivelò una trappola), che comportava la 
      trasformazione delle cariche di vice-direttori in cariche elettive. La 
      Rocca appoggiò questa soluzione, sicuro di poter ottenere uno dei due 
      posti disponibili, e si alleò con Giuseppe Columba contro me e Pasquale 
      Prunas. Columba era ‘nu bravo guaglione, ma non capiva niente di politica. 
      D’altra parte probabilmente era utopistico pensare di conservare la 
      direzione di Perrone più a lungo. 
 Dunque arrivò Pietra. Cosa cambiò nella vita di 
      redazione?
 
      
      Pietra arrivò portandosi dietro tre giornalisti di sostegno: uno era una 
      brava persona, un po’ fragile umanamente e politicamente, Sergio Turone; 
      l’altro era Luigi Fossati, che almeno aveva un certo piglio direttoriale, 
      che rivelò subentrando poi a Pietra; il terzo era Vittorio Emiliani, per 
      cui non ho nessuna stima. Un presentuoso, convinto di essere portatore di 
      una visione superiore del giornalismo, e che ostentava un sovrano 
      disprezzo per Perrone. Veniva dal Giorno, e spacciava quell’esperienza 
      come esemplare: ma il Giorno è sempre stato mantenuto coi soldi pubblici, 
      aveva un deficit spaventoso, mentre Perrone col Messaggero ha sempre fatto 
      tornare i conti. Era un editore geniale. Hai presente tutte quelle pagine 
      di piccola pubblicità che aveva un tempo Il Messaggero? Era la regola 
      economica di Perrone: le pagine di pubblicità dovevano essere equivalenti 
      a quelle di giornale. 
 Quelli furono gli anni in cui all’interno dei 
      quotidiani si consolidarono nuovi equilibri tra proprietà, direzione e 
      redazione.
 
      
      Guarda, anche prima che il Corriere e Il Messaggero cambiassero proprietà, 
      e che scomparissero gli editori borghesi di quotidiani, era già cominciato 
      quel processo di sindacalizzazione dei giornalisti che ha condotto allo 
      strapotere dei comitati di redazione. Ci sono stati alcuni passaggi 
      cruciali, in questo processo, come quando Raffaele Fiengo, al Corriere, 
      riuscì a determinare la bocciatura di Alberto Ronchey. Considera che la 
      stessa direzione Pietra cadde indirettamente per causa mia, per uno 
      scontro con la redazione. Io avevo fatto un pezzo tirando fuori certi 
      scritti protofascisti di Fanfani, e il direttore lo bloccò: questo non può 
      uscire. Io chiesi l’assemblea, che naturalmente mise in minoranza Pietra. 
      La cosa si seppe, Cefis chiamò Pietra e gli chiarì che un direttore non si 
      può far mettere in minoranza dal comitato di redazione. 
 Ma la sindacalizzazione, il potere conquistato dai 
      comitati di redazione garantiva almeno una maggiore libertà dei 
      giornalisti o no?
 
      
      Non direi proprio. Io uscii stremato dalla lunga direzione di Emiliani, e 
      nel 1981 me ne andai. Ai tempi di Perrone mi ero abituato a rendere conto 
      a una sola persona, che aveva i suoi difetti, le sue aperture, le sue 
      insicurezze, ma era un rapporto chiaro, personale e diretto, in cui si 
      capiva che cosa si poteva ottenere e cosa no, quali erano i limiti 
      insuperabili e su cosa si poteva trattare. Con l’arrivo della Montedison, 
      si apre una situazione piena di ambiguità, in cui si sa che tra la 
      direzione e l’amministrazione non sempre c’è identità di vedute, che ci 
      sono cose che dispiacciono alla direzione e piacciono all’amministrazione 
      e viceversa; che dietro i capi dell’amministrazione ci sono vaghe figure a 
      metà tra il politico e il manageriale, che non si sa bene quali poteri 
      possano esercitare; tutto questo mentre il comitato di redazione, passati 
      i primi furori eroici, invece di difendere la libertà dei giornalisti 
      segue logiche sindacali e politiche sempre più misere e corporative, 
      mettendo becco dappertutto, persino nella scelta dei redattori idonei a 
      determinati servizi piuttosto che ad altri. 
 È il tipico percorso seguito da quasi tutte le 
      strutture della cosiddetta “democrazia di base”. Dopo i primi tempi di 
      assemblearismo festoso, si incartano nell’esasperazione burocratica, nel 
      corporativismo, o semplicemente si esauriscono in discussioni 
      interminabili.
 
      
      Ti dirò di più: mentre ancora si viveva il clima dell’assemblearismo 
      festoso, in realtà erano già visibili, all’interno dei comitati di 
      redazione, le lobby legate ai partiti o alle correnti dei partiti. Finì 
      che ogni leader e leaderino di partito aveva magari il suo uomo nel Cdr, 
      che si permetteva di venire a chiederti come avevi trattato nell’articolo 
      il tale e il tal’altro. 
 I comitati di redazione sono stati uno dei canali 
      attraverso cui ha agito la lottizzazione e la partitocrazia, mentre 
      all’inizio, per esempio nella vicenda del Messaggero, l’assemblea dei 
      redattori era nata come barriera difensiva contro l’invadenza della 
      politica, e si immaginava che avrebbe svolto un salutare ruolo di 
      contrappeso rispetto alla proprietà.
 
      
      È stata l’ennesima storia in cui si è visto come cominciano e come 
      finiscono le rivoluzioni. Come diceva Kafka, cominciano con la cavalleria, 
      e finiscono con la carta bollata. Io e Prunas, devo dire, non abbiamo mai 
      mitizzato il Comitato di redazione come strumento di garanzia della 
      libertà dei giornalisti. Semplicemente, in un giornale che ha vissuto a 
      lungo con una proprietà dimidiata (perché Sandro Perrone ha resistito 
      parecchio, prima di cedere) c’era assoluto bisogno dell’assemblea dei 
      redattori per rafforzare la direzione. Non se ne poteva fare a meno: noi 
      avevamo un direttore che possedeva il 50 per cento del giornale, e 
      sapevamo che sarebbe arrivato il momento in cui nel Consiglio di 
      amministrazione Perrone sarebbe stato messo in minoranza. Ma eravamo del 
      tutto consapevoli di quanto la crescita di potere del Comitato di 
      redazione costituisse di per sé una sciagura non solo per Il Messaggero ma 
      anche per tutto il giornalismo italiano. Tra il 1972 e il ’76 il panorama dei quotidiani italiani, dopo molti anni 
      di vita tranquilla, interrotta da poche novità, subisce una vera 
      rivoluzione. Si susseguono avvicendamenti proprietari, licenziamenti e 
      dimissioni; trenta giornalisti lasciano il Corriere, nell’autunno ’73 
      nasce il Giornale di Montanelli e poi, nel ’76, la Repubblica di Scalfari. 
      Al Corriere si creò una tenaglia infernale che stritolò la redazione tra 
      il Cdr e il direttore: Piero Ottone riuscì a cambiare il volto del 
      giornale avendo la maggioranza dei giornalisti contro, semplicemente 
      manovrando le collaborazioni e alleandosi al Cdr. Con la rubrica Tribuna 
      aperta, che aveva introdotto, e in particolare con la collaborazione di 
      Pasolini, ha spalancato le porte a Mani Pulite. Il tanto decantato 
      articolo sul Palazzo, quello fatto da «Io so… io so…» accreditava 
      l’ipotesi che la Repubblica italiana fosse nelle mani di criminali che 
      andavano processati anche senza prove, perché “si sapeva”. Il grande 
      giornale della borghesia italiana in quegli anni diventa il profeta di 
      Mani Pulite, facendo da apripista alla questione morale.
 
 E che ne pensi dei 15 giornalisti che nel ’75 con 
      Lino Jannuzzi escono dal-’ l’Espresso e vanno a fare Tempo illustrato?
 
      
      Eugenio Scalfari ha usato la Repubblica, con L’Espresso al seguito, per 
      svolgere un ruolo da garante, diciamo pure da macrò. L’inappuntabile macrò 
      dei comunisti presso il grande capitale finanziario e industriale 
      italiano: garantisco io che la signorina lavorerà per noi. Su questo, 
      mettendoci anche le difficoltà di rapporto personale tra Scalfari e 
      Jannuzzi, si creò nell’Espresso il conflitto tra l’area vicina ai 
      comunisti e quella laica, liberal-socialista. D’altra parte Scalfari è un 
      genio. Sciascia lo chiamava Bel Ami, ma secondo me sbagliava, o almeno era 
      una definizione riduttiva: c’è stato un altro giornale come la Repubblica, 
      che è riuscito a crescere in pochi anni allo stesso modo?
 Sicuramente Scalfari ha inventato un prodotto 
      editoriale innovativo, questo glielo riconoscono tutti.
 
      
      Ha costretto anche gli altri a seguire il suo stile, il suo esempio: la 
      messa in scena del grande circo Barnum della politica. Oggi i quotidiani 
      dedicano a un congresso di partito pagine e pagine, con i pettegolezzi, le 
      chiacchiere da spogliatoio, i personaggi di contorno… tutto questo la 
      Repubblica l’ha fatto per prima: la passerella della politica spettacolo, 
      con Scalfari a dirigere con la frusta in mano. 
 Come vedi il giornalismo italiano di oggi?
 
      
      Il tratto fondamentale del nostro giornalismo si può definire facilmente: 
      è il ’68 al potere. È straordinario che anche il centro-destra si sia 
      fatto convincere che è giusto così, fino a nominare Lucia Annunziata 
      presidente della Rai. Io ho stima dell’Annunziata, ma trovo incredibile 
      che i vincitori delle elezioni si siano identificati a tal punto con 
      l’aggressore, che gli ripete: guarda, tu non hai gente all’altezza, tra le 
      tue fila. Tutti quelli che contano nel giornalismo vengono dal ’68. Che 
      poi non è nemmeno una generazione: si tratta della crema, quelli che non 
      hanno studiato, non hanno lavorato, non hanno fatto niente. L’hanno 
      chiamato impegno.
 Forse è la crema, come dici tu, una vecchia élite 
      studentesca, però ha condizionato un’intera generazione, creando un clima 
      culturale duraturo.
 
      
      Sì, certo, erano, e sono ancora, in perfetta sintonia con lo spirito dei 
      tempi. Personalmente, però, ritengo che la dignità individuale non 
      consista in quello che ci accomuna allo spirito dei tempi, piuttosto in 
      quello che ce ne differenzia.
 5 novembre 2003
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