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      Quel che resta del fascismodi Alessandro Campi
 
 La definizione di Fini del fascismo come il male assoluto non è un 
		giudizio storico. Si tratta piuttosto di un giudizio di natura 
		squisitamente etico-politica, emesso tenendo conto delle contingenze e 
		delle necessità che caratterizzano il dibattito politico. Entrando nel 
		merito delle affermazioni del leader di An, poi, l’espressione “male 
		assoluto” - che sembra esser stata riferita non al fascismo in generale, 
		bensì a quel particolare aspetto della storia del fascismo rappresentato 
		dalle leggi razziali, dalle persecuzioni antiebraiche e dall’Olocausto - 
		è per definizione una categoria teologica, che non può essere usata con 
		riferimento alla storia. Nella storia umana esiste certamente il male, 
		frutto tuttavia non del caso o del destino, ma della liberà volontà e 
		delle scelte, più o meno consapevoli, che gli uomini realizzano. Ma il 
		male, proprio perché prodotto delle contingenze storiche nelle quali gli 
		uomini agiscono, è sempre relativo: unico in senso storico, ma non 
		assoluto in senso metafisico.
 
 La lettura anti-ideologica degli italiani
 
 C’è chi ha avanzato un distinguo all’interno della Casa delle Libertà, 
		ma non si tratta di stabilire una graduatoria dell’antifascismo 
		all’interno del Polo. Si tratta di capire perché sul fascismo e su 
		Mussolini siano possibili, ancora oggi, giudizi “benevoli” come quelli 
		espressi affrettatamente da Berlusconi nella sua celebre intervista 
		estiva al settimanale inglese “The Spectator”. Nell’opinione pubblica 
		moderata di questo paese, di cui Berlusconi è sicuramente un’espressione 
		da manuale, ha sempre serpeggiato un’immagine del Ventennio, e di 
		Mussolini in particolare, distante anni luce da quella ufficiale della 
		cultura antifascista, fortemente negativa e di assoluta condanna. 
		Un’immagine minimizzante e banalizzante, che non può tuttavia essere 
		liquidata come politicamente nostalgica. Si tratta piuttosto di una 
		lettura anti-ideologica e memorialistica, che riflette bene l’esperienza 
		reale che la maggioranza degli italiani ha avuto del fascismo, quella di 
		una dittatura poliziesca, ma non quella di un totalitarismo sterminatore 
		quali sono stati storicamente il nazismo ed il comunismo sovietico. A 
		questa immagine del fascismo che molti italiani ancora conservano gli 
		storici di mestiere forse dovrebbero riservare una maggiore attenzione, 
		invece di considerarla il segno della loro immaturità politica.
 
 Del resto, presa in senso assoluto, quella di nazi-fascismo è già di per 
		sé una categoria politica altamente discutibile, attraverso la quale si 
		tende ad appiattire l’esperienza del fascismo su quella del 
		nazionalsocialismo tedesco. Il fatto che i due regimi, ad un certo punto 
		della loro storia, abbiano stretto un’alleanza politico-militare ed 
		ideologica dalla quale è poi scaturito il secondo conflitto mondiale, 
		non significa che fascismo e nazismo possano essere considerati un’unica 
		cosa. Dal punto di vista storico, le differenze sono state enormi. Basta 
		ricordarne una, che riguarda l’aspetto ideologico e che investe la 
		discussioni di questi giorni: culturalmente il nazismo nasce 
		intrinsecamente razzista ed antisemita, il fascismo invece affonda le 
		sue radici nel sindacalismo rivoluzionario, nel sovversivismo 
		socialista, nel combattentismo e nel nazionalismo. L’elenco delle 
		differenze sarebbe lunghissimo.
 
 Rsi, una storia tutta da scrivere
 
 Quanto alla Repubblica sociale, poi, la storiografia sulla Rsi è, 
		paradossalmente, ancora agli inizi, nonostante negli ultimi dieci anni 
		siano stati scritti molti saggi importanti e sia apparsa, anche presso 
		editori importanti, una vasta letteratura memorialistica. A lungo, con 
		l’eccezione dei reduci, della Rsi si è sempre parlato in termini 
		estremamente negativi, la si è descritta come popolata da avventurieri e 
		torturatori, come una specie di buco nero della storia patria. Oggi 
		sappiamo che la scelta di aderire alla Rsi è stata il frutto di ragioni 
		e motivazioni molto diverse, non tutte deprecabili: il senso dell’onore, 
		il rispetto della parola data, il senso della nazione, l’amor di patria, 
		la fedeltà alle istituzioni dello Stato. Quest’ultimo aspetto, spesso 
		trascurato, è a mio giudizio di grande importanza. Piaccia o meno, la 
		continuità dello Stato italiano e delle sue strutture (amministrative, 
		burocratiche, economiche-industriali) è stata garantita proprio 
		dall’esistenza della Rsi e dal fatto che ad essa abbiano aderito – 
		magari senza alcuno slancio ideologico verso il fascismo – non solo 
		giovani combattenti, ma anche decine di migliaia di “servitori dello 
		Stato”: carabinieri, magistrati, impiegati pubblici, dirigenti 
		d’azienda, tecnici di varia natura. Politicamente, condizionata in ogni 
		suo atto dall’occupazione militare tedesca, l’esperienza della 
		Repubblica sociale italiana non è stata quella di uno Stato fantoccio, 
		sul tipo di quelli messi in piedi dai nazisti nei territorio europei da 
		essi invasi durante il conflitto, grazie alla sua dimensione 
		istituzionale spesso trascurata, ma assai significativa.
 
 Una nuova pagina della cultura politica
 
 Tornando alla politica di oggi, il senso dell’intera operazione Fini 
		sembra essere stato piuttosto quello di rimuovere per sempre il fascismo 
		dall’orizzonte della lotta politica italiana, per consegnarlo al libero 
		giudizio degli storici e alla complessità della storia, italiana ed 
		europea, del Novecento, all’interno della quale, come tutti sanno, il 
		fascismo non può essere considerato come una parentesi criminale. Dopo 
		il viaggio in Israele, l’espressione “post-fascismo” può finalmente 
		assumere un significato pieno e reale: è finito l’eterno dopoguerra 
		italiano. Nel nostro paese non c’è più alcun soggetto politico rilevante 
		contro il quale possa essere scagliata, come si è fatto per più di 
		cinquant’anni in modo polemico e pretestuoso, l’accusa rituale di 
		fascismo. Si apre una pagina nuova per la cultura politica del nostro 
		paese, nella quale il racconto del passato non dovrà più costituire un 
		pretesto polemico di scontro politico. Fini ha in mente traguardi 
		politicamente ambiziosi. E non si tratta solo della successione a 
		Berlusconi, ma piuttosto della creazione di un soggetto politico – 
		diciamo un partito nazional-liberale o nazional-conservatore – che possa 
		proporsi nel dibattito politico con una identità ed un profilo non più 
		condizionati dai fantasmi del passato. Il discorso non riguarda solo 
		l’Italia, ma l’Europa nel suo complesso. A questo punto, Fini può ben 
		aspirare a proporsi come uno dei rappresentanti più significativi del 
		conservatorismo europeo. Che ci riesca, naturalmente, è un altro 
		discorso.
 
 5 dicembre 2003
 
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