| Una nuova democrazia per il mondo arabo di Susanna Creperio Verratti
 
 Con la “Conferenza intergovernativa regionale su democrazia, diritti 
		umani e ruolo della Corte penale internazionale”, svoltasi a Sana’a, 
		capitale dello Yemen, dal 10 al 12 gennaio, si è aperto uno spiraglio 
		per la democratizzazione pacifica interna del mondo arabo. Dopo la 
		guerra era necessario cominciare a costruire la pace per sanare la 
		ferita provocata all’orgoglio del mondo arabo dall’intervento 
		anglo-americano in Afganistan e Iraq. “La gratitudine per il sostegno 
		dell’occidente non deve trasformarsi, ha dichiarato il primo ministro 
		giordano Signora Asma Kader, in servaggio”. Il mondo arabo teme una 
		seconda colonizzazione all’insegna della democrazia e non intende 
		costruire una nuova politica su valori di importazione. Eppure, ha ben 
		scandito il presidente della repubblica yemenita, Alì Abdullah Sale, “se 
		la democrazia è difficile da costruire, ancora peggio è la mancanza di 
		democrazia”. Forse assisteremo ad aperture di altri governanti che, come 
		lo yemenita, si stanno rendendo conto che, tra i due mali, è meglio 
		scegliere il minore pur di non per perdere il potere. Alla presenza di 
		25 paesi arabi, 37 ministri, più di cento parlamentari e 850 delegati 
		provenienti dalla società civile araba, la Conferenza svoltasi a Sana’a, 
		è stata voluta e organizzata dal governo yemenita su iniziativa di Emma 
		Bonino e della sua organizzazione “No Peace without Justice”, con 
		finanziamento della Commissione europea e grazie al sostegno del Canada 
		e di alcuni Stati europei, tra i quali l’Italia.
 
 Il risultato è andato oltre le aspettative. Scopo primario era arrivare 
		all’approvazione della Dichiarazione di San’a come documento di 
		pressione da sottoporre al Parlamento yemenita a favore dell’ingresso 
		dello Yemen nella Corte penale internazionale. Alla Corte sino ad ora 
		hanno aderito 92 paesi, ma solo Giordania e Gibuti tra gli arabi. Per 
		due giorni interi i rappresentanti di tutto il mondo arabo e del nord 
		Africa si sono confrontati dialogando sui temi della democrazia e delle 
		libertà fondamentali sulla base dei principii espressi nella 
		Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite. E la 
		società civile araba ha avuto la grande opportunità di confrontarsi con 
		i governi per esprimere istanze represse o inespresse. La pressione sui 
		governi e sui media sarà il compito prossimo della associazioni civili; 
		maggiore rispetto per la persona e la sua integrità fisica, questo il 
		messaggio lanciato da uomini e donne di governo insieme agli imam; una 
		più profonda e libera lettura del Corano per coniugarlo con le esigenze 
		del mondo attuale, questa la direzione che i molti intellettuali 
		musulmani presenti intendono perseguire.
 
 Il giovane Stato yemenita ha tratto grande vantaggio da questa 
		Conferenza dimostrandosi al mondo aperto ai valori democratici ed al 
		rispetto per i diritti umani universalmente riconosciuti. Il suo 
		presidente, ex despota rapidamente convertitosi alla democrazia, Ali’ 
		Abdullah Saleh, ha saputo cogliere l’opportunità che Emma Bonino gli 
		aveva presentato, consacrando ufficialmente il suo paese alla 
		democrazia, primo esempio per gli altri stati arabi del Golfo. In Yemen 
		il 60% delle donne ha il volto coperto, il resto porta il velo e 
		soltanto 11 donne si vestono all’occidentale. Più del 40% della 
		popolazione e’ analfabeta, per lo più al femminile, l’economia è povera 
		e la gente vive mediamente con meno di due dollari al giorno. Riunitosi 
		dopo una sanguinosa Guerra civile solo pochi anni fa, il paese si è 
		aperto a libere elezioni garantendo il pluralismo dei partiti soltanto 
		tre anni fa; il suo ministro per i diritti umani è donna e le 
		organizzazioni femminili si stanno distinguendo come le più combattive 
		per la conquista dei diritti di tutti e per il rispetto dell’integrità 
		fisica della persona. Vera protagonista della Conferenza è stata la 
		società civile araba rappresentata da moltissime donne. Per la prima 
		volta nella storia di questa regione, la società è emersa come soggetto 
		politico e non solo sociale. L’arretratezza della società araba in cui 
		l’assenza di un ceto borghese non favorisce il diffondersi delle 
		libertà, è di grande ostacolo all’effettivo mutamento politico e al 
		diffondersi dei valori democratici.
 
 Iraq, Iran, Afganistan, Algeria, Sudan, Palestina, emirati con in testa 
		il Kuwait, per citarne alcuni, hanno espresso mediante i rispettivi 
		ministri della giustizia la loro posizione rispetto al processo di 
		democratizzazione sostenendo di auspicarlo come proveniente 
		dall’interno, non per imposizione esterna, nel rispetto con la 
		tradizione islamica. Hanno parlato imam e donne velate, in nome di Dio e 
		del Profeta, insistendo sui valori dell’islam e della sua possibile 
		conciliazione con la democrazia per un islamismo moderato e liberale. 
		Durante lo svolgimento della Conferenza, marginale è apparso il 
		conflitto arabo-israeliano e certamente non di ostacolo al dialogo. 
		Israele non era presente in quanto non invitata e la rappresentanza 
		palestinese non si è pronunciata pur essendo sempre presente. La 
		Dichiarazione di San’a condanna l’occupazione dei territori come 
		contraria al diritto internazionale e ai diritti umani di base. Ma con i 
		fatti e le proposte concrete questa Conferenza ha dimostrato che il 
		conflitto arabo-palestinese non è il principale ostacolo allo sviluppo 
		del mondo arabo né al diffondersi dei principi di libertà e di 
		democrazia.
 
 La trasformazione dei regimi arabi, soprattutto dell’area del Golfo, in 
		sistemi democratici rispettosi dell’islam non sarà un’operazione rapida 
		e indolore. La loro arretratezza sociale ed economica – si vive con meno 
		di due dollari al giorno e l’analfabetismo colpisce metà della 
		popolazione – è un grande ostacolo allo sviluppo. Eppure la relazione 
		del ministro della Giustizia keniota, Signora Violet Khadi Mavisi, 
		conferma con dati concreti che lo sviluppo sostenibile per i paesi 
		poveri non può che andare nella direzione della difesa concreta dei 
		diritti delle donne e dei bambini. Lottando per il rispetto 
		dell’integrità del corpo della donna e imponendo l’educazione elementare 
		gratuita per tutti i bambini, il Kenia sta vincendo la sua scommessa con 
		la povertà. Difendere i diritti della donna e del bambino non è 
		combattere per un diritto in più ma per i diritti umani di tutto il 
		paese. In questo senso la battaglia delle donne arabe che già sono ben 
		organizzate in associazioni per la difesa dei diritti, spesso sostenute 
		dalle Nazioni Unite, è strategicamente fondamentale per la diffusione 
		delle idee di democrazia e libertà. Le donne arabe vivono sulla loro 
		pelle l’umiliazione delle mutilazioni e della condizione di schiave, 
		recluse in casa. La libertà è ancora una conquista e l’uguaglianza un 
		ideale. Sono ben consapevoli che il vero rispetto per l’integrità della 
		persona umana e i suoi valori può nascere soltanto attraverso 
		l’educazione e la elaborazione di un islamismo moderato.
 
 Gli intellettuali presenti hanno più volte ribadito la necessità di 
		creare uno spazio pubblico che permetta la libera interpretazione della 
		Shari’a in modo tale che, nel gioco delle libere interpretazioni, 
		ciascuna persona possa scegliere liberamente quale sura del Corano 
		seguire, mentre lo Stato persegue il rispetto dei diritti e costruisce 
		le istituzioni per la democrazia. La Dichiarazione universale dei 
		diritti umani delle nazioni Unite, stipulata nel 1948, sembra finalmente 
		penetrare con i suoi articoli, anche in questa regione del mondo. Lo 
		Statuto di Roma del 2002 contiene tali principii ed ad essi si ispira la 
		ratifica dell’appartenenza alla Corte penale internazionale. La 
		Dichiarazione di Sana’a si ispira a questi principii. Votata 
		all’unanimità da tutti i paesi arabi presenti, come documento di 
		pressione per il parlamento yemenita, costituisce il primo documento sul 
		quale lavorare per la pace e la democrazia in questa area tormentata. 
		“In nome di Dio misericordioso, non vogliamo una democrazia importata ma 
		lavoriamo per un sistema democratico coerente con la Shari’a, ha tuonato 
		ripetutamente l’imam del Sudan, Mohammed Zaki Shams Aldeen. E’ 
		l’iniziale risposta del mondo arabo islamico e in particolare dei Paesi 
		dell’area del Golfo a un processo di democratizzazione che ora, dopo la 
		caduta del regime talebano in Afganistan e la cattura di Saddam Hussein, 
		sembra inevitabile.
 
 16 gennaio 2004
 
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