| Medio Oriente. Anno nuovo, diplomazia nuova? di Stefano Magni
 
 Anno nuovo, diplomazia nuova? Sì, stando al parere di quasi tutti i 
		media. Almeno nel Medio Oriente. La cattura di Saddam pare proprio che 
		abbia spinto i più oltranzisti regimi anti-israeliani e anti-occidentali 
		a venire a patti. La Libia ha annunciato di voler rinunciare al suo 
		programma per le armi di distruzione di massa. Si è parlato molto di 
		colloqui segreti di pace isrealo-libici, anche se la loro esistenza è 
		stata fermamente negata dalla Libia stessa. Si è assistito ad un 
		riavvicinamento fra Siria e Turchia, cosa che pareva impossibile, dopo 
		che il membro più orientale della Nato era giunto ai ferri corti con il 
		regime di Damasco nel 1998. Si è perfino parlato di una ripresa delle 
		trattative fra Israele e Siria, ancora, tecnicamente, in stato di guerra 
		l’uno contro l’altro. Anche il riavvicinamento fra Iran ed Egitto, i cui 
		rapporti erano interrotti già dal 1979 (quando l’Egitto aveva ospitato 
		l’esule Scià di Persia), sembra contribuire a questo nuovo idillio 
		internazionale di inizio anno.
 
 Sono meno le fonti di informazione che fanno notare e soppesano il 
		rovescio della medaglia, la fragilità di questo atteggiamento “positivo” 
		delle dittature mediorientali. La Libia non aveva ancora fatto in tempo 
		a sviluppare un serio programma nucleare e non vi ha mai rinunciato. A 
		contribuire decisamente al cambio di rotta di Gheddafi, a quanto pare, è 
		stata la scoperta, anche da parte dei servizi segreti italiani, di 
		alcune centrifughe per l’arricchimento dell’uranio (utili per fare una 
		bomba atomica), in arrivo via-mare. Inchiodato sulle sue responsabilità, 
		Gheddafi avrebbe dovuto far buon viso a cattivo gioco e accettare di 
		mostrarsi più propenso alla trattativa. Quanto possa durare questa sua 
		nuova politica e soprattutto quanto ne sia lui stesso convinto, è ancora 
		tutto da vedere. E da dubitare. Finché dovrà avere a che fare con degli 
		interlocutori “duri” è possibile che continui, ma non si sa mai quanto 
		la coalizione contro il terrorismo possa mantenere questa linea.
 
 Il riavvicinamento fra Siria e Israele, con la mediazione della Turchia, 
		può essere benissimo una “manovra dei media” come è stata seccamente 
		definita da Damasco. Il dittatore siriano Bashar Assad, infatti, non ha 
		mai accettato l’invito del presidente israeliano Katzav a recarsi a 
		Gerusalemme per riaprire i colloqui di pace e per porre fine a uno stato 
		di guerra che dura dal 2000. Quanto al disgelo fra Egitto e Iran, si 
		tratta veramente di un passo avanti verso la pace e la stabilità nella 
		regione? O si tratta di qualcos’altro? Il passo compiuto dall’Iran per 
		conquistare la fiducia dell’Egitto è stato il cambiamento del nome di 
		una strada: prima era dedicata a Khalid Eslamboli, l’assassino di Sadat, 
		adesso è dedicata all’Intifadah. Dedicare una strada alla guerriglia 
		anti-israeliana è un gesto di pace? Sembra di no, a giudicare dalle 
		parole dello stesso vice-presidente iraniano Abtahi: “In queste 
		circostanze, il ripristino di relazioni diplomatiche con l’Egitto può 
		essere di grande aiuto per stabilire una buona relazione con la Nazione 
		Palestinese (…) Quando due grandi paesi come l’Iran e l’Egitto 
		cooperano, possono risolvere i problemi del mondo islamico molto meglio 
		e appoggiare meglio la Palestina”. Non si tratta solo di parole. Stando 
		a un reportage della televisione israeliana, è ripreso il flusso di armi 
		dall’Iran agli Hezbollah in Libano, via Siria. Con la copertura degli 
		aiuti umanitari per il terremoto di Bam, i cargo decollerebbero dalla 
		Siria carichi di materiale civile e medico per ritornare carichi di armi 
		destinate alla guerriglia. Era un ponte aereo che si era interrotto nel 
		febbraio 2003, alla vigilia della guerra in Iraq e non è affatto un buon 
		segno che sia ricominciato.
 
 Il tutto si inserisce in un periodo in cui l’ayatollah Khamenei e 
		l’oligarchia più rivoluzionaria (Guardie Rivoluzionarie, Consiglio dei 
		Guardiani Rivoluzionari) paiono proprio all’offensiva su tutta la linea. 
		L’ultimo atto, visibilissimo a tutto il mondo, è stata la bocciatura dei 
		candidati giudicati più “pericolosi” per le prossime elezioni di 
		febbraio. Con una scusa o con un’altra (si va dall’accusa di essere 
		drogati a quella di non essere cittadini iraniani, passando per quella 
		dell’appartenenza a gruppi sovversivi), un quarto dei candidati 
		riformisti non potrà presentarsi alle prossime elezioni. Una proporzione 
		che diventa il 50 per cento nelle liste elettorali della capitale 
		Teheran. Nemmeno il terremoto e l’ondata di solidarietà erano serviti ad 
		ammorbidire i toni dell’élite islamica iraniana. Anzi… “Gli aiuti sono 
		pochi e politicamente interessati” aveva dichiarato lo stesso Khamenei 
		in un suo discorso a Qom, per poi lanciarsi in una serie di invettive 
		anti-americane: gli Stati Uniti “hanno difeso continuamente il 
		regime usurpatore di occupazione sionista, hanno portato la repressione 
		in Afghanistan e in Iraq e hanno intenzioni malvagie nei confronti 
		dell’intero sistema islamico, nei confronti del credo del nostro popolo 
		e dei nostri stessi valori”. Alla mano tesa di Powell, che il 30 
		dicembre parlava di una speranza di distensione con Teheran, Khamenei 
		rispose direttamente: “L’America deve cambiare le sue parole e il suo 
		atteggiamento nei confronti dell’Iran”. E a rispondere a quei politici 
		riformatori, come lo speaker del parlamento Reza Khatami, che di fronte 
		all’arrivo dei primi aiuti statunitensi commentavano “alla loro buona 
		volontà deve seguire la nostra buona volontà”, ci ha pensato il 
		portavoce della Guardia Rivoluzionaria: “Quelli che si sono eccitati di 
		fronte alle condoglianze e agli ipocriti aiuti degli americani, sono 
		nient’altro che dei nani politici”.
 
 16 gennaio 2004
 
 gisotti@iol.it
 
 
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