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        Nuove tattiche per nuove guerredi Jean-Jacques Langendorf
 
 A partire da Clausewitz sappiamo che "la guerra è un camaleonte". Quindi 
        un fenomeno multiforme, cangiante, fluttuante, che si adatta a tutte le 
        evoluzioni della storia, ai mutamenti della società, alle grandi 
        trasformazioni economiche, sociali o anche - in determinate circostanze 
        - culturali. Perciò, da alcuni decenni il concetto di "rivoluzione 
        militare" - o più esattamente "negli affari militari" - è di moda, e ci 
        mostra che se la guerra si adatta all'evoluzione storica, succede anche 
        che accada il contrario. Non è vero che, secondo le tesi anglosassoni 
        formulate negli anni Sessanta, è un nuovo tipo di esercito che ha 
        modificato, a partire dalla fine del XVI secolo, le strutture dello 
        stato? La potenza di fuoco, per essere efficace, costringe alla 
        moltiplicazione degli uomini, dunque dell'esercito, dunque 
        dell'equipaggiamento militare. Per sostenere questo sforzo 
        socio-industriale, lo stato è costretto a rafforzarsi, ad irrobustire le 
        sue strutture, a migliorare la sua disciplina e, pertanto, la sua 
        autorità, forgiando un nuovo corpo potestativo che d'ora in poi sarà 
        quello dell'assolutismo. Si tratta in questo caso, più che di un 
        riferimento al passato, di un modo nuovo di comprendere nella sua 
        prospettiva storica il "fenomeno guerra" con i suoi correlati militari. 
        Allorquando si devono prevedere gli scenari di un avvenire più o meno 
        vicino, e intuire quale nuova colorazione assumerà la pelle del 
        camaleonte, la diagnosi certamente si fa meno chiara. Lo storico, "un 
        profeta rivolto verso il passato", secondo la definizione di Friedrich 
        Schlegel, si trasforma allora in un mago proteso verso l'avvenire. Cioè 
        a dire un mago che si fa carico di tutti i rischi e tutte le incertezze 
        dell'arte divinatoria.
 
 Oggi, i tarocchi di cui dispone l'indovino militare sono davvero 
        difficili da decifrare, essendo stati cambiati i simboli di cui sono 
        portatori, oltre al valore dei segni. Quanto alle figure che li ornano, 
        sono evanescenti e non cessano di modificarsi. Fino al 1990 lo scenario 
        era fisso, come la regola di un gioco: due superpotenze si 
        fronteggiavano ma non si affrontavano direttamente, condannate alla 
        saggezza in nome dell'equilibrio nucleare. Ma, indirettamente, lo 
        scontro era ancora possibile per clientele interposte, fossero gli arabi 
        e gli israeliani, gli abitanti dell'Angola, dell'Eritrea o dell'Etiopia, 
        o guerriglieri e terroristi di ogni stampo. Una regola tuttavia ha 
        sempre dominato: se uno dei due grandi si impegnava al fianco di un 
        alleato - per "liberarlo" o "proteggerlo" - l'altro non interveniva 
        direttamente, poiché si doveva ad ogni costo evitare lo scontro diretto. 
        Ma questo non significava certo astenersi dal sostenere, spesso in modo 
        vigoroso, gli avversari del proprio avversario, basti pensare ad esempio 
        al sostegno americano agli afgani contro i sovietici. Durante il mezzo 
        secolo di Guerra Fredda, i diretti interessati hanno sempre saputo fino 
        a che punto potevano spingersi. Questo punto massimo qualche volta è 
        stato raggiunto (Cuba), ma nessuno si è mai spinto oltre.
 
 Beninteso, i responsabili hanno avuto il tempo, in un periodo così 
        lungo, di sperimentare diverse dottrine di strategia globale: per gli 
        anglosassoni la dottrina Duffes del "cordone sanitario" attorno a paesi 
        "infettati" dal comunismo che, nel tempo, si trasformerà nella dottrina 
        del "contenimento"; per i sovietici le dottrine di destabilizzazione 
        applicate all'elemento più debole dell'ingranaggio, in Africa come in 
        America Latina o in Asia. Nel "faccia a faccia" europeo delle 
        superpotenze, con i loro alleati della Nato e del Patto di Varsavia, 
        l'immaginazione non è stata di grande aiuto per quel che riguarda le 
        tattiche applicate alle grandi operazioni. Per i sovietici, che potevano 
        contare su di una schiacciante superiorità di carri e di artiglieria, si 
        trattava di lanciare un pesante attacco tra il Baltico e la Baviera per 
        raggiungere il più rapidamente possibile i porti del Mare del Nord, 
        della Manica e dell'Atlantico. Agli americani e i loro alleati, 
        coscienti della loro inferiorità materiale, ma che contavano su un certo 
        mantenimento dell'equilibrio in virtù della qualità degli armamenti a 
        disposizione, conveniva rallentare il più possibile questa avanzata per 
        poter - nella misura in cui lo permettesse una nuova battaglia 
        dell'Atlantico - far sbarcare rinforzi in massa sul continente europeo e 
        lanciare un contrattacco. A partire dagli anni Ottanta, la messa a punto 
        di missili da crociera destinati a penetrare in profondità il territorio 
        nemico, ha messo in pericolo le retrovie dei sovietici e dei loro 
        alleati e la loro logistica, e ha rallentato così questa possibile 
        avanzata. La possibilità di una tale operazione rappresentava in primo 
        luogo, sia per la Nato che per il Patto di Varsavia, un problema 
        centrale, poiché è da essa, dal suo ampliamento, che sarebbe dipeso in 
        definitiva l'impiego dell'armamento nucleare. Effettivamente, se 
        l'avanzata dei "rossi" fosse avvenuta troppo "velocemente", non potendo 
        più essere contenuta, si sarebbe allora reso necessario l'utilizzo delle 
        armi nucleari tattiche, con tutte le temibili conseguenze del caso. Al 
        contrario, se l'attaccante avesse incontrato una resistenza troppo 
        forte, che avesse minacciato di compromettere il raggiungimento dei suoi 
        obiettivi, avrebbe considerato (gli strateghi sovietici le ritenevano 
        armi come tutte le altre) l'impiego di razzi con testate nucleari, con 
        una possibile deriva verso la catastrofe finale.
 
 In questa fase si situa una evoluzione del pensiero tattico degli 
        americani. Un'evoluzione che non è ingenerata dalla situazione militare 
        in Europa ma dalle sconfitte subite in Vietnam, dove l'esercito 
        americano si era rivelato incapace di escogitare una risposta tattica 
        adeguata al nuovo tipo di guerra che si era trovata di fronte. Alcuni 
        spiriti ingegnosi, che provenivano dalle alte sfere dell'esercito (DuPuy, 
        Starry), comprendendo che oramai conveniva superare questo tipo di 
        guerra, hanno cominciato a puntare su ciò che gli offrivano le nuove 
        tecnologie: gli elicotteri da trasporto e, soprattutto, da 
        combattimento, le armi di precisione guidate, una artiglieria 
        convenzionale o missilistica che disponeva di nuovi proiettili capaci di 
        effetti devastanti, i sistemi di rilevamento di elementi nemici sul 
        territorio, il cui esatto posizionamento si otteneva grazie ai 
        satelliti. Combinando le nozioni di Air Mobility e Air Power, gli 
        americani inventarono una dottrina che prende il nome di AirLand Battle. 
        Con una potenza di fuoco decuplicata, una accresciuta mobilità, si 
        trattava di attaccare l'avversario in profondità, sulla terra, in aria e 
        dopo, eventualmente, per mare, senza temere di far ricorso alla manovra, 
        senza più rinchiudersi sulla passività della difensiva, ma cercando di 
        sopraffare il nemico in un contrattacco immediato. Dobbiamo comunque 
        constatare che AirLand Battle non è mai stata messa in opera. In Europa, 
        per le ragioni storiche che conosciamo, nel Golfo, durante la guerra dal 
        medesimo nome, in ragione della passività degli iracheni, che permise 
        agli americani di avanzare non nella simultaneità ma per tranches, 
        essendo stato l'attacco terrestre preceduto, e preparato, nelle 
        settimane precedenti, dai bombardamenti aerei.
 
 In definitiva, le guerre scoppiate tra il 1950 e il 1985 sono state 
        guerre convenzionali (Corea, guerra arabo-israeliana, guerra 
        indo-pachistana, guerra sino-vietnamita, guerra delle Malvine eccetera) 
        o, se non lo sono state poiché hanno preso la forma di "guerre popolari 
        di liberazione", si sono ricollegate alla forma classica della 
        guerriglia, la cui forma compiuta si ritrova già nella lotta degli 
        spagnoli contro Napoleone. La nuova situazione creata dalla scomparsa 
        dell'Unione Sovietica e del Patto di Varsavia, ha mutato lo scenario 
        militare, corroborando la convinzione degli strateghi americani di 
        essere i rappresentanti della sola potenza militare credibile ed 
        efficace su tutta la superficie del globo. E' dal profondo di questa 
        convinzione rassicurante (per loro) che vengono alla luce nuove 
        concezioni tattiche - e più precisamente postmoderne, perché sono 
        liberate dalla zavorra delle vecchie rappresentazioni, e non si teme più 
        di praticare la confusione dei generi. Come si diceva prima, dopo la 
        prospettiva del confronto classico dell'high-intensity conflict, è ora 
        il concetto di low-intensity conflict a prevalere. Questo genere di 
        confronto non è più appannaggio di eserciti appartenenti a stati-nazione 
        ma, di solito, si compone di nebulose mal definite e, pertanto, 
        difficilmente identificabili. Queste guerre fluide, caotiche e 
        indefinite sono in procinto di divenire una caratteristica ben diffusa 
        in tutto il pianeta. Può trattarsi di guerre tribali o etniche (Africa, 
        Birmania, Afghanistan) o a connotazione religiosa (Sudan), di vere Jihad 
        come in Kashmir o in Tadjikistan, o di guerre "economiche" scatenate da 
        bande criminali - ma con un eccellente armamento a disposizione - per il 
        controllo della droga (Colombia) o dei diamanti (Sierra Leone), 
        permettendo la vendita di questi "prodotti" il foraggiamento e la 
        perpetuazione della guerra che, in questa prospettiva, diviene sempre di 
        meno una guerra tra stati e sempre di più una questione interna agli 
        stati. A questo proposito il teorico militare israeliano Martin van 
        Crefeld scrive: "O gli stati moderni verranno a capo del conflitto di 
        bassa intensità, o spariranno". Ovviamente il terrorismo, nei suoi 
        molteplici aspetti, occupa una posizione privilegiata nei conflitti a 
        bassa intensità. A tale proposito, bisogna rilevare, che poiché si 
        tratta di un argomento di attualità, che l'attentato dell'11 settembre 
        2001 a New York non segna assolutamente il passaggio ad un altro tipo di 
        terrorismo, ma semplicemente una diversa gradazione quantitativa, in 
        quanto la linea di condotta terroristica che parte dalla distruzione del 
        King David Hotel di Gerusalemme nel giugno 1946 da parte di terroristi 
        sionisti (200 morti civili e militari), e arriva alla polverizzazione 
        delle Twin Towers di Manhattan, è continua e ascendente. Lo scivolamento 
        verso generi di guerre vischiose, come le chiamo, non suggella tuttavia 
        la fine della guerra classica che, paradossalmente, sembra sempre di più 
        essere appannaggio degli attori di conflitti definiti di seconda zona (o 
        della periferia) che, anche se non possiedono i mezzi economici, non 
        esitano a praticare questo tipo di guerra. Non è passato molto tempo da 
        quando indiani e pachistani si sono affrontati sui contrafforti dell'Himalaya 
        in operazioni classiche allorché, praticamente nello stesso momento, dei 
        pimpanti ufficiali degli stati maggiori - i più anziani formati nell'Urss, 
        i più giovani in Gran Bretagna - dirigevano degli attacchi carristici su 
        larga scala, appoggiati dall'aviazione, sui confini dell'Eritrea e 
        dell'Etiopia.
 
 In questo universo di sconvolgimento e di conflitti, i responsabili 
        militari degli Stati Uniti pensano il mondo come un universo caotico sul 
        quale essi devono in ogni caso - e precisamente perché si ritengono 
        "padroni di questo mondo" - conservare il controllo. Per prevenire il 
        conflitto, stroncandolo sul nascere, o per sedarlo con il minimo sforzo, 
        si ritiene conveniente dedicarsi alla "guerra della conoscenza" - come 
        ormai viene chiamata - che sostituisce la guerra di manovra classica e 
        che è largamente basata sull'insieme di possibilità offerte 
        dall'elettronica. Al giorno d'oggi prevalgono quattro tipi di tattiche: 
        1) superiorità assoluta nel controllo dell'informazione; 2) soppressione 
        della antica differenziazione fra truppe di terra, di mare e dell'aria, 
        in quanto la loro fusione permette di creare delle nuove sinergie (è da 
        notare che fino ad ora solo il corpo degli U.S. Marines ha operato una 
        tale fusione); 3) combattimento senza impegno "fisico", il che significa 
        combattimento a distanza reso possibile dai mezzi di osservazione in 
        tempo reale senza che il nemico, che si situa ad un livello inferiore, 
        sia in grado di attendere fisicamente o materialmente il nemico che si 
        trova al suo stesso livello nell'era della conoscenza; 4) il superamento 
        delle industrie militari di stato, un tempo all'avanguardia della 
        tecnologia, grazie, tra le altre cose, alle superiori performance 
        informatiche del settore privato. Conviene dunque ai militari ispirarsi 
        ai metodi di questo settore e, soprattutto, non sviluppare più un 
        sistema di armamenti che l'industria privata gli può fornire a prezzi 
        migliori. E', se si vuole, il passaggio dal cucito a mano al prêt à 
        porter. In questa prospettiva, i sistemi di armamento dell'era 
        industriale, che precede l'era della conoscenza, sono condannati 
        all'estinzione - carri d'assalto, artiglieria convenzionale, 
        bombardieri, navi pesanti - e verranno sostituiti da sistemi leggeri 
        estremamente mobili. "Si farà bene - scrive nel 1993 l'ammiraglio 
        americano Jeremiah, in un articolo spesso citato - ad orientarsi verso 
        dei camion e delle piattaforme galleggianti create dalla tecnologia 
        civile, estremamente economici e in grado di portare le nuove armi di 
        precisione a lunga gittata, i sistemi di comunicazione o i dispositivi 
        di gestione dei sensori moderni".
 
 A una nuova tecnologia corrisponde un nuovo tipo di soldato, che lo 
        specialista in armamenti Pierre Fischler ci descrive così: "Egli sarà in 
        grado di effettuare missioni in tutti i tipi di ambiente, grazie ad un 
        equipaggiamento a tenuta stagna, proteggente e climatizzato, che inoltre 
        gli fornirà costantemente un check-up medico di massima. […] La visione 
        notturna verrà assicurata da un infrarosso passivo, quando un sistema di 
        determinazione della posizione proietterà su una carta il luogo in cui 
        si trova, materializzandolo elettronicamente sulla visiera di protezione 
        del suo casco. L'identificazione amico/nemico sarà integrata con la sua 
        arma da pugno. Questo super-soldato non potrà che essere ben addestrato 
        poiché le sue possibilità di sopravvivenza, per la sua formazione e la 
        sua dotazione, saranno elevate". Per conservare la struttura la più 
        agile possibile, l'articolazione di base dell'esercito poggerà sulla 
        brigata, che può andare da 1000 a 3000 uomini (è questo tipo di unità 
        americana che attualmente opera in Afghanistan). Sarà equipaggiata con 
        veicoli blindati leggeri armati di missili anticarro Tow (o loro 
        equivalenti), di fuoristrada Hmmwv, di mortati che possono "esplorare" i 
        recessi del terreno o di un insieme di ruderi (il 70 per cento delle 
        perdite umane della seconda guerra mondiale è stata causata dal fuoco di 
        queste armi), del veicolo di lancio Mlrs che spara simultaneamente 
        dodici missili al minuto ad una distanza di 35 chilometri e che viaggia 
        sul terreno ad una velocità di 70 Km/h, di elicotteri da combattimento 
        capaci di nascondersi nelle più piccole pieghe del terreno e la cui 
        potenza di fuoco, grazie alle loro mitragliatrici, si rivela devastante, 
        e che sono allo stesso modo eccellenti lanciatori di mine, di aerei a 
        decollo verticale Harrier per distruggere i concentramenti di truppe 
        nelle retrovie nemiche, di elicotteri da trasporti e di aeromobili senza 
        pilota che assicurano la sorveglianza permanente sul territorio. Questo 
        genere di brigata che si sposta rapidamente sarà in grado di agire 
        immediatamente se viene accerchiata, se è attaccata da elementi 
        aerotrasportati, o - letteralmente - di nascondersi in un agglomerato 
        urbano, che trasformerà in una vera e propria fortezza. Ma conviene non 
        farsi molte illusioni: allo stato attuale delle cose solo gli Stati 
        Uniti sono, al mondo, gli unici in grado di mettere in piedi brigate di 
        questo tipo e di trasportarle su qualsiasi punto del globo, per 
        affrontare una qualunque guerra "vischiosa". Notiamo semplicemente che 
        una tale asimmetria nell'impiego della forza, il cui uso efficace è 
        appannaggio di un solo paese, costituisce ugualmente uno dei fattori 
        inquietanti della postmodernità tattica.
 
 29 marzo 2002
 
 (da Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio. Traduzione dal francese di 
        Angelo Mellone)
 
 
 
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