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        Diamo una possibilità alla guerradi Edward N. Luttwak
 
 La spiacevole verità di cui spesso sembriamo dimentichi è che la guerra, 
        nonostante costituisca un male enorme per l'umanità, racchiude in sé 
        anche una grande virtù: è in grado di risolvere i conflitti politici e 
        di portare la pace. Questo può accadere quando tutte le parti in causa 
        raggiungono lo sfinimento oppure quando una di esse ottiene una vittoria 
        decisiva, ma, sia in un caso che nell'altro, il segreto consiste nel 
        permettere agli scontri di continuare finché non viene raggiunta 
        un'intesa. La guerra porta la pace soltanto dopo aver superato l'apice 
        della violenza: ogni speranza di vittoria deve scomparire prima che un 
        accordo arrivi a rappresentare un'alternativa più attraente rispetto al 
        proseguimento delle ostilità. Tuttavia, da quando sono state istituite 
        le Nazioni Unite e le grandi potenze sono entrate a far parte del suo 
        Consiglio di Sicurezza, raramente è stato permesso a guerre tra potenze 
        minori di seguire il proprio corso naturale: in generale sono state 
        interrotte piuttosto rapidamente, prima che potessero esaurirsi 
        spontaneamente e creare i presupposti per una pace duratura. Sotto 
        l'egida del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, sono spesso stati imposti 
        armistizi e tregue con l'intento di bloccare i combattimenti: 
        l'intervento della Nato in Kosovo si inserisce in questa logica.
 
 I cessate il fuoco tendono tuttavia ad impedire alla guerra di portare a 
        termine la propria opera di sfinimento dei belligeranti, permettendo 
        loro, invece, di ricostituire e riarmare le proprie truppe e causando in 
        tal modo il riaprirsi e l'intensificarsi delle ostilità al termine della 
        tregua, che in generale vede sempre una fine. E' successo nella guerra 
        arabo-israeliana del 1948-49, che si sarebbe conclusa nell'arco di 
        qualche settimana se due cessate il fuoco, imposti dal Consiglio di 
        Sicurezza, non avessero permesso ai combattenti di recuperare. Ed è 
        successo, più recentemente, anche nei Balcani: le tregue imposte dall'Onu 
        hanno interrotto continuamente i conflitti tra serbi e croati in Krajina, 
        gli scontri tra le forze rimaste all'ex federazione jugoslava e le 
        truppe croate, le lotte tra serbi, croati e musulmani in Bosnia. Ogni 
        volta, le fazioni sfruttavano la sospensione delle ostilità per 
        reclutare, addestrare ed equipaggiare nuove forze destinate al 
        combattimento, prolungando in tal modo la guerra ed ampliando il proprio 
        potenziale di morte e distruzione. A meno che non fossero seguiti da 
        negoziazioni per il raggiungimento di un accordo di pace, tutti gli 
        armistizi imposti dall'Onu hanno avuto l'effetto di congelare 
        artificialmente il conflitto e di perpetuare lo stato di guerra, in 
        quanto proteggevano la fazione più debole dalle conseguenze cui sarebbe 
        andata incontro rifiutandosi di trattare per ottenere la pace.
 
 Dopo la Guerra Fredda, un comportamento del genere è stato una scelta 
        obbligata per le due superpotenze mondiali, che a volte si sono 
        ritrovate a collaborare per costringere potenze minori a seguire 
        determinate linee di condotta, in modo da non essere coinvolte nelle 
        loro guerre e doversi scontrare direttamente l'una contro l'altra. 
        Nonostante l'imposizione di tregue abbia aumentato la durata complessiva 
        dei conflitti tra potenze minori e gli armistizi abbiano perpetuato lo 
        stato di guerra, da un punto di vista globale entrambi i risultati sono 
        comunque mali minori se paragonati al pericolo di una guerra nucleare. 
        Ma oggi americani e russi non sono disposti ad intervenire nei conflitti 
        tra potenze minori schierandosi gli uni contro gli altri. Di 
        conseguenza, gli spiacevoli effetti dovuti alle continue interruzioni di 
        tali conflitti si protraggono impedendo il raggiungimento di accordi di 
        pace, senza che per ciò sia scongiurato il pericolo maggiore.
 
 I problemi delle forze di pace
 
 Oggi accordi multilaterali impongono tregue ed armistizi alle potenze 
        minori non tanto per evitare uno scontro diretto tra le due 
        superpotenze, quanto per motivazioni non dettate dall'interesse e 
        piuttosto frivole, quali la repulsione del pubblico televisivo per 
        strazianti scene di guerra. Ma, con un meccanismo perverso, questo può 
        sistematicamente impedire la trasformazione della guerra in pace. Gli 
        accordi di Dayton ne sono un esempio: hanno condannato la Bosnia a 
        rimanere divisa, in quanto le tre fazioni armate presenti sul suo 
        territorio hanno momentaneamente sospeso le ostilità, ma continuano, e 
        continueranno a tempo indeterminato, ad odiarsi reciprocamente. Poiché 
        nessuna di esse rischia di essere sconfitta o di subire perdite, nessuna 
        sente la necessità di negoziare un accordo duraturo. E dato che 
        all'orizzonte non si prospetta alcuna possibilità di pace, la loro 
        priorità assoluta consiste nel prepararsi a continuare la guerra e non 
        nel ricostruire un'economia devastata e una società distrutta. Una 
        guerra ininterrotta avrebbe certamente causato maggiori sofferenze e 
        l'esito delle ostilità sarebbe stato considerato ingiusto da una fazione 
        o dall'altra, ma si sarebbe creata una situazione più stabile che 
        avrebbe permesso l'inizio di un vero dopoguerra. La pace attecchisce 
        soltanto quando la guerra è davvero finita.
 
 Oggi esistono numerose organizzazioni multilaterali che si ritengono in 
        dovere di intervenire nelle guerre altrui. La caratteristica principale 
        di questi enti è che, pur volendosi inserire nei conflitti, si rifiutano 
        di ingaggiare battaglia, il che, a lungo andare, peggiora soltanto la 
        situazione. In realtà, se le Nazioni Unite aiutassero i più forti a 
        sconfiggere i più deboli in modo più veloce e decisivo, non farebbero 
        altro che aumentare il potenziale pacificatore della guerra. Priorità 
        assoluta dell'Onu, tuttavia, è di evitare perdite. Di conseguenza, i 
        comandanti delle varie unità cercano in generale di tenersi buona la 
        fazione più forte della zona, accettandone le imposizioni e tollerandone 
        gli abusi. Questo comportamento non è di nessuna utilità strategica, 
        come potrebbe esserlo invece schierarsi dalla parte del più forte in 
        assoluto: riflette soltanto la volontà dei contingenti Onu di evitare 
        scontri armati ed impedisce una risoluzione congruente del conflitto, 
        che richiederebbe uno squilibrio di forze sufficiente a porre 
        definitivamente fine alle ostilità. Forze di pace così restie all'uso 
        della violenza sono anche incapaci di fornire una protezione efficace ai 
        civili casualmente coinvolti negli scontri o vittime di attacchi 
        deliberati. Nel migliore dei casi, le truppe dell'Onu hanno assistito 
        passivamente ad attentati e massacri, come è accaduto in Bosnia e in 
        Ruanda; nel peggiore, vi hanno preso parte, come ha fatto il contingente 
        olandese di stanza a Srebenica, che, durante la presa della città, ha 
        aiutato i serbi bosniaci a separare gli uomini abili al servizio 
        militare dal resto della popolazione.
 
 La sola presenza delle forze Onu inibisce la normale reazione dei civili 
        che si trovano in pericolo, e cioè la fuga dai luoghi degli scontri, in 
        quanto dà loro un falso senso di sicurezza che li induce a rimanere 
        nelle zone di lotta fino all'ultimo, quando ormai è troppo tardi per 
        scappare. Tra il 1992 ed il 1994, durante l'assedio di Sarajevo, la 
        politica dei contingenti Onu di soddisfare le richieste della fazione 
        più forte nella zona ha interagito in modo estremamente perverso con il 
        loro intento di proteggere i civili: per evitare la fuga degli abitanti, 
        il personale delle Nazioni Unite ispezionava tutti i voli in partenza 
        dalla città conformemente all'accordo per il cessate il fuoco stipulato 
        con i serbi bosniaci, fazione dominante a Sarajevo, che invece lo hanno 
        raramente rispettato. Di fronte all'infuriare della guerra, la reazione 
        più logica ed intelligente per i musulmani sarebbe stata quella di 
        fuggire dalla città o di scacciare i serbi. Pur mancando persino del 
        personale e della rudimentale struttura di comando dell'Onu, istituzioni 
        come l'Unione Europea, l'Unione dell'Europa occidentale (Ueo) e 
        l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) 
        cercano comunque di inserirsi nei conflitti, con conseguenze 
        prevedibili. Prive di forze anche teoricamente capaci di combattere, 
        soddisfano le richieste di intervento degli Stati membri (o le proprie 
        ambizioni istituzionali) inviando nei paesi in guerra osservatori 
        disarmati o quasi, che si trovano ad affrontare esattamente le stesse 
        difficoltà incontrate dalle forze di pace dell'Onu, con la differenza 
        che queste ultime, almeno, sono meglio equipaggiate.
 
 Organizzazioni militari come la Nato o la Forza d'interposizione dei 
        paesi dell'Africa occidentale (Ecomog, all'opera in Sierra Leone) sono 
        in condizione di fermare gli scontri, nonostante anche i loro interventi 
        abbiano per effetto il perpetuarsi dello stato di guerra. Per lo meno 
        sono in grado di proteggere i civili, sebbene a volte falliscano perché 
        i contingenti militari multinazionali impegnati in interventi 
        disinteressati tendono ad evitare qualsiasi rischio derivante dal 
        combattimento diretto, limitando in tal modo la propria efficacia. Le 
        truppe americane in Bosnia, ad esempio, hanno ripetutamente ignorato il 
        passaggio di noti criminali di guerra ai loro posti di blocco pur di non 
        provocare scontri a fuoco. Inoltre, i comandanti dei contingenti 
        multinazionali non sono in grado di controllare la qualità e la condotta 
        delle unità inviate dai singoli Stati membri, elementi che potrebbero 
        compromettere il lavoro di tutte le forze coinvolte riducendone 
        l'efficacia al minimo. Il fenomeno dell'abbrutimento delle truppe non è 
        facilmente rilevabile dall'esterno, sebbene abbia delle conseguenze 
        lampanti, se si considera la scia delle vittime di massacri, 
        mutilazioni, stupri e torture che si lasciano alle spalle alcuni 
        interventi multinazionali. Rare eccezioni confermano la regola, come 
        quella dell'energico battaglione di carri danese che, in Bosnia, 
        rispondeva ad ogni attacco con la massima potenza di fuoco, bloccando 
        immediatamente gli avversari.
 
 Sono finite le guerre eroiche
 
 Gli interventi disinteressati appena illustrati, con tutte le loro 
        rovinose limitazioni, vengono tuttavia eclissati dalle operazioni che la 
        Nato sta attualmente svolgendo contro la Serbia a protezione del Kosovo. 
        L'Alleanza Atlantica ha deciso di sfruttare soltanto il proprio 
        potenziale aereo, allo scopo di minimizzare i rischi di perdite umane, 
        colpendo obiettivi in Serbia, Montenegro e Kosovo per intere settimane 
        senza neanche una vittima tra i suoi piloti. Questa immunità nei 
        confronti della contraerea jugoslava sembra avere del miracoloso, ma è 
        stata ottenuta grazie a moltissime precauzioni. In primo luogo, 
        nonostante le notizie e le immagini diffuse dai mass media facessero 
        pensare ad un'operazione massiccia, nelle prime settimane sono state 
        effettuate pochissime sortite d'attacco, il che ha ridotto non soltanto 
        i rischi per piloti e velivoli, ma anche la capacità distruttiva dei 
        bombardamenti, che hanno dimostrato solo una piccola frazione del 
        potenziale militare della Nato. In secondo luogo, gli attacchi iniziali 
        miravano esclusivamente a distruggere i sistemi contraerei nemici, in 
        modo da ridurre al minimo le perdite presenti e future, anche a costo di 
        limitare i danni inflitti alla parte avversa e di perdere l'effetto 
        sorpresa. In terzo luogo, la Nato ha ordinato ai propri piloti di 
        sganciare le bombe non da un'altezza ottimale, ma da una quota di almeno 
        15.000 piedi, dove sarebbero stati al sicuro da quasi tutto il fuoco 
        nemico. In quarto luogo, la Nato sosteneva che la nuvolosità compatta 
        ostacolava la campagna di bombardamento e ha quindi evitato di operare 
        in condizioni meteorologiche che non fossero più che perfette, 
        trasformando spesso le operazioni notturne in sporadici attacchi contro 
        bersagli fissi di cui era nota la posizione; in realtà, le nuvole non 
        impedivano i bombardamenti (dato che gli attacchi a bassa quota non 
        hanno bisogno del cielo sereno), ma soltanto quelli da alta quota, nei 
        quali i velivoli operano al sicuro dalla contraerea nemica.
 
 A terra, centinaia e centinaia di metri al di sotto degli aerei della 
        Nato, piccoli gruppi di soldati e poliziotti serbi a bordo di blindati 
        terrorizzavano centinaia di migliaia di kosovari albanesi. La Nato 
        possiede un vasto assortimento di velivoli progettati per individuare e 
        distruggere veicoli di questo tipo. Tutte le maggiori potenze 
        appartenenti all'Alleanza Atlantica dispongono di elicotteri anticarro, 
        alcuni dei quali in grado di operare con ridotto sostegno logistico. Ma 
        nessuna di queste nazioni si è offerta di inviare i propri mezzi in 
        Kosovo quando è iniziata la pulizia etnica: dopotutto, avrebbero potuto 
        essere abbattuti. Quando poi l'ordine di partenza per l'Albania è 
        arrivato agli elicotteri americani Apache di base in Germania, 
        nonostante le notevoli spese sostenute negli anni per mantenerli sempre 
        pronti all'azione, ci sono volute tre settimane abbondanti per 
        predisporli al rischieramento. Sei settimane dopo l'inizio della guerra, 
        gli Apache dovevano ancora affrontare la loro prima missione, sebbene 
        due di essi si fossero già schiantati durante i voli di addestramento. 
        Responsabile di questo lungo ritardo non è stata soltanto la burocrazia, 
        con la sua celeberrima lentezza: l'esercito americano continuava ad 
        affermare che gli Apache non potevano operare da soli e che, per 
        arrivare a distruggere l'artiglieria contraerea serba, avevano bisogno 
        di essere protetti da un pesante fuoco di sbarramento, il che ha 
        richiesto un'organizzazione logistica molto più ampia di quella già 
        predisposta, causando un ulteriore, gradito, ritardo.
 
 Ancora prima che iniziasse la lunga trafila per il rischieramento degli 
        Apache, la Nato disponeva già, nelle sue basi italiane, di altri 
        velivoli in grado di svolgere il medesimo compito: gli A-10 americani, i 
        "Warthog", con i loro potenti cannoni anticarro da 30 millimetri, e gli 
        Harriers della Raf, ideali per bombardamenti a bassa quota da distanza 
        ravvicinata. Nessuno di questi velivoli è stato impiegato, ancora una 
        volta perché non potevano operare in completa sicurezza. Evidentemente, 
        nei calcoli eseguiti dalle democrazie della Nato la possibilità 
        immediata di salvare dal massacro o dalla deportazione centinaia di 
        migliaia di albanesi non valeva la vita di una manciata di piloti. Una 
        decisione del genere può riflettere un'inevitabile realtà politica, ma 
        dimostra anche che persino interventi disinteressati su vasta scala 
        possono non essere in grado di raggiungere il proprio scopo 
        apparentemente umanitario. Varrebbe la pena chiedersi se la sorte dei 
        kosovari sarebbe stata migliore se la Nato si fosse astenuta 
        dall'intervenire.
 
 Nazioni di profughi
 
 Il più disinteressato, ed il più distruttivo, degli interventi nelle 
        guerre è quello delle organizzazioni a scopo umanitario, la più grande 
        ed attiva delle quali è l'Agenzia delle Nazioni Unite per l'assistenza 
        ed il lavoro ai rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa). Il suo 
        predecessore diretto, l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e la 
        ricostruzione (Unrra), aveva in gestione i campi profughi in Europa 
        subito dopo la seconda guerra mondiale. L'Unrwa venne istituita 
        immediatamente dopo la fine della guerra arabo-israeliana del 1948-49, 
        allo scopo di fornire vitto, alloggio, istruzione ed assistenza medica 
        ai rifugiati arabi fuggiti dalle zone in mano agli israeliani negli ex 
        territori palestinesi. Avendo fornito ai profughi condizioni spartane, 
        che li incoraggiavano ad emigrare al più presto o ad integrarsi con la 
        popolazione locale, i campi gestiti dall'Unrra in Europa erano serviti a 
        placare i rancori postbellici e a disperdere i gruppi di revanscisti. Ma 
        nei campi dell'Unrwa in Libano, in Siria, in Giordania, in Cisgiordania 
        e nella striscia di Gaza, il tenore di vita era generalmente superiore a 
        quello a cui era abituata la maggior parte degli abitanti dei villaggi 
        arabi: una dieta più varia, delle scuole, un'assistenza medica migliore, 
        tutto senza doversi spezzare la schiena lavorando una terra sassosa. 
        Questi campi hanno quindi sortito l'effetto opposto a quello desiderato, 
        diventando residenze ambite invece di alloggi temporanei da abbandonare 
        al più presto. Incoraggiata da numerosi paesi arabi, l'Unrwa ha 
        trasformato i civili in fuga in profughi a vita, che hanno messo al 
        mondo altri profughi, che a loro volta hanno dato alla luce altri 
        profughi ancora.
 
 Nei suoi cinquant'anni di vita, l'Unrwa ha quindi perpetuato un'intera 
        nazione di rifugiati palestinesi, mantenendo vivo il loro rancore nei 
        confronti degli israeliani e serbando intatti i loro sentimenti 
        revanscistici. Con la sua sola presenza, intralcia il processo di 
        integrazione con la popolazione locale ed ostacola l'emigrazione. 
        Inoltre, la concentrazione di palestinesi nei campi facilita il 
        reclutamento, volontario od imposto, di giovani rifugiati da parte di 
        organizzazioni armate che combattono sia contro Israele che l'una contro 
        l'altra. L'Unrwa ha contribuito a cinquant'anni di violenze 
        arabo-israeliane e continua ancora oggi ad ostacolare il processo di 
        pace.
 Se dopo ogni guerra europea fosse stata creata un'organizzazione come l'Unrwa, 
        oggi il vecchio continente pullulerebbe di enormi campi profughi abitati 
        da milioni di discendenti di gallo-romani senza patria, vandali 
        abbandonati, burgundi sconfitti e visigoti senza terra, per non parlare 
        di nazioni di rifugiati molto più recenti, come quella dei tedeschi 
        provenienti dai Sudeti (la Cecoslovacchia ne espulse tre milioni nel 
        1945). Un'Europa simile sarebbe rimasta un mosaico di tribù in lotta, 
        incapaci, ognuna in fondo al proprio campo, di digerire i propri rancori 
        e di riconciliarsi con le altre. Aiutare profughi e rifugiati dopo ogni 
        conflitto sarebbe servito a placare le coscienze, ma avrebbe creato una 
        situazione di instabilità permanente e causato un continuo susseguirsi 
        di violenze.
 
 Organizzazioni equivalenti all'Unrwa esistono in tutto il mondo. Un 
        esempio ne sono i campi profughi cambogiani al confine con la Thailandia, 
        che, detto per inciso, hanno anche costituito un rifugio sicuro per i 
        Khmer Rossi, autori di terribili massacri. Tuttavia, proprio perché 
        l'attività delle Nazioni Unite è limitata dagli scarsi contributi degli 
        Stati membri, l'opera di sabotaggio della pace portata avanti da questi 
        campi rimane limitata all'area in cui si trovano. Quest'ultima 
        considerazione non è valida per la proliferante massa di organizzazioni 
        non governative (Ong), sempre febbrilmente in competizione tra loro, che 
        ora corrono in aiuto dei profughi di guerra. Come tutte le altre 
        istituzioni, anche le Ong mirano a mantenersi in vita, il che significa 
        che la loro priorità assoluta consiste nell'attrarre contributi 
        caritativi grazie alle opere che svolgono in situazioni ben documentate 
        dai media e portate all'attenzione del grande pubblico. Per quanto 
        riguarda i disastri naturali, soltanto quelli più spettacolari stimolano 
        davvero l'interesse dei mass media, e comunque soltanto per poco tempo: 
        dopo un terremoto o un'alluvione, le telecamere spariscono in fretta. I 
        profughi di guerra, invece, sono in grado di occupare le prime pagine 
        dei giornali piuttosto a lungo, se vengono opportunamente concentrati in 
        campi ragionevolmente accessibili. Dato che le guerre vere tra paesi 
        ricchi sono molto rare e non offrono molte opportunità, le Ong 
        preferiscono concentrare i loro sforzi nelle regioni povere. Così accade 
        che, pur essendo totalmente insufficienti per gli standard europei, il 
        cibo, gli alloggi e l'assistenza medica offerti ai profughi superino di 
        gran lunga ciò di cui dispongono, nella stessa regione del mondo, coloro 
        che vivono al di fuori dei campi. Le conseguenze sono prevedibili. Tra i 
        molti esempi che potremmo fare, spiccano gli enormi campi profughi 
        situati tra Congo e Ruanda: sono le Ong a mantenere in vita la nazione 
        hutu, che altrimenti sarebbe stata dispersa; così facendo, però, rendono 
        impossibile il consolidamento del Ruanda ed offrono ai rifugiati più 
        radicali una base da cui organizzare incursioni al di là del confine a 
        caccia di tutsi da massacrare. A causa degli interventi umanitari, la 
        probabilità di giungere ad una soluzione stabile e duratura del 
        conflitto ruandese è fortemente diminuita.
 
 Tenere compatte ed in vita intere nazioni di profughi e mantenere 
        intatti i loro sentimenti di odio è già abbastanza dannoso, ma fornire 
        aiuti materiali ai partiti in guerra è ancora peggio. Molte Ong che 
        operano in odore di santità supportano regolarmente i combattenti. 
        Essendo prive di qualsiasi difesa, non possono escludere i guerrieri 
        armati dalle loro mense, dalle loro cliniche e dai loro ricoveri. Dato 
        che, presumibilmente, i profughi appartengono alla parte che sta 
        perdendo la guerra, i combattenti che si trovano tra di loro in genere 
        stanno battendo in ritirata. Fornendo loro aiuto, le Ong impediscono 
        sistematicamente ai loro nemici di ottenere la vittoria decisiva che 
        porrebbe fine al conflitto. A volte, per non essere accusate di 
        parzialità, arrivano persino a supportare entrambi i lati, impedendo 
        loro di arrivare allo sfinimento e di raggiungere finalmente un accordo. 
        In casi estremi, come è successo in Somalia, le Ong comprano addirittura 
        la protezione di bande armate locali, che usano questi fondi per 
        acquistare armi. Queste organizzazioni contribuiscono quindi a 
        prolungare le guerre invece di attenuarne gli effetti come credono di 
        fare.
 
 Facciamo la guerra per fare la pace
 
 Oggigiorno troppe guerre si trasformano in conflitti endemici senza fine 
        perché interventi esterni bloccano sia il processo di reciproco 
        sfinimento delle parti che la vittoria decisiva di una di esse. 
        Diversamente dalla guerra, problema vecchio quanto il mondo, la nuova 
        pratica distruttiva che consiste nel peggiorarne i mali attraverso 
        interventi disinteressati può essere limitata. Le élite politiche 
        dovrebbero resistere all'impulso emotivo che le spinge ad intervenire 
        nelle guerre altrui, non perché siano indifferenti alla sofferenza 
        umana, ma proprio perché non lo sono e desiderano facilitare l'avvento 
        della pace. Gli Stati Uniti dovrebbero osteggiare gli interventi 
        multilaterali invece di capeggiarli. Bisognerebbe stabilire nuove norme 
        che regolino gli aiuti forniti ai profughi dall'Onu, in modo da 
        garantire che l'assistenza immediata sia sollecitamente seguita dal 
        rimpatrio, dall'integrazione nella popolazione locale o 
        dall'emigrazione, impedendo la creazione di campi profughi permanenti. E 
        sebbene sia forse impossibile limitare l'azione degli interventisti 
        delle Ong, organizzazioni di questo tipo non dovrebbero essere né 
        incoraggiate né fondate ufficialmente. Sottostare a queste regole 
        apparentemente così perverse significherebbe dimostrare di aver compreso 
        appieno la logica paradossale della guerra ed assumersi l'impegno di 
        lasciarle svolgere la sua unica funzione utile: portare la pace.
 
 (The New York Times Syndication Sales Corp.)
 
 29 marzo 2002
 
 (da 
        Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio. Traduzione dall'inglese di Sarah del 
        Meglio)
 
 
 
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