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        Un conflitto senza strategiadi Vittorio Emanuele Parsi
 
 Ancorché la fase afgana della guerra contro il terrorismo sia 
        sostanzialmente conclusa, e si sia rivelata un successo maggiore e più 
        rapido di quanto potessimo sperare, non possiamo nascondere una 
        sensazione di disagio crescente, quasi un dubbio insinuante e malevolo, 
        la sensazione cioè di ritrovarci a combattere una guerra senza disporre 
        di un'adeguata strategia. Il dubbio si fa più consistente e fastidioso 
        ora, quando cresce la consapevolezza che privi di un pensiero strategico 
        su come (e dove) condurre questa campagna contro il terrore, potremmo 
        ritrovarci nell'impossibilità, o meglio, nell'incapacità di sfruttare 
        politicamente il successo militare conseguito sul campo, e così passare 
        da una posizione di forte vantaggio nei confronti del nemico terrorista 
        a una di pericolosissima vulnerabilità. Mentre ancora la situazione del 
        dopoguerra in Afghanistan si presenta fluida (per gli sviluppi 
        possibili) e vischiosa (per il rischio di non riuscire a disimpegnarsi 
        rapidamente e con efficacia), nubi di guerra si addensano sull'Irak o la 
        Somalia, sul Sudan o magari le Filippine meridionali. Potremmo cioè 
        ritrovarci nostro malgrado coinvolti in una colossale e continua 
        successione di "guerre di faglia", in grado di dar corpo a quello 
        "scontro delle civiltà" ipotizzato da Samuel Huntington come lo schema 
        interpretativo più plausibile dei conflitti post-Guerra Fredda. 
        Forniremmo così a bin Laden o ai suoi emuli e successori una 
        straordinaria opportunità propagandistica per convincere le masse 
        musulmane (già peraltro alienate rispetto al sistema economico globale e 
        al processo politico statuale) della natura antislamica dell'ennesima 
        "crociata occidentale". Eppure, per la stessa coerenza della campagna 
        antiterrorista, si fa sempre più probabile che una coalizione 
        occidentale (in quel caso nuovamente ridotta a Stati Uniti e Gran 
        Bretagna) si ritrovi costretta a battersi, proprio a causa dell'assenza 
        di una strategia appena un po' articolata, in cui la guerra sia una 
        scelta possibile e non l'unica alternativa prevista alla resa di fronte 
        al terrore.
 
 Per comprendere le ragioni di questa assenza o carenza di una 
        prospettiva che non preveda esclusivamente una sorta di conflitto 
        permanente col mondo musulmano, dobbiamo partire dalla constatazione che 
        stiamo in effetti scontando l'assenza dell'elaborazione di una nuova 
        Grand strategy da parte delle diverse amministrazioni americane che si 
        sono succedute tra il 1991 (fine della Guerra Fredda) e oggi. Al di là 
        della tanta retorica che è stata abbondantemente impiegata intorno alla 
        vittoria dell'Occidente nella lunga Guerra Fredda, e nonostante 
        l'evidenza che il sistema bipolare e il suo equilibrio del terrore siano 
        tramontati, portandosi dietro anche la correlata idea di un ordine tanto 
        più stabile quanto più "bilanciato", gli Stati Uniti non sembra abbiano 
        ancora intrapreso una elaborazione convincente della nuova situazione di 
        egemonia globale che configura l'ordine attuale (più o meno effettivo) 
        del sistema.
 
        
        In fondo, sembrerebbe che a Washington siano convinti che il venir meno 
        della potenza rivale (nella sostanziale assenza di uno sfidante globale 
        credibile) non comporti altro che l'estensione dell'egemonia 
        statunitense (già relativa all'Occidente e a porzioni consistenti 
        dell'Asia orientale) all'intero pianeta, a prescindere dal fatto che le 
        regole di funzionamento e i pilastri su cui quell'egemonia si fondava 
        siano utili ed efficaci anche fuori della comunità politica occidentale. 
        Per essere franchi - che si ritenga la stabilità dell'ordine fondata 
        sull'equilibrio tra potenze rivali, ovvero sull'egemonia (più o meno 
        costituzionalizzata) di una sola grande potenza - ciò che tendiamo a 
        dimenticarci è che l'insieme delle nostre categorie non è mai stato 
        messo alla prova in una situazione in cui la minaccia alla sicurezza o 
        la diffusione del potere uscivano dall'ambito del "Nord del mondo" (cioè 
        di una nozione di Occidente assai allargata). Equilibrio, alleanze e 
        paci, egemonia, istituzioni e cooperazione hanno sempre avuto come 
        termini di riferimento l'Europa e le sue nuove e più forti propaggini. 
        Quando abbiamo dovuto confrontarci con rivalità od ostilità provenienti 
        dai paesi esterni alla cultura europea, in realtà la nostra unica 
        risposta è sempre stata la guerra. E' da questa lacuna concettuale che 
        dobbiamo partire, per far sì non tanto che la guerra sia esclusa dal 
        mondo (sarebbe solo puro e pericolosissimo utopismo), ma perché essa 
        torni a essere una possibile scelta politica e non una necessità di 
        sopravvivenza, la prosecuzione della politica con altri mezzi e non la 
        sua abdicazione.
        
         
        
        Di fronte a questa guerra, allora, di cui la campagna afgana rischia di 
        essere solo un secondo round (dopo il primo, terribile, scatenato l'11 
        settembre), è assai poco utile l'applicazione acritica di categorie che 
        rimontano a Westfalia, dove fu sancito internazionalmente quel principio 
        di sovranità che doveva mettere termine alla sanguinosissima stagione 
        delle guerre di religione. Dimenticheremmo infatti che quelle furono, 
        innanzitutto e schmittianamente, guerre civili di religione, mentre il 
        crinale sul quale pericolosamente stiamo correndo è quello della guerra 
        tra religioni. Altrettanto inutile è evocare Westfalia oggi, quando la 
        minaccia arriva principalmente da attori non statali (come la rete 
        terroristica di bin Laden). Siamo infatti in presenza di un evento così 
        rivoluzionario che diviene inservibile persino il criterio della 
        distruzione reciproca assicurata - presupposto logico di quell'equilibrio 
        del terrore che faceva scrivere Raymond Aron di una guerra improbabile 
        (ma che i fatti hanno dimostrato essere "impossibile" almeno tanto 
        quanto la pace, visto come si è autodissolta l'Urss) - dal momento che 
        non è uno Stato quello che minaccia un attacco atomico su New York o 
        Londra.
        
         
        
        Siamo al paradosso (per quanto tragico) per cui, pur essendo le 
        principali "potenze" allineate o alleate tra loro, la sicurezza del 
        sistema è realmente a uno dei punti più bassi mai toccati fin dai tempi 
        della "crisi di Cuba". Eccoci quindi a una nuova guerra contro i pirati, 
        o contro i corsari forse, ma dove il rapporto di sudditanza tra corsaro 
        e sovrano sembra essere capovolto. Si direbbe che, come in tempo di pace 
        l'esclusività dell'azione dello Stato in politica internazionale è 
        sfidata da una serie di nuovi soggetti (dai movimenti alle Ong, dalle 
        Chiese alle multinazionali), anche in tempo di guerra lo Stato sta 
        perdendo quell'antico monopolio conquistato duramente a Westfalia nel 
        1648. Stiamo cioè forse assistendo all'estendersi degli effetti della 
        globalizzazione dal campo della pace a quello della guerra. Una guerra 
        che cambia, analogamente alla pace dunque, e i cui caratteri nuovi 
        abbiamo del resto già conosciuto nelle ultime guerre balcaniche, dove un 
        "capo-tifoso" di Belgrado trasformò se stesso in imprenditore di 
        violenza, e mutò degli ultras in una compagnia di ventura al "servizio" 
        di un'improbabile Repubblica serba di Bosnia.
 Uno spartiacque epocale tra due sistemi d'ordine
 
 Una guerra contro i pirati, eppure non una guerra minore, anzi, 
        quantomeno nei suoi effetti, una vera e propria guerra costituente, in 
        grado cioè di segnare il passaggio tra due sistemi d'ordine. Questa 
        campagna chiude definitivamente il post Guerra Fredda e ridispone i set 
        di alleanze. Essa segna innanzitutto una fase nuova di cooperazione tra 
        Stati Uniti e Russia: non più rivali globali, ma possibili partner 
        regionali. L'Amministrazione Bush, infatti, mentre non rinuncia alla 
        visione di un mondo unipolare, appare disponibile a una serie di 
        gestioni congiunte con le altre grandi potenze regionali, a partire 
        dalla Russia di Putin. Se Mosca si rivela un partner fondamentale per la 
        sicurezza nell'Asia Centrale, la stessa strada inizia a farsi 
        percorribile anche con la Cina, come hanno dimostrato due fatti 
        importanti: l'ammissione di Pechino al Wto e la dichiarazione congiunta 
        sinoamericana sulla lotta al terrorismo durante l'ultimo vertice dei 
        paesi Asia/Pacifico. E questo significa un passo avanti, non solo 
        simbolico, per il superamento della logica della Guerra Fredda anche in 
        Estremo Oriente, dove nessun Muro era caduto e nessuna grande potenza 
        era implosa tra il 1989 e il 1991. L'Europa perde forse una storica 
        occasione di presentarsi unitariamente a questo appuntamento, ma la 
        partecipazione effettiva di Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia 
        alla coalizione antiterrorismo colma almeno parzialmente il vuoto 
        lasciato (incolpevolmente) da Bruxelles, o meglio dal ritardo nella 
        concreta costruzione di un effettivo soggetto politico continentale.
 
 E' la stessa ecatombe con cui si apre, che colloca questa guerra tra 
        quelle in grado di produrre conseguenze tipiche delle major wars. Del 
        resto, chi l'ha scatenata sembra guidato da un lucido progetto: 
        provocare una guerra che conduca alla fine dell'egemonia americana, 
        coalizzandole contro il mondo islamico (nell'accezione di Islam della 
        sua allucinata lettura) e così rompere l'unitarietà del sistema politico 
        mondiale, visto come mera estensione dell'Occidente e dei suoi valori. 
        Per quanto aberrante possiamo giudicare un simile proposito, bisogna 
        riconoscere che i suoi artefici mostrano di aver colto il punto debole 
        dell'attuale sistema: e cioè la non perfetta coincidenza a livello 
        internazionale tra ordine politico e ordine economico. Se infatti il 
        secondo è sostanzialmente aperto a tutti (e anzi ha rappresentato per 
        oltre un decennio, sotto il nome di globalizzazione, la principale 
        proposta ideale e ideologica offerta a chi voleva entrare nel "club 
        occidentale"), il primo resta un ordine segmentato. Detto altrimenti, 
        non c'è perfetta sovrapposizione tra l'area in cui l'ordine economico è 
        garantito e quella in cui l'ordine politico lo è altrettanto. E' 
        possibile riscontrare quanto diversa sia l'effettività dei due ordini 
        guardando a come del tutto opposti siano stati i tempi di reazione del 
        sistema nei confronti di minacce alla sua sicurezza 
        economico-finanziaria (si pensi alla crisi asiatica) o alla sua 
        sicurezza politica (si veda la lentezza di risposta di fronte alla crisi 
        balcanica). E, sia detto solo per inciso, non basta a giustificare una 
        simile discrasia la minor obsolescenza delle istituzioni economiche 
        globali (dalla Banca mondiale al Fondo monetario internazionale) 
        rispetto a quelle più tipicamente politiche (come l'Onu). Essa sembra 
        invece imputabile a quella impostazione ideologica iperliberista (e 
        assai poco liberale) che nell'ultimo decennio ha spesso visto nella 
        politica una fonte di problemi aggiuntivi, e non già una risorsa per 
        risolvere situazioni complesse, e che ha pensato quindi di "lasciare 
        alle forze del mercato" il compito di autoregolamentare la 
        globalizzazione.
 
 E' su questa "sconnessione" che ha puntato le sue carte bin Laden, 
        colpendo il centro dell'economia e della finanza mondiale mentre da 
        questo stesso sistema traeva il sostentamento per le proprie attività 
        criminali. Ed è ancora per questo che, in definitiva, il suo gesto ha 
        voluto sfregiare innanzitutto la "capitale del moderno", quasi a mettere 
        a una tragica berlina questo sempre meno accettabile stridore tra ordine 
        economico e ordine politico. Ma nel fare ciò, il tentativo di jihad 
        lanciato da bin Laden ha prodotto una reazione inaspettata, un 
        cambiamento tipico delle guerre costitutive, che tende proprio a ridurre 
        quel punto di vulnerabilità tragicamente sfruttato dal terrorismo. Nei 
        giorni successivi l'11 settembre, infatti e senza che venisse convocata 
        alcuna "nuova Bretton Woods", è cominciata un'attività di intelligence 
        finanziaria a livello internazionale che ha modificato il regime sui 
        movimenti di capitali e quello sul segreto bancario. Mentre il 
        presidente Bush ammoniva le grandi banche internazionali che si 
        aspettava la più aperta e leale collaborazione per distruggere le basi 
        finanziarie di al Qaeda (pena la sostanziale esclusione dal mercato 
        americano), la Svizzera assicurava l'attenuazione delle regole poste a 
        tutela della riservatezza dei conti bancari. Per cogliere la rilevanza 
        del passo elvetico, basterà ricordare come appena due anni fa la 
        Confederazione, a cinquant'anni dalla guerra "a più alto tasso etico" 
        mai combattuta e solo grazie alla straordinaria pressione di potenti 
        lobbies transnazionali, si decideva a rendere pubblica la questione 
        dell'oro dei nazisti (ovvero dei proventi della spoliazione degli ebrei 
        operata dai nazisti), per oltre mezzo secolo occultato e protetto in 
        nome dell'inviolabilità del segreto bancario.
 
 La capacità di cogliere lo "spirito del tempo", per cercare di 
        distruggerlo, bin Laden l'ha dimostrata anche nello scegliere di dare 
        alla sua personale jihad la forma della "guerra deterritorializzata". 
        L'attacco al cuore del potere economico e militare degli Stati Uniti è 
        avvenuto infatti vanificando l'utilità delle ingenti risorse destinate 
        alla protezione del territorio americano. Nel fare questo traspare la 
        scelta di rompere anche simbolicamente quelle idee-cardine occidentali 
        che sono alla base non solo dello Stato e del suo ordine interno, ma 
        anche dell'ordine internazionale fondato sugli Stati. Questa volontà di 
        spezzare concretamente e simbolicamente l'ordine occidentale si 
        manifesta ulteriormente nella strategia di rivolgersi - lui, un arabo, 
        rifugiato in Afghanistan, con alleanze in Pakistan, Malesia e Indonesia 
        - alla comunità dei fedeli dell'Islam, e non già alla nazione araba. 
        Quest'ultimo è infatti un concetto che incorpora almeno una categoria 
        fondamentale dell'ordine occidentale, e che segnala vistosamente la fase 
        di dipendenza del mondo musulmano dai concetti politici occidentali. Ma 
        soprattutto, parlando alla Umma, Osama si svincola dal dato 
        territoriale, si mette cioè nella condizione di poter temporaneamente 
        cedere tutto il territorio possibile (tranne quelle montagne o quelle 
        caverne in cui si rifugia) senza che questo intacchi la potenza del suo 
        messaggio per le masse diseredate dell'Islam: dal Maghreb al Mar della 
        Cina.
 
        
        In questo Osama bin Laden segna un salto qualitativo rispetto a Saddam 
        Hussein, l'ultimo "campione" (assai più posticcio) della causa del 
        radicalismo arabo-musulmano (e non più "ampiamente" islamico), il cui 
        potere sarebbe stato totalmente dissolto, se solo Bush senior, una 
        decina d'anni fa, l'avesse privato del dominio territoriale dell'Irak. E 
        rischiamo di trovarci a dover correggere questo errore dieci anni dopo, 
        in realtà così cumulando un secondo errore a un primo. Anche Osama, 
        apparentemente, ne commette uno: quando, dopo aver irriso alla sovranità 
        territoriale della potenza egemone sembra convinto di potersi rifugiare 
        sotto il debole scudo della sovranità di uno degli Stati più scalcagnato 
        del pianeta, l'Emirato Islamico dell'Afghanistan. Più realisticamente 
        dobbiamo ritenere che il capo di al Qaeda fosse consapevole che la 
        reazione americana non si sarebbe fermata di fronte alle pretese sovrane 
        di Kabul, ma probabilmente contava su una maggior tenuta del regime 
        talebano, su una minor capacità di controllo da parte delle élite 
        musulmane "moderate", e su una assai più rapida sollevazione delle masse 
        islamiche.
 Se questo si è rivelato un errore di calcolo da parte dei terroristi, un 
        vero e proprio abbaglio è stato quello di non aver previsto che gli 
        Stati Uniti fossero da tempo alla ricerca di un motivo sufficientemente 
        grave per procedere alla revisione dell'ordine del sistema 
        internazionale e delle sue regole. L'attacco portato alla sicurezza 
        dell'unica superpotenza planetaria da un attore non statale palesa, agli 
        occhi di Washington, come nessuna concentrazione di potere sia 
        sufficiente se le regole del sistema le sono di impaccio. E parliamo di 
        un impaccio che ha prodotto alcune migliaia di morti civili, in tempo di 
        pace, nel cuore del territorio metropolitano degli Stati Uniti. E' dalla 
        fine della Guerra Fredda che sono ricorrenti le accuse mosse all'America 
        di comportarsi come una "potenza revisionista", una potenza oltretutto 
        che chiede la "revisione" delle regole del gioco piuttosto che della sua 
        parte della torta. Storicamente questo è un fatto inedito. Giacché di 
        norma sono le potenze emergenti (come la Germania guglielmina) o quelle 
        sconfitte e in risalita (come la Germania di Hitler) ad attuare 
        politiche revisioniste. Eppure, lo si è ripetuto tante volte, gli Stati 
        Uniti hanno "vinto" la Guerra Fredda, che di fatto ha rappresentato una 
        guerra per l'egemonia, se è vero che ha portato alla fine del sistema 
        bipolare e alla nascita di un sistema unipolare, ad egemonia americana. 
        Come spiegare allora questo atteggiamento americano da "vittoria 
        mutilata" (che in superficie, davvero e talvolta, richiama l'umore 
        italiano dopo la Grande Guerra)? La risposta credo risieda nel fatto che 
        anche se la Guerra Fredda è stata per davvero una guerra costituente 
        vinta dagli Stati Uniti, la sua fine non ha visto alcuna "pace 
        costituiva". Le istituzioni della Guerra Fredda (come l'Onu) sono 
        sopravvissute, e quelle regole che prima consentivano alla pace 
        d'equilibrio tra Usa e Urss di mantenersi e consolidarsi, ora 
        impediscono alla nuova pace egemonica di assestarsi. E nel far questo 
        espongono a rischi incredibili la sicurezza dell'egemone le cui mosse, 
        in assenza di una ratifica per cosi dire "formale" del risultato 
        conseguito sul campo, risultano assai spesso apparire come conseguenza 
        di una volontà unilaterale, piuttosto che condizionate dal nuovo assetto 
        unipolare del sistema.
 
 Guerra e declino della sovranità
 
 E' singolare ma spiegabile il nostro non accorgerci di questo passaggio, 
        perché in realtà esso ha già rappresentato la chiave di volta della 
        strategia americana di pacificazione postbellica di quel che oggi 
        chiamiamo Occidente (con senso politico non del tutto coincidente 
        rispetto a quello culturale). Tale strategia - elaborata negli anni 
        Quaranta, a guerra ancora in corso - si proponeva un obiettivo immediato 
        piuttosto ambizioso: evitare che le potenze che in un ventennio avevano 
        trascinato per due volte il mondo in un conflitto devastante potessero 
        ripetere il medesimo errore. Se l'obiettivo era già ambizioso, la 
        strategia per realizzarlo lo era ancora di più. Essa partiva dalla 
        considerazione che la pace d'equilibrio si era dimostrata non solo 
        troppo fragile, ma anche estremamente difficile da perseguire: così 
        difficile da rappresentare essa stessa una sorta di acceleratore della 
        corsa verso la rottura di qualsiasi equilibrio, una volta che il sistema 
        avesse iniziato a collocarsi sul piano inclinato della sua instabilità. 
        In una parola, se il tentativo di perseguire la pace attraverso 
        l'equilibrio aveva portato alla guerra, essa rappresentava un pezzo del 
        problema e non già della soluzione. Per ovviare a questo, l'America si 
        propose di "mettere insieme", sotto il proprio ombrello protettivo, gli 
        attori che avevano così clamorosamente fallito nel tentativo di 
        bilanciarsi reciprocamente.
 
        
        Si doveva quindi passare da una pace d'equilibrio a una pace egemonica, 
        di cui gli Stati Uniti sarebbero stati i garanti e gli artefici. Il 
        corollario di una simile impostazione, in termini economici, implicava 
        la partecipazione degli ex rivali a un sistema economico aperto, in cui 
        quelle economie fossero interdipendenti tra loro e strutturalmente 
        collegate a quella americana. Ciò avrebbe impedito che, a fronte di 
        periodi di crisi economica, i diversi sistemi nazionali potessero optare 
        per strategie protezioniste, ritenute giustamente concause dei conflitti 
        politico-militari. Il progetto iniziale, non comprendeva ancora Giappone 
        e Cina (allora non comunista), e nello stesso tempo non era concepito in 
        chiave antisovietica. La chiusura verso Mosca, dovuta alla acquisita 
        consapevolezza del carattere aggressivo e tirannico del regime comunista 
        (e l'inclusione del Giappone), subentrò solo a partire dal 1945, e diede 
        luogo al secondo pilastro della grande strategia americana della Guerra 
        Fredda: il contenimento del comunismo.
 Durante la Guerra Fredda, quindi, hanno convissuto un set di regole 
        elaborate per assicurare una pace egemonica e almeno parzialmente "costituzionalizzata" 
        intra-occidentale (cioè tra quelli che tale pace avevano messo a 
        repentaglio due volte in vent'anni) e un diverso set di regole per 
        garantire una pace di equilibrio tra Est e Ovest. Del primo assetto 
        hanno fatto parte istituzioni come la Nato, la Banca mondiale, Il Fondo 
        monetario istituzionale e il Gatt (l'antenato del Wto). Del secondo 
        assetto hanno fatto parte istituzioni come l'Onu, i regimi sulla non 
        proliferazione nucleare, i diversi accordi Salt e Start sul controllo 
        delle armi nucleari, la Csce. La sconfitta dell'Urss e il tramonto del 
        bipolarismo ha visto la semplice estensione della pace egemonica 
        all'intero ex campo rivale. In questo caso, in forza di una particolare 
        versione paneconomicista del pensiero sulla globalizzazione, le regole e 
        le istituzioni economiche hanno preceduto quelle propriamente politiche, 
        così che, per esempio, gli ex paesi comunisti sono stati immediatamente 
        introdotti al regime di mercato e al capitalismo, ma lasciati a lungo 
        sulla soglia di quel regime istituzionalizzato che nei fatti aveva 
        stemperato la crudezza dell'egemonia americana sull'Occidente (pur 
        rafforzandola in termini sostanziali).
 
        
        Non è accidentale il fatto che bisognerà attendere l'esplodere 
        dell'attuale emergenza terroristica per vedere l'inclusione della Russia 
        nel "nuovo ordine" (e in parte persino della Cina, con la sua piena 
        ammissione al Wto) oltre che il superamento definitivo della mentalità 
        della Guerra Fredda da parte di Washington. Ma sono gli "Stati terzi" 
        (del resto, con poche eccezioni, quelli più malfermi istituzionalmente) 
        a veder ridotte le proprie capacità di manovra e di opportunità (ai 
        tempi del bipolarismo derivanti anche dal muoversi per interstizi tra i 
        due blocchi), senza peraltro ottenere i vantaggi dell'ordine egemonico e 
        "costituzionalizzato" costruito in mezzo secolo a livello atlantico. In 
        simili condizioni, come può sorprenderci che l'estensione anche a questi 
        ultimi di una pace egemonica veda l'opposizione anche aspra di chi non 
        vede alcun tornaconto in un tale passaggio? Sorprende semmai che 
        l'America abbia dimenticato che alla radice del successo con cui ha 
        trasformato potenziali rivali (come le potenze europee) in alleati e 
        partner c'era una grande visione, una Grand Strategy di cui oggi proprio 
        non c'è traccia. Se la costruzione di una pace egemonica non sarà 
        accompagnata da una strategia adeguata, l'estremismo radicale avrà buon 
        gioco nel mobilitare l'appoggio crescente di quanti si sentono alienati 
        sia rispetto al sistema economico sia rispetto al sistema politico 
        internazionale, e l'obiettivo di una sicurezza stabile e duratura del 
        sistema si allontanerà sempre di più. 
 La "sovranità attenuata" era stata la chiave di volta che aveva permesso 
        di costruire la pace egemonica dentro l'Occidente. Nel passaggio a una 
        dimensione realmente globale dell'egemonia americana, l'attenuazione 
        della sovranità si rivela insieme troppo e troppo poco. E' troppo, su 
        una base consensuale, perché la "globalizzazione" (intesa nella sua 
        dimensione anche di proposta ideologica) non offre agli Stati fino ad 
        ora esterni rispetto all'Occidente gli stessi cospicui vantaggi politici 
        ed economici che Nato e Piano Marshall (per dir così) avevano offerto 
        all'Europa postbellica. E' poco, su una base di pura imposizione, perché 
        solo una sua ancora più spiccata relativizzazione può forse offrire 
        all'egemone un incremento reale e sostanziale della propria sicurezza. 
        E' significativo che già a partire dall'amministrazione Clinton 
        l'America abbia introdotto e ampliato l'accezione e l'uso della 
        categoria degli "Stati canaglia" (rogue States), che implica non tanto 
        la limitazione della sovranità di questo o quello Stato, quanto 
        piuttosto la messa in mora della categoria di sovranità come assoluto. 
        Con le recenti dichiarazioni, Rumsfeld si spinge oltre, affermando che 
        la concreta partecipazione alla lotta antiterrorista (o per lo meno la 
        possibilità di esibire una fedina penale pura) prende il posto della 
        sovranità, come concetto cardine di quel nuovo ordine mondiale tante 
        volte annunciato. La sovranità non è più il pilastro dell'ordine 
        internazionale (lo si è già visto in Kosovo), perché non è più tempo 
        che, in nome dell'affermazione del concetto di sovranità, si rinunci 
        esplicitamente all'affermazione del concetto di giustizia. Gli americani 
        dicono, in una parola, che Westfalia è finita.
 
 Forse è proprio la "ferialità" con cui si compie questo passaggio oltre 
        la sovranità - questa ennesima qualificazione (dequalificazione, a ben 
        guardare) della sovranità, che da limitata o attenuata si fa categoria 
        sempre meno assoluta e sempre più relativa - a rendere così difficile 
        cogliere il movimento in atto, almeno per noi europei, che sulla forza 
        di quella idea abbiamo costruito gli ultimi quattrocento anni di storia 
        e gran parte della modernità. Per noi la sovranità resta un concetto 
        connotato dalla sacralità, inevitabilmente, perché incorpora quel tanto 
        di sacro che le restò incollato dall'esser stata sancita per porre fine 
        alle guerre civili di religione. Nella memoria della cultura europea 
        rimane questo duplice legame aureo tra sovranità e costruzione dello 
        Stato (sul versante interno) e sovranità e neutralizzazione delle guerre 
        di religione (sul versante esterno). Ma proprio la forza che la 
        costruzione dello Stato acquisisce dalla sovranità a partire dal 
        Seicento nasconde il fatto che, a livello di sistema, l'invenzione della 
        sovranità ha rappresentato uno straordinario strumento per concorrere a 
        realizzare la sicurezza collettiva, il primo principio di 
        autolimitazione del potere arbitrario, accettato da ciascuno Stato nel 
        nome dell'interesse egoistico "rettamente inteso". Il successo della 
        sovranità deriva, in sintesi, non solo dall'aver saputo incatenare il 
        demone delle guerre di religione, mettendone lo Stato a guardiano 
        implacabile, ma anche dall'aver dato forma, attraverso il riconoscimento 
        reciproco delle sovranità plurali in luogo di un'unica e (christiana) 
        respublica, all'idea che tra simili possa regnare la pace. Il declino 
        della sovranità oggi, deriva dal fatto che essa non sembra di grande 
        utilità, quando non è tra simili che si è in guerra (Stati contro 
        terroristi), non c'è una christiana respublica cui tutti si è 
        appartenuto, non siamo di fronte a guerre (civili) di religione, ma 
        semmai a guerre tra religioni.
 
 Tutte le incognite del Nuovo Ordine Mondiale
 
 Nel momento in cui il riconoscimento dell'eguale sovranità di ogni Stato 
        non contribuisce più a garantire la sicurezza dell'egemone, anzi, quando 
        sembra addirittura renderlo più vulnerabile, perché stupirsi che questi 
        ricerchi nuove regole per un nuovo sistema? In ciò si concreta il 
        passaggio da un'idea di ordine fondato sull'accettazione della pluralità 
        e sul principio dell'anarchia del sistema politico internazionale a 
        quella di un ordine basato sulla riduzione della pluralità e sul 
        principio della gerarchia, da una visione anarchico-plurale a una 
        gerarchico-imperiale. E tutto questo mi sembra perfettamente funzionale 
        rispetto alle esigenze della globalizzazione del sistema economico. Che 
        si chiami pax americana o pace egemonica, neo-impero o nuovo ordine 
        mondiale, siamo di fronte a una sostanziale discontinuità rispetto a 
        Westfalia, il cui corollario è che la sovranità (come era del resto 
        accaduto storicamente) funziona paradossalmente solo tra simili, laddove 
        essa è volontariamente e multilateralmente affermata (in termini di 
        principio) e relativizzata (nelle conseguenze concrete), come avviene in 
        Occidente. L'idea di sovranità e una buona parte della sua pratica hanno 
        infatti continuato a sopravvivere oltre mezzo secolo dentro l'egemonia 
        americana sull'Occidente, e hanno prodotto quella nuova forma "costituzionalizzata" 
        di dominio, che ha reso la riduzione della sovranità (sia pure in ambiti 
        e con intensità differenti) un fenomeno reciproco e dagli effetti non 
        così deprivanti della concreta libertà. Ma fuori di qui?
 
 Come ogni studioso di politica internazionale sa bene, non è possibile 
        costruire nessun ordine se lo spazio conquistato non viene elaborato, se 
        non si riformulano le categorie necessarie a "pensarlo". Ridefinire la 
        potenza degli Stati Uniti come the power of last resort, che interviene 
        solo quando la sicurezza globale è minacciata (questo era un po' il 
        cuore della "dottrina Bush", prima dell'11 settembre) non basta più. Nel 
        suo riecheggiare quell'idea schmittiana di sovranità come potere di 
        decidere nello (e dello) stato d'eccezione, essa riposa ancora sul 
        presupposto di un mondo "ordinato" in Stati, e dove solo questi ultimi 
        possono rappresentare una minaccia. La novità è invece costituita dal 
        fatto che stiamo vivendo, e sempre più vivremo, in una pluralità di 
        sistemi politici, e non più dentro un sistema internazionale. Questa 
        unicità al tramonto era il frutto (forse illusorio, più probabilmente 
        contingente o temporaneo) della Guerra Fredda e dell'opposizione tra i 
        due grandi universalismi di matrice occidentale, capaci di imporre la 
        propria chiave di lettura al mondo anche grazie al monopolio nucleare 
        che detenevano.
 
        
        Dobbiamo partire dall'accettazione che, accanto a un sistema in cui vige 
        l'egemonia costituzionalizzata degli Stati Uniti - ricco di leggi, 
        istituzioni e sovranità attenuate - ne esistono altri. Alcuni sono più 
        evidenti, come quello economico globalizzato, altri lo sono assai meno, 
        come quello che collega aspramente tra loro culture e paesi che hanno 
        trovato il modo di elaborare la modernità (dall'Occidente alla Cina) e 
        quelli che non ne sono ancora stati capaci. Si tratta di sistemi 
        diversi, dunque, regolati da norme, princìpi e aspettative differenti, 
        ovvero da diversi regimi internazionali: ed ecco che la rilevanza 
        teorica di questo concetto sopravanza oggi di gran lunga quello di 
        sistema internazionale. Sono sistemi a geometria variabile, in molti dei 
        quali siamo presenti, sia pure con modalità differenti, che però hanno 
        poco a che fare con l'unitarietà delle nostre identità. Questo mi sembra 
        il senso più preciso del "nuovo medioevo" tante volte evocato. In fondo, 
        il continuare a pensare il mondo come un unico sistema politico 
        internazionale, fondato su sovranità simili, ci ha portato al paradosso 
        che di fronte alla minaccia che proviene da ciò che - lasciandoci 
        attoniti - si palesa come volontariamente "altro", sappiamo soltanto 
        combattere. Pensare a un mondo in cui quelli come noi devono vivere 
        accanto e insieme a quelli diversi da noi mi pare consenta quantomeno di 
        poter scegliere la guerra, tutte le volte che lo si reputi legittimo.
 29 marzo 2002
 
 (da 
        Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio)
 
 
 
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