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        Finché c'è il Tevere c'è speranzadi Arturo Diaconale
 
 Non bisogna avere paura di allargare il Tevere quando diventa 
        necessario. E questa dell'accordo sulla fine dell'assedio israeliano 
        alla Basilica della Natività di Betlemme è proprio una delle occasioni 
        in cui è opportuno marcare una netta distanza tra Chiesa e Stato, 
        Vaticano e Repubblica italiana. Non si tratta, ovviamente, di tornare ad 
        innalzare gli storici steccati rispolverando una forma di laicismo 
        antica e superata. Si tratta, però, di mettere in chiaro che la politica 
        estera della Repubblica non può coincidere sempre e comunque con quella 
        del Vaticano. Senza polemiche e senza contrasti. Ma anche senza 
        titubanze e subordinazioni che non solo possono inquinare i rapporti tra 
        il governo dello stato e quello della Chiesa ma finiscono col 
        danneggiare gli interessi sia dell'uno che dell'altro.
 
 Sulla vicenda della Natività di Betlemme è chiaro che la linea politica 
        e gli interessi del Vaticano sono assolutamente diversi da quelli della 
        Repubblica Italiana. Quest'ultima deve contribuire a promuovere in ogni 
        modo la pace così come previsto dalla propria Carta Costituzionale. E 
        quindi non può sottrarsi ad un eventuale ruolo che le venisse chiesto 
        esplicitamente e con le dovute forme diplomatiche dagli organismi e dai 
        governi dei paesi direttamente impegnati nelle vicende del Medio 
        Oriente. Ma al di là di questa generica vocazione alle opere di pace e 
        di questa altrettanto generica e generosa disponibilità a contribuire a 
        sbrogliare situazioni internazionali intricate non ha alcun interesse 
        particolare da difendere in Medio Oriente. Diverso è il caso della Santa 
        Sede che non può rinunciare al rapporto religioso, morale e politico da 
        sempre esercitato nei confronti dei luoghi santi culla della religione 
        cristiana. Non è un caso, ad esempio, che proprio in nome della 
        peculiarità della propria politica estera nella regione la Santa Sede 
        non abbia ancora riconosciuto lo stato di Israele e continui a 
        rivendicare il proprio diritto a pesare ed a far sentire la propria voce 
        sul destino di Gerusalemme e dei Luoghi Santi.
 
 Il problema della destinazione ultima dei cosiddetti "rifugiati" 
        palestinesi della Basilica di Betlemme, dunque, riguarda direttamente il 
        Vaticano. Quest'ultimo è liberissimo di considerarli "rifugiati" e non 
        terroristi. E può altrettanto legittimamente preoccuparsi della loro 
        sorte così come di quella dei frati della Natività. Ma non può pensare 
        di dare per scontato di poter scaricare sullo Stato Italiano il problema 
        concreto della loro collocazione. Come se il Tevere fosse stato 
        cementificato da una gigantesca colata di clericalismo di ritorno e la 
        Repubblica fosse diventata una sorta di Comunità di Sant'Egidio pronta a 
        compiere ogni tipo di lavoro in nome dell'interesse superiore della 
        santa Sede. Il Vaticano, in sostanza, risolva da solo il problema dei 
        terroristi "rifugiati". Li ospiti nel proprio territorio e nei palazzi 
        Apostolici come ha già fatto con il monsignore terrorista Cappucci. E se 
        proprio ha bisogno dello Stato Italiano per sbrogliare questa matassa lo 
        investa ufficialmente del problema. Senza dare per scontato che tanto 
        l'Italia è disposta comunque a genuflettersi. In fondo il Tevere non è 
        ancora scomparso!
 
 10 maggio 2002
 
 (da L'Opinione)
 
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