| 
        
        Medio Oriente in fiammedi Emanuele Ottolenghi
 
 Iniziato nel settembre 1993 con la firma della Dichiarazione di Princìpi 
        tra l'allora primo ministro israeliano Rabin e il capo 
        dell'organizzazione per la Liberazione della Palestina, Yasser Arafat, 
        il processo di Oslo ha rappresentato una svolta storica nell'intricato 
        contesto mediorientale. I due nemici storici, Israele e l'Olp, mettevano 
        fine al loro ormai storico conflitto riconoscendosi l'un l'altro, e si 
        impegnavano a risolvere la loro disputa in maniera amichevole attraverso 
        il negoziato diplomatico. Israele riconosceva l'Olp come il legittimo 
        rappresentante del popolo palestinese, l'Olp riconosceva lo Stato di 
        Israele. Entrambi si impegnavano solennemente e formalmente a porre fine 
        al loro conflitto in maniera negoziale e sulla base delle risoluzioni 
        del Consiglio di Sicurezza dell'Onu 242 e 338. In quanto meccanismo di 
        risoluzione del conflitto israelo-palestinese, Oslo aveva indubbiamente 
        una dimensione locale. Tuttavia, al di là della retorica che lo ha 
        sempre accompagnato, Oslo va inteso come frutto di una nuova realtà 
        geo-politica regionale. La fine della Guerra fredda e la nuova alleanza 
        di fatto tra Israele e il fronte arabo moderato unitosi agli Stati Uniti 
        contro l'Iraq di Saddam Hussein durante la seconda Guerra del golfo 
        crearono nel 1991 le condizioni per l'apertura di un dialogo tra Israele 
        e mondo arabo e stabilirono le premesse per la creazione di un nuovo 
        assetto regionale. Oslo è il prodotto di questa visione. La necessità di 
        contenere e neutralizzare la minaccia fondamentalista rese attraente 
        l'opzione di compromesso territoriale per gli israeliani e di 
        normalizzazione con Israele per il mondo arabo. In altre parole, la 
        visione strategica di Oslo comportava la divisione del Medio Oriente in 
        tre cerchi concentrici. Il primo cerchio è il conflitto 
        israelo-palestinese sui territori occupati e sul diritto di Israele a 
        un'esistenza entro confini sicuri. Il secondo cerchio è il conflitto tra 
        Israele e i paesi arabi confinanti. Il terzo cerchio è la regione 
        intera, con le possibili nuove sfide e minacce geo-politiche provenienti 
        da oriente. Per contenere il pericolo proveniente dal terzo cerchio, 
        occorreva trasformare il secondo cerchio in una zona non conflittuale; 
        per modificare le relazioni internazionali della seconda fascia da 
        conflittuali a cooperative, occorreva necessariamente risolvere il 
        conflitto esistente all'interno del primo cerchio, cioè il conflitto 
        locale tra Israele e Palestina. Di fronte alla minaccia proveniente da 
        Oriente il prezzo del compromesso di Oslo diveniva non solo conveniente 
        ma persino desiderabile alla luce dei collaterali vantaggi 
        geo-strategici che offriva.
 
 Il prezzo di questo accomodamento reciproco per fronteggiare la minaccia 
        comune a tempi brevi passava necessariamente per un accordo pieno tra 
        Israele e l'Olp, senza il quale la pace sarebbe risultata impossibile. 
        La combinazione dei fattori sopraelencati produsse la consapevolezza del 
        governo israeliano di Rabin, eletto nel giugno 1992, che occorreva 
        raggiungere in fretta un accordo che potesse capitalizzare sul nuovo 
        assetto geo-politico della regione e potesse far fronte più 
        efficacemente alle nuove sfide strategiche all'orizzonte entro la fine 
        del millennio. Il processo di Oslo ha subìto alti e bassi, si è 
        ripetutamente incagliato su ostacoli imprevisti o volutamente posti, a 
        turno, sia dagli israeliani che dai palestinesi, e ha sofferto ritardi e 
        intoppi: il fenomeno del terrorismo suicida e la difficoltà di Arafat di 
        intervenire a prevenirlo, la continuazione della politica di 
        insediamento israeliana, l'instabilità politica israeliana di tutti gli 
        anni Novanta, l'assassinio di Rabin sono alcuni dei fattori che hanno 
        rallentato l'applicazione del processo di Oslo e che ne hanno diminuito 
        la legittimità agli occhi degli elettori israeliani e del pubblico 
        palestinese. Nonostante le dovute riserve sull'applicabilità degli 
        accordi, sulle vere intenzioni delle parti, sulla viabilità del processo 
        di Oslo, l'accordo e le conseguenze politiche da esso creato hanno 
        determinato la natura e la direzione delle trattative e dei rapporti tra 
        Israele e mondo arabo tra il 1993 e l'estate del 2000 quando, fallito 
        l'ennesimo tentativo di mediazione americana tra Siria e Israele, il 
        negoziato israelo-palestinese ritornava alla ribalta con un vertice tra 
        l'allora primo ministro israeliano Ehud Barak, il presidente americano 
        Bill Clinton, e il leader palestinese Yasser Arafat.
 
 Il vertice di Camp David, durato due settimane tra l'11 e il 25 luglio 
        2000, si concludeva con un nulla di fatto, e l'accusa del presidente 
        americano ad Arafat di essere stato il maggior responsabile del 
        fallimento di Camp David. Il vertice veniva peraltro seguito da attività 
        diplomatica tra le parti durante agosto e settembre, ma l'intero 
        edificio di Oslo entrava in crisi allorché alla fine di settembre 2000, 
        a seguito della visita di Ariel Sharon - leader del partito israeliano 
        di opposizione Likud - al Monte del Tempio/Nobile Santuario, si 
        scatenava la nuova Intifadah palestinese. Durante l'estate del 2000, 
        l'opinione pubblica israeliana era convinta che la pace fosse questione 
        di settimane, al massimo mesi, e persino dopo il ritorno dell'allora 
        primo ministro Barak da Camp David, il 60 per cento dell'elettorato 
        israeliano era pronto a sostenere un compromesso territoriale che 
        includesse la creazione di uno Stato palestinese territorialmente 
        contiguo, l'evacuazione di parte degli insediamenti israeliani nei 
        territori occupati, la divisione di Gerusalemme, e la rinuncia 
        israeliana sulla strategicamente fondamentale valle del Giordano, lungo 
        i confini con la Giordania. Anche dopo l'infruttuoso vertice l'accordo 
        appariva vicino e la società israeliana era già sintonizzata a un'era di 
        pace e cooperazione con il mondo arabo e il futuro Stato palestinese, 
        dove le centrali questioni politiche sarebbero tornate a essere 
        principalmente le questioni domestiche: identità nazionale, economia, 
        conflitti sociali, istruzione, sanità ed ambiente. Lo scoppio dell'Intifadah 
        è stata quindi una doccia fredda per i sostenitori della pace e una 
        sorpresa per molti in Medio Oriente e in Occidente, visto che nessun 
        osservatore occidentale aveva notato lo stato di ebollizione dei 
        territori occupati e pochi hanno compreso che il fallimento del vertice 
        di Camp David derivava da una sostanzialmente incolmabile distanza tra 
        le parti.
 
 Dall'estate del 2000 sono passati quasi due anni, durante i quali le 
        speranze di pace sono diventate pie illusioni. Il processo di Oslo è 
        crollato, travolto dalla nuova Intifadah palestinese, che ha prodotto 
        più di mille e cinquecento vittime da ambo le parti. La maggior parte 
        delle vittime israeliane sono civili uccisi in atti di terrorismo. La 
        maggioranza delle vittime palestinesi è composta da giovani, adolescenti 
        e bambini. Più di 10.000 palestinesi sono portatori di handicap come 
        conseguenza di ferite riportate negli scontri con l'esercito israeliano 
        e negli atti di rappresaglia contro il terrorismo. Le due economie, 
        condannate a essere interdipendenti e in larga misura integrate, hanno 
        sofferto più del dovuto, anche grazie alla globale recessione e ai 
        nefasti effetti dell'11 settembre. Lo stato d'assedio imposto da Israele 
        ai territori ha privato molti lavoratori palestinesi del sostentamento, 
        alzando drammaticamente il livello medio di disoccupazione e sussistenza 
        nei territori a oltre il 50 per cento. L'industria turistica israeliana, 
        il settore edilizio e agricolo sono bloccati e migliaia di lavoratori 
        hanno perso il posto. Il flusso degli investimenti stranieri, attirati 
        in passato dall'alta tecnologia e dall'alta concentrazione di manodopera 
        specializzata e ad alto livello di istruzione, si è momentaneamente 
        fermato. Le principali agenzie internazionali hanno abbassato il rating 
        dell'economia israeliana a causa della corrente situazione di conflitto. 
        Il mondo arabo ha reimposto il boicottaggio economico di Israele, ha 
        interrotto le relazioni diplomatiche e i contatti commerciali con lo 
        Stato ebraico, e persino Egitto e Giordania hanno richiamato i 
        rispettivi ambasciatori.
 
 Il Medio Oriente del 2002 ricorda di più quello degli anni Settanta, non 
        il "nuovo" assetto regionale che si sperava di creare dopo la fine della 
        Guerra fredda e la seconda Guerra del golfo. Oltre le familiari immagini 
        del conflitto locale tra israeliani e palestinesi si staglia minacciosa 
        l'ombra di missili ballistici intercontinentali che l'Iran otterrà entro 
        cinque anni, l'acquisizione di tecnologia nucleare in Iran, lo sviluppo 
        di tecnologia nucleare e altre armi non convenzionali in Iran e Iraq, e 
        il facile accesso ad armi non convenzionali di organizzazioni 
        terroristiche come al-Qaida. L'occasione della decade appena conclusa 
        sembra sfumata, e Oslo appare non l'inizio di una nuova èra nei rapporti 
        tra israeliani e arabi, bensì un breve e anomalo interludio nelle 
        regolari tendenze a cui la regione ci ha abituati dagli anni Trenta in 
        poi. Oltre l'orizzonte del conflitto locale si staglia la realtà del 
        nuovo Medio Oriente del ventunesimo secolo, non caratterizzato da pace, 
        frontiere aperte, cooperazione regionale e prosperità economica, bensì 
        dalla proliferazione di armi non convenzionali, dalla penetrazione del 
        fondamentalismo e da un radicalismo religioso che attraverso il 
        terrorismo minaccia vaste aree del pianeta. Gli eventi dell'11 settembre 
        sono in questo senso la cartina di tornasole del nuovo Medio Oriente, 
        eventi di cui il conflitto israelo-palestinese non è la causa né 
        tantomeno il fattore scatenante, bensì una componente collaterale minore 
        ma non per questo meno importante di un nuovo più ampio conflitto 
        geo-politico.
 
 Oslo a Camp David
 
 L'elezione di Ehud Barak, candidato laburista alla guida del governo 
        israeliano, nel maggio 1999, diede nuovo impeto al processo di Oslo e 
        alle speranze di pace della regione. Il nuovo governo, per quanto diviso 
        sulla natura del compromesso territoriale da offrire all'Autorità 
        palestinese, rappresentava senz'altro una svolta importante nella 
        ripresa dei negoziati, dopo tre anni di stallo dell'èra Netanyahu. 
        Tuttavia, la breve e illusoria opportunità presentatasi di poter 
        raggiungere un accordo di pace con la Siria nell'autunno del 1999 
        rallentò il negoziato coi palestinesi a favore della pista siriana. Solo 
        dopo il fallimento delle trattative coi siriani, naufragate al vertice 
        Clinton-Assad di Ginevra del marzo 2000, il primo ministro israeliano 
        accelerò il negoziato coi palestinesi, facendo chiara la sua intenzione 
        di arrivare a breve ai negoziati sullo status finale, che il processo di 
        Oslo aveva stabilito dovessero concludersi cinque anni dopo il periodo 
        interinale, iniziato con la firma degli accordi del Cairo a maggio del 
        1994. L'annunciato ritiro unilaterale israeliano dal Sud del Libano, e 
        la morte, tre settimane dopo, del presidente siriano Assad, rese la 
        pista siriana irrilevante per tutto il periodo di transizione al potere 
        in Siria e forse anche oltre e riportò quindi alla ribalta il processo 
        di Oslo.
 
 La creazione di canali ufficiali e più discreti (come il canale segreto 
        di Stoccolma) permisero di produrre modesti progressi, che indicarono 
        come un vertice dei leaders potesse sbloccare la situazione. Nonostante 
        le reticenze palestinesi - dovute anche al fatto che gli israeliani non 
        avevano mai attuato le clausole territoriali dell'Accordo di Wye 
        (rinegoziato a Sharm el-Sheik nel settembre 1999) e che quindi essi si 
        trovassero in una posizione negoziale particolarmente debole - il 
        vertice fu convocato per luglio 2000 a Camp David. L'esplosione di una 
        mini-Intifadah nei territori a maggio del 2000 e la rapida erosione 
        della coalizione di Barak resero comunque urgente il raggiungimento di 
        un accordo, poiché appariva chiaro che senza di esso il governo Barak 
        sarebbe uscito di scena e l'opportunità di concludere il processo di 
        Oslo sarebbe ancora una volta sfumata. In più, acuti osservatori 
        palestinesi avevano chiarito già nella primavera del 2000 che l'erosione 
        di legittimità di Arafat e lo scontento nei territori provocato sia dal 
        malgoverno dell'Autorità palestinese sia dalla mancanza di progresso sul 
        fronte diplomatico sarebbero presto sfociati nella rivolta.
 
 Il vertice, durato due settimane, fallì soprattutto per l'incapacità di 
        Arafat di cogliere l'opportunità dell'offerta israeliana. Nonostante gli 
        ovvi limiti, dal punto di vista palestinese, che tale offerta 
        presentava; da un punto di vista territoriale e politico Barak era 
        pronto sia a considerare quasi tutte le richieste palestinesi, che a 
        negoziare seriamente un'eventuale controproposta di Arafat (mai 
        avvenuta). Privo ormai di maggioranza politica in Israele, ma forte del 
        sostegno popolare, Barak era disposto a concedere su quasi tutto a Camp 
        David, pur di ottenere un accordo. I suoi limiti erano costituiti dalla 
        questione dei rifugiati, dal futuro assetto dei luoghi sacri 
        all'ebraismo e dalle considerazioni di sicurezza per lo Stato. Sul 
        fronte palestinese la mancanza di preparazione e coordinazione, le 
        rivalità interne alla delegazione, le ambiguità di Arafat, e lo scarso 
        sostegno del pubblico palestinese nei territori e nella diaspora dei 
        rifugiati, produsse un irrigidimento delle posizioni, soprattutto su 
        Gerusalemme e la questione dei rifugiati palestinesi. Timoroso di un 
        pubblico mai preparato al costo politico di un compromesso con Israele e 
        prigioniero della sua stessa retorica bellicosa che mai aveva indicato 
        ai palestinesi la necessità di rinunciare a parte del progetto politico 
        del movimento di liberazione nazionale, Arafat preferì seguire gli umori 
        della sua opinione pubblica, invece che influenzarla a seguirlo in 
        decisioni coraggiose ma dolorose, che si imponevano come prezzo per 
        ottenere uno Stato indipendente. Sulla questione territoriale l'offerta 
        israeliana si attestò intorno al 94 per cento della Cisgiordania e Gaza, 
        con disponibilità a considerare eventuali scambi territoriali a ovest 
        della linea verde in cambio del mantenimento di sovranità territoriale 
        israeliana su alcuni insediamenti (il Blocco Etzion a Sud di Betlemme, 
        Ma'aleh Adumim a Est di Gerusalemme e Ariel a Sud di Jenin), e di 
        controllo israeliano di fatto di una sottile striscia nel settore 
        settentrionale della Valle del Giordano. I palestinesi erano disposti a 
        concedere al massimo il 4 per cento, senza rinunciare alla Valle del 
        Giordano.
 
 In materia di sicurezza gli israeliani demandarono il controllo dello 
        spazio aereo palestinese e il suo uso per scopi militari (addestramento 
        e libertà d'azione in caso di emergenza/guerra); la presenza di basi e 
        stazioni militari di rilevamento radar nella Cisgiordania; la completa 
        demilitarizzazione dello Stato palestinese. I palestinesi accettarono in 
        parte tali condizioni, pur ponendo riserve sulla questione dello spazio 
        aereo, e della natura della presenza militare all'interno del loro 
        territorio, preferendo osservatori internazionali. Se su tali questioni 
        l'accordo poteva essere raggiunto, su Gerusalemme e sui rifugiati 
        l'irrigidimento della posizione palestinese dimostra non soltanto una 
        forte dipendenza dalle pressioni del mondo arabo e della comunità 
        palestinese nella diaspora, ma anche una ambiguità che indica come le 
        differenze tra le parti fossero probabilmente incolmabili. Su 
        Gerusalemme il nodo cruciale era la città vecchia e il controllo dei 
        luoghi santi, più facile la divisione tra quartieri arabi ed ebraici. 
        Entrambe le parti accettarono che i quartieri cristiano e mussulmano 
        diventassero palestinesi, che il quartiere ebraico con il Muro del 
        Pianto rimanesse israeliano eche vi fosse qualche sorta di spartizione 
        del quartiere armeno che garantisse a Israele un corridoio di accesso al 
        quartiere ebraico. Ma per quanto riguarda il luogo santo comune a ebrei 
        e musulmani - il Monte del Tempio/Nobile Santuario - le successive 
        offerte israeliane di condominio, sovranità di fatto, sovranità del 
        suolo ai palestinesi e del sottosuolo a Israele, furono tutte rifiutate.
 
 Sui rifugiati l'offerta israeliana di accogliere circa 50.000 rifugiati 
        palestinesi nel corso di dieci anni come atto umanitario, unita alla 
        disponibilità di contribuire generosamente a un fondo internazionale per 
        l'assorbimento dei rimanenti rifugiati nello Stato palestinese o 
        altrove, fu rifiutata. La richiesta israeliana di includere nella 
        questione rifugiati anche il risarcimento di 700.000 rifugiati ebrei 
        espulsi dai paesi arabi dopo la guerra del 1948 e assorbiti da Israele 
        fu anch'essa rigettata da parte palestinese. I palestinesi per contro 
        richiesero che gli israeliani riconoscessero una piena ed esclusiva 
        responsabilità nella creazione del problema dei rifugiati palestinesi a 
        seguito della guerra del 1948, concedessero almeno come principio il 
        "diritto al ritorno" dei rifugiati e dei loro discendenti in Israele 
        (circa 4 milioni), e si impegnassero a pagare il costo della loro 
        integrazione. Al lato pratico il numero di rifugiati che Israele avrebbe 
        dovuto assorbire si attestava, secondo le richieste palestinesi, intorno 
        al mezzo milione a breve termine. La distanza tra le due posizioni, non 
        eccessiva e forse percorribile in termini territoriali, era senz'altro 
        incolmabile in termini esistenziali, sia sulla questione simbolica di 
        Gerusalemme, sia sulla questione più tangibile e sostanziale della 
        natura e assetto demografico dei due stati al termine del negoziato. 
        Infatti, se Israele si fosse preso la responsabilità del problema dei 
        rifugiati e avesse loro riconosciuto un 'diritto al ritorno' non v'è 
        garanzia che i 3-4 milioni di persone registrate presso l'Unrwa come 
        rifugiati palestinesi non ne avrebbero fatto uso. L'afflusso di 
        rifugiati palestinesi in Israele, cosa demandata con insistenza da parte 
        palestinese e araba fino ad oggi, significherebbe nel lungo periodo la 
        modifica dell'equilibrio demografico all'interno di Israele, con la fine 
        entro un decennio dell'esistenza di una maggioranza ebraica nel paese, 
        la conseguente fine dell'esistenza di uno Stato ebraico e la 
        trasformazione di Israele in una seconda Palestina, accanto allo Stato 
        palestinese che sarebbe dovuto sorgere su Cisgiordania e Gaza a termine 
        del negoziato di Oslo. La questione dei rifugiati, più di ogni altra 
        cosa, ha creato dopo Camp David l'impressione condivisa da gran parte 
        del pubblico israeliano, che la posizione palestinese riflettesse il 
        desiderio nel lungo periodo di distruggere Israele - non più attraverso 
        la lotta armata proclamata dall'Olp negli anni Sessanta, ma con l'arma 
        demografica.
 
 L'Intifadah al-Aqsa
 
 Il vertice di Camp David non fermò il dialogo tra le parti, che continuò 
        in maniera più discreta durante agosto e settembre con piccoli passi 
        avanti. A livello pubblico e internazionale però la pressione crebbe 
        principalmente su Arafat, visto come il principale responsabile del 
        fallimento dei negoziati. Messo all'indice, Arafat trascorse la più 
        parte dell'estate a cercare consensi e sostegno politico nel mondo arabo 
        e islamico, cosa che peraltro venne a mancare. Fu questa situazione di 
        quasi stallo nei negoziati, fragilità politica del governo Barak e 
        isolamento diplomatico di Arafat a far da cornice all'Intifadah, 
        scoppiata il 29 settembre 2000, all'indomani della visita del leader 
        dell'opposizione israeliana Sharon al Monte del Tempio/Nobile Santuario. 
        La visita fu permessa da Barak dopo essersi consultato coi palestinesi, 
        che al momento non posero obiezioni. Avendo annunciato pubblicamente la 
        sua intenzione di dividere Gerusalemme coi palestinesi, Barak non poteva 
        impedire la visita di Sharon, capo dell'opposizione, al luogo simbolo 
        dell'ebraismo. La visita per altro apparve al pubblico palestinese come 
        una provocazione e servì da casus belli. Le ripetute e sostanziate 
        accuse israeliane ad Arafat di avere volutamente innescato la crisi e 
        pianificato la rivolta a partire dal fallimento dei negoziati di luglio 
        non convincono completamente, dato che esistono moltissime prove che una 
        rivolta poteva scoppiare in qualsiasi momento e visto che la rivolta si 
        è rapidamente trasformata in aperta sfida ad Arafat stesso e alla sua 
        autorità.
 
 Probabilmente non si saprà mai quanto attivo sia stato il suo ruolo 
        nello scatenare la nuova Intifadah. Una cosa però è certa: una volta 
        scoppiata la rivolta, Arafat ne vide gli indubbi vantaggi, e cercò 
        politicamente di sfruttare la situazione a beneficio della posizione 
        palestinese. Se fino a fine settembre Arafat era stato accusato del 
        fallimento dei negoziati e Israele godeva di credito diplomatico per 
        aver fatto il possibile per raggiungere un accordo, il rinnovo dello 
        scontro militare impari tra palestinesi e israeliani permise nelle prime 
        settimane dell'Intifadah di cambiare completamente l'immagine delle due 
        parti, con Israele di nuovo nella parte dell'oppressore e Arafat nel 
        ruolo del leader guerrigliero impegnato in una giusta lotta di 
        liberazione nazionale. Il prezzo politico per riguadagnare il favore 
        diplomatico è stato però enorme, ed esistono seri dubbi che Arafat abbia 
        valutato le possibili conseguenze della sua scelta di sostenere, sia pur 
        tacitamente la nuova Intifadah. Forse il ritorno alla trattativa senza 
        tangibili risultati priverebbe Arafat di legittimità: da qui 
        l'impossibilità (e la mancanza di volontà) del leader palestinese di 
        riuscire a interrompere la rivolta. Da beneficiario della situazione, 
        Arafat ne è divenuto gradualmente ostaggio.
 
 L'enorme pressione su Israele e la unanime condanna internazionale delle 
        reazioni militari israeliane alla rivolta avrebbero potuto fruttare ad 
        Arafat molti punti sul terreno diplomatico, e spinto Israele a maggiori 
        concessioni. In due occasioni, al vertice di Parigi dell'8 ottobre e al 
        vertice di Sharm el-Sheik del 17 ottobre, Arafat ebbe l'occasione di 
        riportare Israele al tavolo negoziale dietro pressione internazionale, 
        di capitalizzare sul prezzo di sangue pagato nelle prime settimane di 
        scontri, in cambio di un risoluto intervento per arrestare la violenza 
        nei territori. Forse convinto che la continuazione della violenza 
        avrebbe ottenuto risultati ancora migliori, Arafat decise di non 
        intervenire nel modo previsto dagli accordi. La scelta di Arafat di 
        proseguire nel conflitto rimane a tutt'oggi un enigma, e si possono dare 
        tre risposte, non necessariamente alternative: 1) Il ritiro israeliano 
        dal Libano è stato visto dai palestinesi, erroneamente, come un modello 
        da imitare: solo sotto la pressione della violenza e delle perdite umane 
        Israele avrebbe concesso quanto non era disposto a offrire in un 
        negoziato diplomatico. Tale lettura della situazione scoraggia 
        un'interruzione delle ostilità che preceda il ritiro israeliano dai 
        territori occupati. 2) La mancanza di legittimità nel concludere un 
        accordo con Israele poteva essere riguadagnata con un alto prezzo di 
        sangue sul campo che creasse il mito di una guerra di indipendenza vinta 
        contro un nemico superiore, al posto di uno Stato ottenuto per grazia 
        ricevuta da un nemico vittorioso alle condizioni da esso imposte. Per 
        poterne essere leader, Arafat doveva essere visto come colui che 
        capeggia la rivolta, o almeno doveva evitare di ostacolarla. 3) La 
        continuazione della violenza con il rischio di escalation avrebbe potuto 
        condurre alla regionalizzazione del conflitto o alla sua 
        internazionalizzazione, con intervento esterno europeo ed americano e 
        soluzione imposta con la forza di osservatori e sanzioni a Israele; tale 
        soluzione sarebbe stata più favorevole alla posizione palestinese che 
        non a quella israeliana.
 
 Tutte e tre le spiegazioni sono plausibili e non si contraddicono. 
        Convinto che la continuazione del conflitto avrebbe ottenuto ulteriori 
        concessioni israeliane, un possibile coinvolgimento internazionale a 
        favore dei palestinesi, un eventuale intervento diretto del mondo arabo, 
        e una riaffermazione di dignità palestinese, Arafat preferì 
        probabilmente temporeggiare e attendere l'ottenimento di tangibili 
        risultati prima di intervenire a interrompere la rivolta. Ciò che è 
        sicuro è che per permettere all'Intifadah di raggiungere gli obiettivi 
        prefissi, senza che Arafat venisse accusato dalla comunità 
        internazionale di essere responsabile della situazione, Arafat ha deciso 
        di rinunciare al monopolio della forza nelle aree sotto il suo controllo 
        e giurisdizione. Nel fare ciò ha delegato a forze come Hamas e la Jihad 
        el-Islami, e alle milizie paramilitari a lui vicine di al-Fatah e del 
        Tanzim la funzione di combattenti. Questa decisione ha aperto un vaso di 
        pandora che difficilmente può essere ora richiuso. Tali organizzazioni, 
        infatti, hanno acquistato sempre maggior autonomia operativa e 
        decisionale, mentre i loro leaders hanno visto la propria legittimità 
        politica e il proprio seguito accrescere. Quindi la loro disponibilità 
        ad accettare direttive e limitazioni imposte da Arafat si è man mano 
        ridotta. La situazione che ne è derivata è di un'erosione dell'autorità 
        di Arafat e del suo Stato in fieri, dell'apparizione di nuovi leaders la 
        cui legittimità e credibilità è stata conquistata sul campo e che mette 
        in discussione, e limita fortemente, l'autorità e la legittimità di 
        Arafat di interrompere la rivolta e ritornare al negoziato. A quasi due 
        anni dallo scoppio dell'Intifadah, la rivolta ha conquistato una sua 
        autonomia e ragion d'essere che impedisce ad Arafat, anche se lo 
        volesse, di interromperla, a meno che non sia disposto a pagare 
        l'altissimo e rischioso prezzo di una guerra civile palestinese. Da qui 
        la situazione di impasse attuale, dove non si può sperare in un ritorno 
        al negoziato né, tantomeno, alla fine della violenza.
 
 La politica di Sharon
 
 Il governo Sharon si è trovato a far fronte a una situazione 
        ingestibile, dove la pressione internazionale e locale a riattivare il 
        processo di Oslo andava necessariamente equilibrata dall'obbligo di ogni 
        governo di proteggere i propri cittadini. Le misure per ristabilire la 
        sicurezza nella vita quotidiana di Israele divennero la priorità del 
        governo, mentre la possibilità di riaprire il negoziato non poteva 
        essere esclusa a priori, pena l'isolamento diplomatico. Va da sè che 
        questo fattore imponeva dei limiti al tipo di responso militare adottato 
        da Israele. Sharon ha quindi mantenuto una posizione principalmente 
        reattiva, lasciando ai palestinesi l'iniziativa, ma rispondendo alla 
        violenza con un'escalation graduale sia militare che simbolica. Le 
        rappresaglie si sono intensificate, la politica di uccisioni mirate è 
        continuata, e l'esercito ha stretto l'assedio alle città palestinesi in 
        maniera sempre più dura. La libertà di movimento di Arafat è stata 
        progressivamente limitata, fino al forzato arresto domiciliare a 
        Ramallah, e dopo mesi di disattese promesse di azione contro il 
        terrorismo, Sharon ha dato mano libera all'esercito di entrare nei campi 
        profughi a rastrellare armi illegali e terroristi. Oggi più che mai il 
        Medio Oriente necessita di terapie d'urto. La crescente tensione che è 
        palpabile in tutto il mondo arabo potrebbe non tardare ad esplodere e a 
        ritorcersi contro gli attuali governanti: la rabbia difficilmente porta 
        pazienza. In tutto questo, Israele e gli Usa sono diventati i facili 
        bersagli del rancore popolare non perché esista un rapporto di causa 
        effetto tra questi due paesi e la povertà, umiliazione e ingiustizia di 
        cui soffrono le società mediorientali.
 
 Paradossalmente si potrebbe dire che forse se Israele non esistesse, il 
        mondo arabo avrebbe dovuto inventarla. E che se il conflitto con Israele 
        terminasse, le èlites al potere dovrebbero fare i conti con lo stato di 
        salute delle loro società, la cui cura con tutta probabilità ne mette a 
        rischio il potere. Paradossalmente quindi, la continuazione del 
        conflitto serve come scusa ai governanti arabi per non adottare le 
        necessarie riforme, e per rimanere così saldamente al potere. L'ostacolo 
        principale al nuovo Medio Oriente oggi è la difficoltà di buona parte 
        del mondo arabo di riformarsi e di affrontare le sfide poste dalla 
        globalizzazione economica e dalla modernità che l'accompagna. Chi nel 
        mondo arabo abbraccia questi valori e teme il fondamentalismo e le sue 
        conseguenze, non potrà, dopo l'11 settembre, continuare a trovare scuse 
        dietro l'ingiustizia. La soluzione del conflitto israelo-palestinese in 
        termini di compromesso territoriale è un principio sacrosanto da 
        sottoscrivere in maniera incondizionata. Ma nel lungo periodo 
        l'imposizione di questa soluzione a Israele senza che la regione accetti 
        di unirsi all'Occidente e alle sfide che tale scelta comporta non fa 
        altro che rimandare il prossimo scontro militare tra Israele e paesi 
        limitrofi, questa volta in una regione animata da sentimenti estremi, 
        popolata da milioni di disperati, e guidata da regimi privi di 
        legittimità ma dotati di armi non convenzionali. E l'onda lunga di tale 
        conflagrazione non tarderebbe ad inondare anche l'Europa.
 
 7 giugno 2002
 
 (da ideazione 3-2002, maggio-giugno)
 
 
 
 |