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        L'Europa alla prova della riunificazionedi Pieluigi Mennitti
 
 La Commissione europea ha dato il via libera all’ingresso nell’Unione 
        Europea di 10 dei 12 paesi candidati. Dal 2004 l’Unione conterà 25 
        membri con l’aggiunta di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, 
        Slovenia, Lituania, Lettonia, Estonia, Cipro e Malta. Due i paesi 
        rimandati, Romania e Bulgaria: se i loro conti saranno in ordine, 
        potranno agganciare l’Unione nel 2007. Sul tema dell’allargamento 
        pubblichiamo questo articolo di approfondimento apparso sulla rivista 
        cartacea Ideazione, attualmente in edicola.
 
 
 “L’allargamento significa l’unificazione dell’Europa. Sono convinto che 
        sia la vera risposta alla sfida del 1989, quando il comunismo è caduto e 
        i Paesi dell’Europa centrale hanno ritrovato indipendenza e democrazia”. 
        L’invito a inquadrare sul piano storico e politico l’argomento che va 
        sotto il burocratico termine di “allargamento dell’Unione europea” viene 
        da uno storico polacco, Bronislaw Geremek, uno dei padri nobili della 
        stagione di Solidarnosc. Un intellettuale del Novecento che ha 
        attraversato in prima persona le tragedie e le speranze del “secolo del 
        male”: dall’infanzia nel Ghetto di Varsavia alla fuga dall’Olocausto, 
        dall’adesione al comunismo alla rottura dopo la Primavera di Praga, 
        dalle barricate sui cantieri navali di Danzica alla collaborazione 
        politica con Lech Walesa. È stato lui, con un’approfondita intervista 
        concessa lo scorso agosto al quotidiano francese Le Figaro a riportare 
        la questione “allargamento” fuori dalla monotonia di parametri, cifre, 
        dossier e formulari e a ricondurla sui binari di un sano percorso 
        politico: “I nostri Paesi hanno sofferto in maniera differente negli 
        scorsi decenni. Hanno lottato per la loro indipendenza puntando ogni 
        speranza sull’Europa. Ciò che noi apportiamo all’Unione europea è molto 
        più che un grande mercato, è un messaggio di speranza […] e una volontà 
        politica di essere in Europa e di costruire una comunità forte”. E 
        conclude: “Con noi l’Unione europea potrà più facilmente ritrovare 
        quella energia creatrice che l’animò alle origini”.
 
 E’ una sorta di invito a riannodare le fila della storia, quello che 
        propone Geremek e con lui tutta una serie di intellettuali e politici 
        che temono l’aridità dei processi burocratici che governano l’Unione e 
        individuano nelle trappole delle eterne contrattazioni e dei singoli 
        egoismi il pericolo che tutto il processo messo in moto nel 1989 possa 
        naufragare, magari per un punto in più o in meno nella quota di 
        sostentamento all’agricoltura di un Paese membro. È un invito a tornare 
        non solo all’energia creativa delle origini del progetto europeo ma 
        anche al più recente percorso politico di Kohl e Mitterrand che, 
        bilanciando esigenze di riunificazioni e allargamenti, rese l’Europa 
        protagonista dei cambiamenti epocali della fine dello scorso secolo e 
        mise in moto il processo che oggi ci ha dato una moneta unica e domani 
        ci consegnerà un continente unito, dall’Atlantico ai Carpazi.
 
 Dieci nuovi membri, due in attesa
 
 L’allargamento dell’Unione europea stenta ad essere considerato 
        dall’opinione pubblica comunitaria argomento centrale del proprio 
        dibattito. Alle prese con le conseguenze dell’introduzione dell’euro, il 
        cui successo non sembra ancora dispiegare l’ottimismo che pure ci si 
        aspetterebbe, pochi si stanno già confrontando con gli straordinari 
        scenari che si dischiuderanno il primo gennaio del 2004, quando dieci 
        dei dodici Paesi candidati supereranno l’esame di ammissione. La 
        decisione verrà presa fra poche settimane, nel mese di ottobre, per 
        essere poi ratificata con una cerimonia solenne nel vertice europeo di 
        dicembre a Copenaghen. Ma gli orientamenti sono già chiari e non ci 
        saranno sorprese dell’ultima ora. L’Unione europea passerà da quindici a 
        venticinque membri. Entreranno a farne parte Polonia, Ungheria, 
        Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Estonia, Lettonia, Lituania, 
        Slovenia, Malta e Cipro. Per gli altri due Paesi candidati ancora in 
        ritardo nel processo di integrazione, Romania e Bulgaria, verranno prese 
        decisioni specifiche per un supplemento di tempo: entreranno più in là 
        nei modi e nei tempi che verranno stabiliti nei prossimi mesi.
 
 Per i Paesi promossi siamo dunque alla stretta finale nel completamento 
        dei dossier che compongono la lunga procedura di adeguamento delle 
        strutture politiche, legislative, economiche e sociali a quelle in 
        vigore nell’area Ue. Poi sarà il turno delle ratifiche da parte di 
        ciascun nuovo membro, un passaggio assai delicato. Per i Paesi 
        rimandati, invece, si tratterà di completare l’apertura di tutti i 
        dossier e di procedere rapidamente alla loro chiusura e – soprattutto – 
        alla concreta applicazione delle nuove direttive in materia economica, 
        finanziaria e nel campo dell’assistenza (particolarmente rilevante è il 
        problema dell’infanzia in Romania) e dei diritti civili: dipenderà da 
        questa buona volontà la possibilità (auspicabile) di individuare sin da 
        ora un calendario definito per l’ingresso nell’Unione dell’area 
        balcanica. Da un punto di vista politico, demografico ed economico, 
        l’allargamento rappresenta un salto enorme, una svolta d’importanza pari 
        (se non superiore) a quella dell’introduzione della moneta unica. Ma 
        sbaglieremmo a confrontare questi due passaggi, che si configurano 
        altrimenti come due tasselli conseguenziali nella costruzione di 
        un’Europa sempre più unita.
 
 I nuovi equilibri geo-politici
 
 Sul piano geo-politico, si concretizza quello spostamento ad Est del 
        baricentro continentale già iniziato con l’inglobamento – via Bonn – dei 
        cinque nuovi länder tedeschi che costituivano la vecchia Ddr. Con lo 
        slittamento delle frontiere orientali di circa 1.000 chilometri 
        (contando come punto estremo la nuova frontiera di Narva, tra Estonia e 
        Russia) perdono posizione centrale, dal punto di vista geografico, Paesi 
        come la Francia, la Spagna, l’area Benelux, mentre l’Inghilterra (che 
        pure appare avviata a un’integrazione sempre più stretta con la Ue) si 
        aggrappa ancora alla sua funzione di cerniera con l’alleato americano. 
        Scoprono un ruolo di primo piano Paesi come la Germania, l’Italia, 
        l’Austria e le nazioni scandinave che ritrovano d’un colpo i Paesi della 
        sponda meridionale del mar Baltico. Si ricompatta la vecchia Europa 
        centrale, con Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria che si scrollano di 
        dosso il fardello geo-politico dell’Est. E s’intravvede anche un 
        embrione della vecchia Mitteleuropa con la fusione di commerci, uomini, 
        rotte e infrastrutture da Trieste a Lubiana, da Budapest a Timisoara, a 
        Vienna, Praga e Bratislava.
 
 Anche per l’Italia si aprono prospettive nuove. Non ci sarà più un 
        confine Nord-orientale, grazie alla Slovenia. E con il futuro ingresso 
        di Romania e Bulgaria, anche la frontiera balcanica appare oggi molto 
        meno incerta. Questo primo allargamento non coinvolge in maniera piena i 
        nostri interessi nell’Europa Sud-orientale ma indica con chiarezza che 
        la strada è segnata e che dopo l’Europa centrale dovrà essere il turno 
        di quella balcanica, della Romania, della Bulgaria e perché no, anche 
        della Croazia, con l’occhio lungimirante alla Serbia, alla Bosnia e 
        all’Albania (tutte nazioni già interessate dal Patto di stabilità per 
        l’Europa Sud-orientale promosso nel 1999 dall’Ue). Come si è visto per i 
        primi dieci Paesi dell’allargamento, il vincolo esterno dell’Europa è un 
        formidabile medicinale per mettere ordine nelle finanze, nelle economie 
        e nelle istituzioni degli Stati che intendono aderire. E si può 
        sostenere che senza questo vincolo, nei Paesi di questo primo 
        allargamento, i tempi del passaggio dalle economie di piano a quelle di 
        mercato, dai regimi comunisti a quelli democratici, sarebbero stati 
        molto più lunghi.
 
 I mille volti dell’Est
 
 Ma cosa è diventata l’Europa centro-orientale tredici anni dopo il 
        crollo dei regimi comunisti? Quali trasformazioni ha vissuto, che grado 
        di omogeneità ha raggiunto con la metà d’Occidente? In sostanza, che 
        tipo di Paesi si presentano all’appuntamento con l’Unione? Se già 
        nell’era sovietica quelli satelliti presentavano marcate differenze 
        sotto un’apparente uniformità, nel decennio successivo al crollo del 
        sistema comunista si è assistito all’emergere di ulteriori squilibri. 
        Percorrendo oggi le strade dell’altra Europa con il taccuino del 
        cronista in mano si ha la conferma di un enorme miglioramento. Cadono 
        molti pregiudizi sull’Est che ancora alimentano la disattenta stampa 
        occidentale. Dalla Polonia all’Estonia, dalla Repubblica Ceca 
        all’Ungheria si viaggia attraverso un’Europa assai simile a quella 
        occidentale, che negli ultimi anni ha vissuto un vero boom economico, 
        con tutti i limiti, ma anche con tutte le potenzialità che le fasi di 
        crescita tumultuosa presentano.
 
 La cosa che colpisce di più è il colore che ravviva le città e le genti 
        che vivono queste zone d’Europa. Il grigiore che scandiva il monotono 
        tempo dell’era comunista è svanito, cancellato dai restauri dei palazzi, 
        dal recupero delle piazze, dall’apertura dei negozi, dalla moda venuta 
        dall’Occidente. Una ventata d’allegria ha cambiato il volto dell’ex 
        Europa dell’Est, restituendo a queste genti l’orgoglio di 
        un’appartenenza continentale che va al di là dello stipendio medio 
        mensile. Le statistiche registrano un maggiore benessere, ma questo 
        recupero d’Europa non è tanto nelle cifre dell’economia, è nei 
        comportamenti quotidiani, nell’orgoglio dei cittadini, nell’ottimismo 
        dei giovani Queste nazioni sono già tornate in Occidente, prima che 
        Bruxelles certifichi la fine del purgatorio post-comunista.
 
 Permane una diversità di condizioni tra Stato e Stato, ma spesso anche 
        tra regioni all’interno di uno stesso Stato. I processi economici della 
        nuova era si sono in alcuni casi sovrapposti a quelli pre-esistenti in 
        epoca socialista. Nella provincia ungherese di Székesfehérvàr (50 
        chilometri a Sud di Budapest), ad esempio, la specializzazione degli 
        operai nel settore tecnologico ha permesso, una volta dismesse le 
        obsolete fabbriche di televisori di Stato, l’intervento massiccio di 
        multinazionali occidentali che hanno trovato manodopera qualificata e 
        una discreta rete di infrastrutture, determinando la nascita di uno dei 
        poli tecnologici più interessanti dell’Europa dell’Est. Ai successi 
        economici dei Paesi baltici, dell’Estonia in particolare, della Polonia, 
        della Repubblica Ceca, dell’Ungheria e della Slovenia, si contrappone 
        invece la lunga recessione che ha investito la Romania e lo stallo della 
        Bulgaria. Uno squilibrio evidente che si avverte ad occhio nudo 
        attraversando le frontiere. Il passaggio al punto di confine di Bors, 
        fra Ungheria e Romania, è anche un salto temporale, indietro di 
        vent’anni, oltre che un chiaro salto geografico: di qua l’Europa 
        centrale, con la sua tradizione austroungarica che riemerge dopo il 
        lungo inverno dei totalitarismi del secolo; di là il mondo balcanico con 
        i suoi ritardi, la sua vita effervescente ma caotica, il suo capitalismo 
        da bazaar.
 
 Tali squilibri, che si vanno accentuando man mano che chi ha superato la 
        fase critica continua a crescere e chi rimane indietro continua ad 
        annaspare, sono stati determinati da una serie di circostanze che gli 
        economisti riconducono a quattro fattori precisi: a) la capacità di 
        introdurre elementi di regolazione necessari per far funzionare il 
        mercato, offrendo certezze e garanzie alla proprietà immobiliare, a 
        produttori, a consumatori e a investitori; b) il grado di apertura agli 
        investimenti diretti esteri; c) il grado di attuazione delle 
        raccomandazioni provenienti dalle istituzioni finanziarie 
        internazionali, in termini di smantellamento di meccanismi di 
        sovvenzione alle imprese, di liberalizzazione di mercati di beni e 
        servizi, della concreta attuazione di politiche economiche di riduzione 
        dell’inflazione, del debito pubblico e del debito estero; d) il grado di 
        stabilità politica, intesa essenzialmente come stabilità istituzionale, 
        come rispetto delle decisioni prese nel tempo a prescindere dal cambio 
        delle maggioranze parlamentari.
 
 Adattando questo schema teorico alla realtà dell’Europa 
        centro-orientale, è facile scoprire come i Paesi più avanzati siano 
        quelli nei quali le riforme finalizzate all’economia di mercato e al 
        regime politico democratico sono state più rapide: gli inevitabili 
        prezzi in termini di occupazione e reddito sono stati pagati subito, con 
        la crisi degli anni 1992-1995, e oggi, a tredici anni dagli eventi del 
        1989, questi Paesi possono dire di aver gettato alle spalle la tragica 
        eredità del comunismo. Altrove non è stato così: la Romania, ad esempio, 
        ha atteso troppo tempo prima di avviare le riforme e oggi paga questo 
        ritardo in termini di ricchezza economica e di democrazia interna.
 
 Un altro elemento che accentua nuovi squilibri è quello geografico. 
        Prendendo come riferimento l’intera area dei Paesi dell’allargamento, è 
        la zona nord-occidentale a crescere con maggiore velocità, in quanto più 
        vicina ai mercati di sbocco dell’Europa ricca che hanno sostituito i 
        mercati di sbocco del vecchio Comecon. Inoltre, proprio per questa 
        maggiore prossimità è favorita nella delocalizzazione parziale o totale 
        di produzioni delle aziende occidentali e nell’avvio di investimenti più 
        impegnativi. L’Estonia beneficia, dunque, della vicinanza dell’area 
        scandinava, la Polonia occidentale risente del magnete tedesco assai più 
        della sua parte orientale, la Repubblica Ceca è più ricca della 
        Repubblica Slovacca, l’Ungheria ripropone al suo interno lo stesso 
        squilibrio tra Ovest ed Est della Polonia e le province rumene 
        occidentali di Arad e Timisoara, centri della delocalizzazione delle 
        piccole imprese venete, sono le più sviluppate di tutto il Paese.
 
 Le tre Europe dell’Est
 
 Nel complesso, tuttavia, il quadro presenta molti elementi positivi. 
        Tutte le economie, anche quelle più indietro, non sono più ai livelli 
        del 1989 e hanno superato (o si apprestano a superare, se le riforme 
        avviate non saranno rallentate) le dure conseguenze delle 
        ristrutturazioni. Ai confini dell’Europa ricca e post-industriale si può 
        già scorgere un’Europa-officina, capace di attirare investimenti 
        occidentali non solo per il costo del lavoro più basso ma anche per una 
        riconosciuta qualità della sua manodopera, per una sviluppata rete di 
        infrastrutture e per un ambiente che diventa sempre più favorevole alla 
        crescita imprenditoriale. E’ l’Europa centrale che si snoda dal Baltico 
        all’Adriatico, da Tallin a Lubiana, passando per Varsavia, Praga e 
        Budapest. Più a Est cresce un’Europa dove vengono decentrate le fasi di 
        produzione di beni di largo consumo tradizionali, che necessitano un più 
        intenso impiego di forza-lavoro. E’ l’Europa-laboratorio, che ha il 
        cuore in Romania e Bulgaria e prolunga i suoi confini verso Sud, fino a 
        Tirana e verso Nord fino a Kiev. C’è poi ancora un’altra Europa, 
        dispersa tra le steppe della Russia e i monti della Serbia e del 
        Montenegro: un’Europa lontana per incertezze politiche oltre che 
        economiche. Ma anche questa terza Europa dell’Est è in movimento e, tra 
        molti anni, l’Ue potrebbe esercitarvi la sua forza di attrazione.
 
 Per il momento l’Unione deve attrezzarsi per il primo, importante 
        allargamento. L’integrazione di dieci nuovi membri pone problemi 
        istituzionali di grande rilievo. La Convenzione europea, inaugurata 
        solennemente all’inizio di quest’anno, ha tempi stretti per definire la 
        nuova architettura costituzionale che dovrebbe garantire l’efficacia di 
        un’Unione estesa a venticinque (e fra qualche anno a ventisette) membri. 
        Ad essa spetta un compito estremamente delicato, giacché dovrà far 
        combaciare esigenze che potrebbero risultare in contrasto fra di loro: 
        l’allargamento dei confini con un più accentuato profilo istituzionale, 
        l’aumento del numero dei Paesi membri con una maggiore efficacia 
        operativa, un’accresciuta frammentazione delle posizioni con lo sviluppo 
        e il consolidamento della dimensione politica dell’Unione. Bisognerà 
        seguire con grande attenzione il lavoro della Convenzione perché un 
        errato progetto istituzionale potrebbe far fallire anche il migliore dei 
        progetti politici. E gli Stati dell’Unione, con i destini così legati 
        tra loro, non possono permetterselo.
 
 11 ottobre 2002
 
 (da Ideazione 5-2002, settembre-ottobre)
 
 pmennitti@ideazione.com
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