Usa. Una politica estera per cambiare il mondo
di Giuseppe Mancini
Il documento sulla National Security Strategy degli Stati Uniti,
ufficialmente presentata dal presidente Bush lo scorso 17 settembre,
traccia le linee guida che orienteranno la politica estera americana
nell’immediato futuro. Obiettivi e modalità d’azione vengono presentati
in modo chiaro e incisivo, senza troppe concessioni alla retorica: “Noi
difenderemo la pace combattendo terroristi e tiranni. Noi preserveremo
la pace costruendo buone relazioni con le grandi potenze. Noi
estenderemo la pace incoraggiando su ogni continente società aperte e
libere”. La pace americana; una pace che, per i critici, è un ambizioso
e coerente progetto di dominio mondiale. In realtà, ciò che colpisce
della nuova Strategia per la sicurezza nazionale è la convivenza tra
finalità, esigenze, disegni diversi, a volte persino contradditori:
dalla difesa degli interessi nazionali (soprattutto energetici)
all’esportazione su scala mondiale della democrazia e del libero
mercato, dal desiderio di cooperazione con le altre (potenziali, come
Russia e Cina) grandi potenze alla rivendicazione di una supremazia
militare da difendere a ogni costo, dal multilateralismo (con l’Onu e la
Nato) all’unilateralismo, dalla deterrenza agli attacchi preventivi
(pre-emptive).
Attacchi preventivi che, come ricorda Max Boot del Council on Foreign
Relations, non sono una novità nella storia – lontana e recente – degli
Stati Uniti: dal 1798 al 1934, ad esempio, si contano circa 180 azioni
all’estero dei marines, compresa l’occupazione di Haiti e della
Repubblica Dominicana nel 1915 e 1916 in funzione antitedesca; oppure,
in tempi a noi più vicini, come gli interventi sempre nella Repubblica
Dominicana (1965) e a Grenada (1983). Attacchi preventivi che,
soprattutto, sarebbero la strategia più adeguata, ancorché legalmente
discutibile (sul piano del diritto internazionale), per contrastare la
proliferazione delle armi di distruzione di massa.
La tesi della persistenza della prassi dell’attacco preventivo nella
storia americana è ribadita da Walter Russell Mead, anch’egli membro del
Council on Foreign Relations. Russell Mead, però, offre soprattutto una
spiegazione dei motivi che hanno reso la politica estera così efficace e
del tutto particolare: una sintesi sempre in equilibrio dinamico tra
quattro diverse scuole di pensiero, di quattro diversi approcci al mondo
della politica internazionale. Quattro tendenze che, per semplicità
espositiva, nel libro dal titolo Special Providence. American Foreign
Policy and How it Changed the World vengono indicate con gli
Hamiltoniani, fautori della libertà di navigazione e dei mercati aperti;
i Wilsoniani, fautori della promozione all’estero della democrazia e dei
diritti dell’uomo; i Jeffersoniani, cauti nell’impegno internazionale e
convinti del ruolo degli Stati Uniti come esempio da imitare e non come
modello da imporre; i Jacksoniani, anch’essi poco propensi
all’avventurismo in terre straniere, ma bellicosi in caso di necessità.
Dalla ricombinazione continua, dai rapporti sempre in armonica
evoluzione tra queste tendenze, per l’appunto, nasce la politica estera
americana. Una politica estera che, oggi, oltre a proteggere gli Stati
Uniti eliminando i suoi nemici, vuole cambiare il mondo.
29 ottobre 2002
giuse.mancini@libero.it
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