L’Europa come destino
di Marcello Pera
Alla fine degli anni Ottanta e nei primi anni del decennio successivo,
il dibattito sull’Europa unita ha subito una profonda modificazione per
tre precisi motivi. 1) La fine della Guerra Fredda ha determinato la
rottura di una consolidata stabilità internazionale ed anche l’Europa ha
dovuto rivedere i suoi equilibri sia interni che esterni. All’interno si
è affievolita la centralità dell’asse franco-tedesco, intorno al quale
per oltre un cinquantennio ogni ipotesi d’integrazione è avanzata.
All’esterno è divenuta superflua – soprattutto dopo l’11 settembre –
ogni ragione di immaginare la propria collocazione in rapporto
all’equilibrio bipolare, o anche soltanto al suo “residuo”. Si tratta,
dunque, di pensare ad un’Europa nuova in un ordine mondiale nuovo ed
ancora da stabilizzare. 2) La disgregazione dell’impero sovietico ha
posto l’esigenza pratica di un allargamento ben più cospicuo di quelli
praticati a partire dagli anni Settanta, per offrire ai Paesi dell’Est
ex satelliti sovietici un punto di riferimento e di ancoraggio. L’Europa
dei Sei è un ricordo del passato. Così come quella dei Tredici. Ogni
progetto politico ed istituzionale deve tenere conto che tra qualche
anno l’Europa dei Trenta diventerà una realtà. 3) Il Trattato di
Maastricht ha indicato la strada per condurre in porto l’integrazione
economica, ponendo le premesse per ampliare la distanza tra la realtà
dell’Europa economica e quella dell’Europa politica. Questa circostanza
ha un duplice effetto concreto. Da un canto, pone con maggiore urgenza
il problema di costruire un secondo pilastro che possa tenere l’intera
costruzione in equilibrio. Dall’altro, rappresenta un indubbio ostacolo
lungo questa strada, in quanto nessuna costruzione politica potrà
prescindere dal fatto che dodici Paesi hanno una moneta comune, mentre
gli altri (tra i quali quelli il cui prossimo ingresso è ormai certo ed
imminente) ne dovranno fare a meno.
Se si guarda alle scadenze dell’ultimo periodo – e anche agli impegni
presi e ai vertici che hanno preceduto i lavori della Convenzione – ci
si accorgerà come questi mutamenti epocali abbiano determinato un
cambiamento di fase ed anche di metodo. L’Europa che è stata formata
lentamente fino al Trattato di Nizza seguiva ancora nella costruzione
quello che si può chiamare il “metodo Monnet”, cioè quello di creare
lentamente le minime istituzioni possibili, adeguate ai problemi che si
intendevano risolvere. Nizza fa un passo in avanti, seppure con qualche
delusione rispetto alla questione del Bill of Rights, la Carta dei
diritti fondamentali, in quanto pone chiaramente nell’agenda politica
dell’Europa la stesura di una Costituzione: tutti i quattro temi che
vengono richiamati nella Dichiarazione di Nizza, in particolare nella
Dichiarazione n. 23, sono tipici temi di una Costituzione europea ed
anzi, direi, di una Costituzione federalista europea (basta ricordare il
tema della devoluzione, dei rapporti tra Istituzioni europee e
Parlamenti nazionali). Con Laeken invece non si parte più dalla
Costituzione federale, ma si cominciano ad enunciare i problemi, le
esigenze, le questioni sul tappeto, i bisogni dei cittadini, e in
corrispondenza di ciò si pone la questione di quali nuove istituzioni
europee, o di quale semplificazione di quelle esistenti, noi dovremmo
costruire. Io credo che questo sia un buon metodo e mi sembra che, fino
ad oggi, la Convenzione europea abbia cercato di adeguarsi a questa
regola. Si tratta di un metodo concreto, perché parte da questioni
reali. E’ un metodo critico, perché sulle questioni reali consente il
dibattito ed il confronto. E’ un metodo cauto, perché invita alla
prudenza (quando si parla di questioni reali e ci si confronta si trova
un terreno comune ma si trovano anche le obiezioni). E’ anche un metodo
da ingegneria istituzionale congetturale, cioè non illuministico: un
metodo che cerca di individuare quali sono le istituzioni più adeguate o
quale semplificazione delle istituzioni può essere più adeguata, senza
pensare che questa sia la migliore o l’unica soluzione possibile e
quindi dando spazio alle eventuali revisioni di errori che possono
essere stati commessi o di inconvenienti che possano verificarsi.
E’ grazie soprattutto a questa regola che nell’ultimo periodo, in tema
d’Europa, sono diminuite le divisioni improprie: si è attutita la più
impropria di tutte che è quella tra gli euroscettici e gli
euroentusiasti (oppure tra gli eurofili e gli eurocritici), è scomparsa
quella tra federalisti e confederalisti. Si è compreso, finalmente, che
nell’Europa dei Trenta, a differenza che nell’Europa dei Sei, la palma
non potrà andare né agli uni né agli altri, e sarà necessario uscire dai
confini delle soluzioni teoriche per cercare soluzioni che riescano a
rispondere con efficacia a delle soluzioni concrete.
L’Europa forte ma leggera
Con la Convenzione siamo entrati, finalmente, nella fase operativa,
nella quale si avverte un grande bisogno sia di visionari che di
critici, di architetti e di manovali, di profeti ma anche di infedeli
(dove gli “infedeli” non sono coloro che hanno un atteggiamento
pregiudiziale contrario, ma coloro che si pongono il problema se le
soluzioni proposte siano adeguate, sufficienti, e così via).
Naturalmente anche gli infedeli devono usare linguaggi opportuni, toni
giusti, riflessioni pacate, perché ciò consenta alle loro obiezioni di
essere di aiuto più di quanto non lo siano critiche di carattere
pregiudiziale. Ho sostenuto che l’Europa ha bisogno di profeti e anche
di utopisti. Credo però che, se vogliamo, come dobbiamo, coltivare
questa generosa utopia che è l’Europa, specialmente adesso che si è
entrati in fase operativa, allora dobbiamo essere molto prudenti e molto
cauti. Se cominciamo con il volare basso, credo che arriveremo molto in
alto. Dobbiamo evitare la sirena dei grandi disegni, dei grandi modelli
magari animati dalle più generose intenzioni e prese di posizione,
perché essi potrebbero produrre con il tempo divisioni artificiose,
generare tensioni, conflitti, crepe, che ci allontanerebbero
dall’effettivo conseguimento dell’integrazione europea. Chi vuole questa
integrazione europea, e io sono tra coloro che la vogliono, deve
raccomandare il metodo gradualista, step by step. Indicato l’obiettivo,
dobbiamo usare quegli strumenti intermedi che ci consentano, laddove
avessimo individuato una difficoltà, di fare immediatamente delle
correzioni senza far fallire l’intera impresa.
Il metodo influenza inevitabilmente l’obiettivo finale, che dev’essere
ispirato a pragmatico realismo. Per questo ho coniato la formula light
but strong. Leggera ma forte vuol dire questo: l’Europa deve essere
forte, e quindi deve dotarsi di un’istituzione esecutiva in grado di
esercitare un’azione incisiva nell’ambito di alcune funzioni essenziali.
Mi riferisco in particolare alla politica estera e alla sicurezza
esterna, al governo dell’economia, alla sicurezza e giustizia interna.
Io credo che su questi tre ambiti, che peraltro costituiscono anche dal
punto di vista filosofico le tre funzioni essenziali degli Stati,
l’Europa dovrebbe seguire un metodo non intergovernativo ma comunitario.
Per quanto concerne queste tre funzioni, dunque, bisogna essere strong,
very very strong. Bisogna, invece, essere light per il resto. Per
sostenere quest’ultima tesi mi asterrò dal ripetere l’umoristica
semplificazione delle direttive sulle banane, i lupini, i pomodori. Mi
limiterò ad affermare come in questi ed anche in altri ambiti bisogna
essere disposti a concedere molto agli Stati e alle loro articolazioni,
sulla base del principio della devoluzione o della sussidiarietà. Mi
preoccupano poco, anche se risultano molto accese, le discussione sui
pomodori e sull’unificazione degli standard alimentari. So che si tratta
di cose importanti in un mercato comune. So anche che in passato su
questi temi si sono consumate crisi decisive nell’ambito della Comunità.
Ritengo, però, che su questioni come queste possano essere trovate
soluzioni anche a livello nazionale o addirittura a livello regionale e
credo, in ogni caso, che non è da questa strada che il segno della nuova
Europa possa incidersi. Esso, invece, non potrà prescindere dalle tre
funzioni essenziali prima citate: questa è l’ambizione che ci deve
muovere tutti.
Naturalmente, per le tre funzioni essenziali debbono essere previste
istituzioni adeguate. Dovremmo provare a semplificare quelle attualmente
esistenti; diffidare dalle intenzioni ricorrenti di crearne delle nuove;
ricondurre tutto ciò che non serve per i compiti fondamentali delle
nuova Europa agli Stati o alle regioni. Non sarà facile. Tutti sanno che
quando un’istituzione esiste vi è un’inerzia interna a quella
istituzione che la fa sopravvivere, anche quando perde la sua funzione.
Per quanto concerne la semplificazione delle istituzioni, però, dovremmo
essere molto coraggiosi. Noi europei abbiamo da difendere una grande
tradizione culturale. Ci appartiene una parte consistente della storia
del progresso scientifico, tecnologico, civile e democratico. In questa
storia noi dobbiamo trovare le nostre radici ed in questa storia noi
dobbiamo pescare. La Convenzione si è posta su questa strada. Se essa
saprà usare la prudenza, il pragmatismo, l’empiricità che occorrono,
allora potrà avere grande e meritato successo.
Costituzione europea e costituzioni nazionali
Un problema sul quale si sta giustamente appuntando l’attenzione della
Convenzione è il rapporto tra la possibile Carta dei diritti
fondamentali europei e le Carte costituzionali nazionali. E’ un problema
che si è manifestato per la prima volta, a mio avviso, in malo modo e in
un’occasione inopportuna: quando si è parlato di un codice penale minimo
europeo. In tale occasione si sono infatti riscontrate delle discrasie –
se non delle vere e proprie contraddizioni – tra quello che a livello
europeo si intende scrivere in una Carta dei diritti, oppure in una
Costituzione, e quello che si trova già nelle Costituzioni nazionali.
Trasformare o introdurre in una costituzione nazionale una norma che
affermi che qualunque altra norma di livello europeo superiore diventa
di per sé disposizione del nostro ordinamento è più facile a dirsi che a
realizzarsi, perché mobilita naturalmente l’opposizione delle culture e
della storia della nazione. E’ possibile esemplificare questa
resistenza, che non è resistenza programmata ma che, invece, esiste nei
fatti: noi siamo stati il primo paese a ratificare la Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, che fu sottoscritta a Roma nel 1950.
Questa Convenzione peraltro, contiene moltissimi diritti che si sono poi
ritrovati nel Bill of Rights europeo. Ebbene, nonostante ciò, siamo un
Paese che per circa cinquant’anni ha discusso a livello della Corte di
Cassazione e della Corte Costituzionale quale fosse lo statuto delle
norme contenute in questa importantissima Convenzione, la maggior parte
delle quali dovrebbe diventare la Carta dei diritti fondamentali dei
cittadini europei. Quelle norme sono sempre state un po’ nel limbo: non
erano norme di rango costituzionale, non erano leggi di carattere
ordinario, erano qualcosa di intermedio. Sta di fatto che praticamente
non si sono mai applicate.
Dopo la Convenzione: la nuova Europa e la
sovranità popolare
Qualcosa di molto diverso è accaduto in Inghilterra che pure è un paese
propriamente eurocritico se non addirittura euroscettico, per quanto
riguarda lo Human Rights Act, che altro non è se non la ratifica
effettuata dall’Inghilterra della Convenzione del 1950. In Inghilterra è
stato definito nettamente quale è il rango di quelle norme, come debbano
essere applicate, quali di esse possano non essere applicate, che cosa
succede nel momento in cui un magistrato inglese si trovasse di fronte
ad una obiezione, nella difesa o nell’esame di un cittadino inglese, che
riguardasse quella Carta dei diritti fondamentali che, appunto, è
diventata lo Human Rights Act. Certo: in Inghilterra non c’è una
Costituzione scritta, e quindi non c’è bisogno di un processo di
revisione costituzionale. Noi abbiamo una Costituzione scritta e
dobbiamo fare revisioni costituzionali adeguate se introduciamo norme
sovraordinate, soprattutto riguardanti diritti fondamentali,
all’ordinamento nazionale. Non sono ostile rispetto a questa prospettiva
di revisione, ma pretendo piena consapevolezza. E aggiungo che non tutto
quanto possiamo scrivere nella Carta fondamentale dei diritti europei è
compatibile ad litteram con quello che è scritto nella Costituzione
italiana, anche perché quest’ultima è notoriamente una Costituzione
dettagliata e analitica. Pensare che qualunque cosa venga scritta in
Europa risulti ipso facto compatibile con le norme del nostro
ordinamento, anche costituzionale, è una illusione che potrà provocare
dopo, se non ci si pensa in tempo, enormi difficoltà.
Vorrei, infine, concentrarmi su una questione di procedura che acquisirà
nel prossimo anno una grande centralità. Il fatto che vi sia stato un
deficit democratico nella costruzione dell’Europa è un refrain sin
troppo ascoltato. La Convenzione rappresenta un grande passo avanti
sulla via di come ovviare a questo deficit, perché non coinvolge oltre
cento persone, tutte altamente rappresentative dei Parlamenti e dei
governi degli Stati coinvolti nel processo d’integrazione, e di quelli
che lo saranno a partire dall’allargamento. Vi è, però, un problema
davvero importante che sta nascendo, che ho avuto anche modo di trattare
con i senatori presso la Convenzione, e sul quale ho condotto una
vittoriosa battaglia alla Conferenza dei presidenti dei Parlamenti
dell’Unione europea e dei Paesi candidati, riunitasi a Madrid nello
scorso mese di giugno: alla fine dei lavori della Convenzione (che noi
auspichiamo entro i tempi prestabiliti), soprattutto se essa su alcuni
punti e nodi importanti avrà dato più di una opzione – come forse è
opportuno che faccia – quando entrano in gioco (se entreranno in gioco)
i Parlamenti nazionali? E i popoli europei? Sarà previsto nient’altro
che un passaggio parlamentare per una scontata ratifica? I Parlamenti
nazionali, rispetto al documento della Convenzione, saranno esonerati e
tutto si deciderà a livello dei governi? Ci saranno dei referendum, come
è probabile che qualcuno chieda? E le articolazioni degli Stati
nazionali, le regioni, le autonomie locali, come saranno coinvolte?
Credo che allora si giocherà una partita decisiva per la democrazia
della nuova Europa. E’ fondamentale che i Parlamenti nazionali possano
discutere le risultanze della Convenzione, formulare giudizi ma anche
ipotesi di suggerimenti in vista della successiva conferenza
intergovernativa. E’ possibile che lo facciano senza per questo
modificare l’agenda prevista per la conclusione e l’approvazione del
nuovo assetto istituzionale europeo. Non si tratta di una graziosa
concessione, ma di un passaggio essenziale. La nuova Europa deve nascere
rispettando la sovranità del popolo ed i suoi rappresentanti. Lo deve
alla sua tradizione, lo deve al suo futuro democratico.
17 gennaio 2003
(da Ideazione 6-2002, novembre-dicembre) |