| Quante divisioni ha l’Italia? di Andrea Nativi
 
 Le Forze armate italiane si trovano ad affrontare quella che al tempo 
        stesso è una sfida ed una grande opportunità. E’ necessaria una 
        trasformazione ad ampio spettro ed è necessario portarla a termine in 
        fretta, perché lo scenario sta evolvendo rapidamente, così come i 
        compiti affidati allo strumento militare e la potenziale minaccia. Di 
        per sé questo adattamento non è né semplice né indolore né economico, ma 
        la cosa è più complicata nel nostro caso perché parallelamente occorre 
        anche completare la professionalizzazione, con la sospensione anticipata 
        della coscrizione obbligatoria alla fine del 2004, rispetto ad un 
        progetto iniziale che fissava questo traguardo solo al primo gennaio 
        2007. Del resto non ci sono alternative, il calo demografico e lo 
        smantellamento progressivo del servizio di leva a colpi di obiezione di 
        coscienza e agevolazioni assortite hanno prodotto un vero disastro, con 
        un crollo verticale del gettito di coscritti, al punto che molti reparti 
        basati su personale di leva già oggi esistono solo virtuali. Occorre 
        fare quindi di necessità virtù, tenendo anche conto che quasi tutti i 
        nostri principali partner hanno già portato a termine questa operazione, 
        pensiamo a Francia e Spagna, mentre la sola Germania per ragioni 
        politiche rimane ancorata ad un modello misto, ma chissà per quanto e 
        comunque con un grado crescente di professionismo.
 
 Prima e dopo l’11 settembre
 
 C’è anche da dire che mentre l’11 settembre non ha messo a nudo alcun 
        problema che non fosse già perfettamente noto agli addetti ai lavori, è 
        anche vero che la percezione della minaccia, nuova o nota che fosse, è 
        di colpo aumentata tra i decisori e si è manifestata anche presso 
        l’opinione pubblica. E questo ha portato ad un nuovo stimolo a reagire e 
        ad un rinnovato interesse per le questioni di difesa e sicurezza 
        propriamente dette (da noi in genere quando si parla di sicurezza ci si 
        riferisce al poliziotto di quartiere). Peraltro è ben noto che i tempi 
        di reazione e adattamento delle organizzazioni militari sono lentissimi, 
        mentre è opportuno non sopravvalutare un fenomeno magari contingente, 
        imporre svolte radicali e poi trovarsi uno strumento militare inadatto a 
        rispondere ad una diversa esigenza (il solito principio in base al quale 
        si rischia di essere pronti… per combattere la guerra precedente). E’ 
        naturale pensare alla riscoperta enfasi sulla Homeland Defense e sulla 
        lotta ai nuovi fenomeni terroristici. Impostare in modo innovativo le 
        Forze armate non è cosa che si possa fare in pochi anni, specie se oltre 
        a compiti ed organizzazione si vogliono anche cambiare mezzi ed 
        equipaggiamenti. Si può però utilizzare in modo diverso ciò di cui si 
        dispone, ottimizzare e mutare le strutture e definire nuove priorità per 
        l’ammodernamento dei mezzi e materiali.
 
 In tutto questo l’Italia ha un piccolo vantaggio: lo shock dell’11 
        settembre non è stato ancora completamente metabolizzato, non negli Usa, 
        dove la Quadriennal Defense Review pubblicata relativamente recentemente 
        è già oggetto di un sostanziale “aggiustamento”; non in Gran Bretagna 
        dove la Strategic Defense Review viene riorientata con un “New Chapter” 
        sul quale addirittura il ministero ha aperto un pubblico dibattito 
        chiedendo opinioni, proposte e commenti agli stessi cittadini, anche via 
        Internet (mica male come idea ed esempio di democrazia e coinvolgimento 
        diretto della popolazione nei problemi della difesa nazionale), non in 
        sede europea dove ancora deve passare l’allargamento dei “compiti di 
        Petersberg” ad includere la lotta al terrorismo; non in quella Nato, 
        dove il Nuovo Concetto Strategico del 1999 ha bisogno di nuove 
        precisazioni. Il recentissimo vertice di Praga ha anche portato a 
        definire meglio quali sono le reali priorità per l’Alleanza, anche in 
        termini di capacità da acquisire per colmare la distanza nei confronti 
        degli Usa, rivedendo, in chiave riduttiva, le ambizioni che avevano 
        portato a compilare un “libro dei sogni” nel quadro della Dci (Defense 
        Capabilities Initiatiative).
 
 Nuovo ruolo e nuove esigenze militari dell’Italia
 
 Questo vuol dire che tutti stanno ancora definendo ruoli, missioni, 
        organizzazione, mezzi. Noi, che abbiamo in buona parte “dimenticato”, 
        per mancanza di soldi, ma anche per incapacità di spendere bene il poco 
        disponibile, la fase di trasformazione intermedia post guerra del Golfo 
        e post Kosovo, ora possiamo puntare direttamente a questo nuovo 
        traguardo. Ma il balzo da compiere è comunque molto più lungo di quello 
        che debbono compiere i nostri alleati. La fotografia attuale delle 
        nostre Forze armate presenta ad un tempo luci ed ombre. In un certo 
        senso c’è da stupirsi che si riesca a fare così tanto con così poco ed 
        in modo più che onorevole, come ci viene riconosciuto, talvolta a 
        malincuore, in sede Nato ed europea, come dimostra tra l’altro 
        l’assegnazione a comandanti italiani di responsabilità significative, 
        come il comando della Kfor in Kosovo (ed è la seconda volta) e 
        soprattutto la reputazione guadagnata combattendo nei cieli della ex 
        Jugoslavia. Tra l’altro il comportamento lusinghiero dei nostri militari 
        ha portato ad una rivalutazione del ruolo italiano sulla scena 
        internazionale, consentendoci di sedere con pari dignità nei principali 
        consessi, dal G7/G8, alla Nato, all’Eu ed al suo nascente braccio 
        militare. Che poi molte occasioni propizie per valorizzare e sfruttare 
        quanto viene fatto vadano perdute perché il sistema-Paese non riesce a 
        muoversi in modo adeguato, come accade ad esempio nei Balcani, è un 
        altro discorso.
 
 Gli impegni sono moltissimi, nazionali ed internazionali, in qualche 
        caso sono molto pesanti e richiedono alla struttura ed al personale uno 
        sforzo molto considerevole. Le sole attività operative all’estero vedono 
        mediamente in attività dagli 8.500 ai 10.000 uomini. Tenendo conto che 
        il personale di leva (chissà perché) non può essere impiegato 
        all’estero, nemmeno in compiti di seconda linea, questo vuol dire che i 
        soli volontari/professionisti sono sottoposti ad un tasso di utilizzo 
        elevatissimo, superiore a quello che mediamente si riscontra presso 
        Paesi con Forze armate professionali. Normalmente si considera che per 
        ogni soldato in linea ce ne siano 3/4 in patria in attività di 
        ricondizionamento, addestramento, preparazione specifica per la nuova 
        missione. Anche dal punto di vista logistico l’onere è notevole, non 
        tanto per le operazioni nei Balcani, che si svolgono un po’ nel cortile 
        di casa, viste le distanze in gioco, quanto quelle in Afghanistan o in 
        Africa. Anche nel campo dei materiali e degli equipaggiamenti il 
        miglioramento è stato più che notevole in moltissimi settori e presenta 
        qualche nicchia di eccellenza a livello internazionale, mentre alcune 
        delle carenze più gravi sono state faticosamente corrette e diversi 
        programmi di ammodernamento stanno dando i primi frutti dopo anni di 
        investimenti.
 
 I lineamenti del modello di Difesa
 
 Tutto questo è sicuramente positivo e sarebbe stato semplicemente 
        impossibile anche soltanto una dozzina d’anni fa. E’ facile ricordare in 
        quali ambasce ci si trovò quando si dovette inviare nel Golfo una forza 
        combattente, solo aeronavale, per partecipare a Desert Storm. Ci sono 
        però anche aspetti negativi. La prima considerazione riguarda il fatto 
        che l’Italia sta spendendo il “capitale” accumulato faticosamente in 
        passato sottoponendo i mezzi ad un uso molto intenso che li sottopone ad 
        un logoramento anticipato, senza che sia possibile sostituirli, perché i 
        provvedimenti del Parlamento che di volta in volta finanziano le 
        missioni coprono i costi vivi, gli stipendi, ma non tengono conto 
        dell’ammortamento di mezzi e materiali e neanche del dispendio di 
        munizionamento pregiato e costoso. In tutti gli altri Paesi al termine 
        di una guerra come quella del Golfo o quella del Kosovo si provvede al 
        reintegro di scorte e mezzi con provvedimenti ad hoc, in Italia no. E il 
        risultato è sotto gli occhi di tutti: l’efficienza media dei reparti e 
        dei sistemi d’arma precipita, i costi di manutenzione aumentano, le 
        scorte di parti di ricambio e munizioni sono insufficienti. La Marina ad 
        esempio è a mal partito ed ha dovuto tagliare drasticamente gli impegni 
        operativi, come conferma il fatto che il contributo in Enduring Freedom, 
        dopo la “fiammata” iniziale con l’impiego della Garibaldi, si è ora 
        ridotto ad una sola fregata. Quelle che stanno entrando in servizio oggi 
        sono unità di seconda linea, che certo non sostituiscono le unità di 
        squadra che possono tirare avanti solo se usate con cautela e sottoposte 
        a costosi programmi di estensione della vita. L’Aeronautica non è certo 
        messa meglio, come confermano le valutazioni negative espresse in sede 
        Nato e in attesa dei nuovi aerei ricorre al noleggio dell’usato altrui. 
        L’Esercito per fortuna impiega prevalentemente mezzi “leggeri” e 
        ruotati, ma buona parte di questi veicoli è in condizione disastrosa, 
        mentre si spende molto per adottare un equipaggiamento in linea con la 
        dotazione degli altri eserciti professionali (qualcosa di molto diverso 
        da quanto risulta accettabile per un soldato di leva impiegato in 
        patria). Non ci sono poi le risorse per procedere all’ammodernamento di 
        molti dei sistemi più costosi e sofisticati.
 
 Vivere al di sopra delle nostre possibilità
 
 In pratica l’Italia della difesa sta vivendo molto al di sopra di quelle 
        che sono le sue effettive possibilità. E di questo all’estero ne sono 
        tutti perfettamente consci. I “soliti” noti ed i pochi reparti 
        qualitativamente impiegabili in un contesto alleato (perché oggi o si è 
        all’altezza degli altri, per capacità e qualità, o si resta a casa) sono 
        spremuti al massimo, troppo. Gli stessi alleati poi non disposti ad 
        accettare i “bluff” italiani, che del resto non reggono quando ci si 
        deve sottoporre a reali valutazioni in base a standard comuni concordati 
        e rigorosamente applicati. Ad esempio, non è un mistero che l’Italia 
        abbia fatto promesse eccessive per poter aver un ruolo identico a quello 
        di Francia, Gran Bretagna e Germania nella nascente forza di reazione 
        rapida europea, che in teoria dovrebbe essere operativa già il prossimo 
        anno.
 
 Tutti questi nodi arriveranno drammaticamente al pettine se l’Italia 
        dovrà essere coinvolta in una vera e propria operazione di guerra su 
        vasta scala. Perché un conto sono le operazioni di pace, con un livello 
        di rischio variabile, altro sono quelle di guerra o peace enforcing che 
        dir si voglia. Cosa succede se qualcuno ci chiede davvero di mantenere 
        gli impegni sottoscritti e non si tratta più di svolgere compiti di 
        guarnigione nei Balcani, ma di andare in battaglia? Negli ultimi lustri 
        è stata l’Aeronautica la Forza armata che più pesantemente è stata 
        impegnata in operazioni di combattimento vere e proprie e ne ha tratto 
        salutari lezioni e disillusioni, l’Esercito, se si escludono gli 
        imprevisti episodi somali, non è stato coinvolto, la Marina solo in 
        parte. A sparare e a sfidare il fuoco nemico sono stati quindi 
        pochissimi, così come sono state poche, per fortuna, le perdite subìte. 
        Ma ora il clima è cambiato e dalla stagione delle operazioni di pace si 
        passa a quella della guerra vera e propria, sia pure etichettata come 
        guerra al terrorismo. La differenza in termini di capacità richieste, 
        costi e impatto psicologico morale, sui militari, ma soprattutto 
        sull’opinione pubblica, sarà notevole, proprio perché si è sempre 
        pensato che queste cose non ci riguardino più di tanto. Una prima prova 
        arriverà con l’impiego dei nostri soldati in operazioni di combattimento 
        in Afghanistan, dal quale non ci si può esimere.
 
 L’Italia ha alle armi, escludendo i Carabinieri, circa 250.000 militari, 
        dei quali circa 87.000 dovrebbero essere quelli di leva. La ripartizione 
        è quella tradizionale, con l’Esercito che pesa per circa il 61 per cento 
        del totale, la Aeronautica con il 23 per cento e la Marina con il 16 per 
        cento. A questi si aggiungono 42.000 civili. Questi numeri sono coerenti 
        con un modello “misto”, che affianca un numero crescente di volontari e 
        professionisti ad un contingente di leva che continua a ridursi ed in 
        realtà è già molto vicino a scomparire. Il traguardo al quale si vuole 
        pervenire in poco più di due anni è quello di una forza complessiva di 
        190.000 elementi, tutti volontari e professionisti (22.000 ufficiali, 
        64.000 sottufficiali e 104.000 volontari di truppa), ripartiti chissà 
        perché ancora secondo i criteri tradizionali, con 112.000 elementi per 
        l’Esercito, 44.000 per l’Aeronautica e 34.000 per la Marina. Peraltro 
        queste cifre non sono definitive e dovrebbero essere oggetto di 
        aggiustamenti. I civili invece saranno 43.000.
 
 Il governo e la politica di sicurezza
 
 Rispetto al progetto approvato nella scorsa legislatura, l’attuale 
        governo ha deciso ad un tempo una marcata accelerazione, una serie di 
        modifiche, anche non marginali e soprattutto sembra intenzionato a 
        riappropriarsi di quelle competenze naturali in tema di definizione 
        della politica di sicurezza che per decenni in Italia sono state 
        totalmente trascurate, lasciando le Forze armate ad una sorta di 
        autogoverno, che rendeva più facile digerire la bassa priorità accordata 
        al settore e la dieta forzata per quanto concerne i finanziamenti. Ora 
        si vuole cambiare pagina, come dimostra non tanto il “Libro bianco”, con 
        carattere essenzialmente ricognitivo, quanto la Direttiva ministeriale, 
        da cui discendono i “Lineamenti del nuovo modello di difesa” 
        (faticosamente) approntati a fine ottobre dallo stato maggiore Difesa e, 
        in prospettiva, si spera di breve termine, un nuovo modello vero e 
        proprio ed una serie di decreti legislativi delegati. Entro il termine 
        della legislatura è inutile aspettarsi miracoli, ma c’è tempo per 
        impostare e portare avanti un progetto organico che il disinteresse del 
        passato e la caducità cronica dei governi in passato hanno reso 
        impossibili. A questo si accompagna anche l’entrata a regime della 
        riforma avviata negli scorsi anni nel senso di superare le 
        contrapposizioni tra Forze armate, privilegiando i due “poli”, stato 
        maggiore Difesa per la parte operativa e Dna/Segredifesa per quella, 
        lato senso logistica. I veti contrapposti, le “torte” divise secondo 
        percentuali immutabili, i bilanci separati appartengono al passato. Si 
        potrà così superare un pernicioso immobilismo e adottare una moderna ed 
        unitaria concezione dello strumento complessivo, che, tanto per fare un 
        esempio, consentirà di determinare in modo ragionato le priorità di 
        spesa nell’ammodernamento o di costituire quel comando interforze per le 
        operazioni speciali ed una brigata anfibia che altrove sono già 
        consolidati da anni.
 
 Le idee ci sono e vengono meglio precisate attraverso il processo di 
        maturazione e riflessione in atto a livello internazionale, al quale 
        anche l’Italia contribuisce fattivamente sul piano tecnico e politico. 
        Visto che la minaccia si può manifestare in forme diverse e provenire da 
        ogni direzione, anche dall’interno (terrorismo), mentre nel medio 
        lungo-termine non si può escludere il ripresentarsi un “competitor” più 
        speculare e convenzionale, è prudente costituire uno strumento 
        caratterizzato dalla massima flessibilità, con l’attenzione per la 
        difesa del territorio che non si traduce certo nell’abbandono delle 
        esigenze di proiezione di potenza all’estero, anche a grande distanza e 
        per lungo tempo. Anzi, la nuova dottrina “all’israeliana” sposata dagli 
        Usa e recepita in Europa (e di cui l’Italia è ben conscia, basta leggere 
        alcuni recenti discorsi del ministro e del Capo di stato maggiore 
        Difesa) che sposa l’intervento offensivo preventivo per “eliminare” 
        problemi, minacce o potenziali crisi prima che si manifestino 
        apertamente, fa perno proprio sulla capacità di proiezione e implica 
        anche un grado di prontezza molto più elevato. Difesa domestica poi non 
        vuol dire impiego delle Forze armate per il controllo del territorio in 
        chiave antiterroristica, cosa che può essere affidato ai servizi di 
        sicurezza ed alle ipertrofiche forze di Polizia, quanto la 
        sorveglianza/difesa degli spazi aeromarittimi, eventualmente difesa 
        antimissile e contributi specializzati (ad esempio per la difesa Nbc). 
        Insomma, tutto tranne un esercito domestico e polverizzato sul 
        territorio, stile ottocentesco.
 
 I nuovi riferimenti politico-strategici
 
 I problemi principali che si devono fronteggiare sono sostanzialmente 
        due: il personale e le risorse finanziarie. Il primo aspetto è 
        probabilmente quello più critico, perché il contesto nazionale, 
        culturale, storico, politico, non fornisce certo l’humus ideale per 
        permettere il successo di un sistema di reclutamento basato sui 
        volontari. Non abbiamo la tradizione del “mestiere delle armi” e 
        nonostante il tasso di disoccupazione, che resta elevato a dispetto 
        della ripresa economica “alle porte”, il mestiere delle armi attira 
        poco, non è competitivo e spesso viene erroneamente percepito come una 
        forma di impiego statale come un altro. Tra l’altro non si tratta “solo” 
        di sostituire 87.000 soldati di leva con altri 27.000 volontari, quando 
        di rimpiazzare anche buona parte dei soldati di professione della 
        precedente generazione con personale di tipo completamente diverso e al 
        quale saranno richieste cose e capacità. Secondo gli schemi attuali il 
        “turnover” potrebbe essere completato solo nel giro di due decenni, ma 
        questo è evidentemente inaccettabile. Lo stesso tipo di rapporto di 
        impiego cambierà, perché un esercito efficiente è un esercito giovane e 
        servono quindi una serie di meccanismi per assicurare un “dopo” a chi ha 
        svolto con successo una ferma nelle Forze armate. Una legge che permetta 
        l’accesso alle forze di Polizia solo a chi ha servito con le Forze 
        armate, per quanto osteggiata da potenti lobbies, è forse l’unico 
        strumento per evitare che si manifesti una drammatica crisi di 
        vocazioni. Peraltro anche Forze armate tradizionalmente professionali, 
        come quelle britanniche, sono quasi sempre al di sotto degli organici 
        tabellari, ma riescono a supplire sia impiegando riservisti e forze 
        territoriali, sia limitando gli impegni. Il comparto delle forze di 
        riserva o guardia nazionale da noi è ancora tutto da inventare. Anche il 
        ruolo e la tipologia professionale del personale civile dipendente dalla 
        difesa deve essere trasformato, mentre il numero di dipendenti 
        ipotizzato nel progetto di riferimento appare molto inferiore a quello 
        che deriverebbe applicando i rapporti militari:civili che si riscontrano 
        nei Paesi dove le Forze armate professionali sono già una realtà.
 
 Un migliore impiego del personale militare. E i 
        suoi costi
 
 La riforma proposta prevede poi di impiegare al meglio personale 
        militare che sarà più “educato”, meglio pagato, alloggiato ed 
        equipaggiato: più denti e meno coda, i soldati vanno in azione, non 
        dietro una scrivania, esternalizzazione di tutti i compiti e delle 
        funzioni che non richiedono necessariamente di essere svolti da 
        personale in divisa, soluzioni interforze per ridurre le strutture ed i 
        comandi inutili, snellimento di quella organizzazione territoriale che 
        rimane pletorica, costosa e ingiustificabile, chiusura di reparti e basi 
        ormai inutili o svuotati e così via. Facile a dirsi, difficile a 
        realizzarsi, anche perché in Italia le caserme e le basi non sono amate, 
        tranne quando se ne prospetta la chiusura e le comunità e i politici 
        locali realizzano il danno economico che ne conseguirebbe, con seguito 
        di interrogazioni “trasversali” e raccolte di firme.
 
 Tutto questo però costa, costa moltissimo. Inutile dire che la legge 331 
        che ha approvato la professionalizzazione delle Forze armate ha, come 
        consuetudine, completamente sottovalutato i costi diretti indiretti: 
        stipendi, certo, ma anche alloggi ed infrastrutture, equipaggiamento, 
        formazione ed addestramento. In tutto il mondo un esercito professionale 
        costa enormemente di più di uno basato su coscritti e, naturalmente, 
        esprime una capacità operativa del tutto diversa. La questione è 
        spinosa, perché le Forze armate italiane sono da sempre 
        sottocapitalizzate, il bilancio della difesa rappresenta meno dell’1,46 
        per cento del prodotto interno lordo, una percentuale inferiore alla 
        media Nato e decisamente lontana dalle percentuali che si riscontrano in 
        Paesi quali Gran Bretagna e Francia o persino Germania. Per di più il 
        bilancio della difesa italiano è un omnibus dove si trova un po’ di 
        tutto, dalle pensioni, alle famigerate “funzioni esterne”, ai fondi per 
        i Carabinieri. Depurata dai fronzoli, la spesa per la “funzione Difesa” 
        propriamente detta scende all’1 per cento del Pil e questo anche senza 
        considerare che il Pil tedesco o quello degli altri “grandi” è 
        decisamente superiore a quello italiano. In soldoni questo 1 per cento 
        si traduce nel 2002 in 13,5 miliardi di euro.
 
 Questa situazione non è certo una novità, sono decenni che la Difesa 
        riceve meno di quanto sarebbe indispensabile ed il risultato non può che 
        essere un progressivo ampliamento del gap di capacità che ci separa 
        dagli Alleati. Per di più, dato che sugli stipendi non si può 
        risparmiare e visto che ridurre manutenzione, addestramento e scorte è 
        pericoloso, si finisce per sacrificare la spesa per investimenti, che in 
        teoria non dovrebbe essere inferiore al 30 per cento del totale. Per 
        l’anno in corso, tra ammodernamento e ricerca e sviluppo il bilancio 
        prevede 3,3 miliardi di euro, quando lo stesso ministero ammette che ne 
        servirebbero “almeno” 4,6 miliardi/anno, solo per evitare un nuovo 
        scollamento rispetto ai primi della classe. Bisogna peraltro riconoscere 
        che la Difesa può anche beneficiare, almeno in parte, dei fondi del Map 
        stanziati in favore dell’industria aerospaziale e della Difesa e di 
        quelli del ministero della Ricerca scientifica/Istruzione, che peraltro 
        avrebbero un impatto più significativo se fossero spesi sulla base di 
        una pianificazione interministeriali che rispondesse agli interessi 
        effettivi del Paese: gli stanziamenti a pioggia e senza rispetto delle 
        priorità effettive in passato hanno creato più danni che vantaggi.
 
 Ora il Dpef prevede ufficialmente come obiettivo l’incremento della 
        spesa per la “funzione Difesa” vera e propria all’1,5 per cento del Pil, 
        il che vorrebbe dire, a valori 2002, un aumento di oltre 6,7 miliardi di 
        euro, ma non è la prima volta che si ascolta questo discorso, anche in 
        tempi recenti. E’ stato anche prospettato un intervento straordinario 
        “tappabuchi” una tantum nell’ordine dei 7,5 miliardi di euro in 10/15 
        anni. Però, se il buongiorno si vede dal mattino, dobbiamo constatare 
        che il progetto di bilancio 2003 riflette la realtà di una congiuntura 
        economica sfavorevole e l’obiettivo realistico è quello di difendere i 
        livelli già raggiunti. E non si sono visti neanche interventi 
        straordinari “post 11 settembre” che Usa, Gran Bretagna, Francia ed 
        altri Paesi europei “virtuosi” hanno già varato ed in buona misura 
        stanno realizzando. Se questo è il contesto oggettivo, sembra necessario 
        un atto di coraggio: una stima realistica di quello che il Paese può e 
        potrà spendere per la Difesa e su questa base determinarne la 
        consistenza (ovvero un procedimento inverso rispetto a quello corretto: 
        definire esigenze, stabilire come soddisfarle e quindi provvedere i 
        soldi necessari). Perché se procediamo sulla strada attuale rischiamo di 
        avere la solita “hollow force” di mussoliniana memoria, tante baionette 
        e nient’altro. E non sveliamo un segreto se rileviamo che gli studi 
        “interni” cominciano a prospettare un calo degli obiettivi di forza da 
        190.000 ad appena 150.000 unità, con un secco -21 per cento!
 
 Una più efficiente gestione delle risorse
 
 Parallelamente occorre una cura dimagrante per i programmi di 
        ammodernamento in corso: non ha senso spendere migliaia di miliardi per 
        sviluppare qualcosa che poi si acquista in pochi esemplari, non è 
        fondamentale, ma solo nice to have, o solo perché “lo fanno gli altri”. 
        E se questa revisione la stanno facendo gli Usa che spendono oltre 400 
        miliardi di dollari all’anno nella Difesa, figuriamoci l’Italia. Meglio 
        concentrarsi sui fondamentali. Naturalmente tutto questo ha un “costo” 
        politico-strategico: i modelli di riferimento, almeno per le quantità, 
        non sono più Gran Bretagna, Francia e Germania, ma piuttosto Spagna o 
        Olanda. Da questo discenderebbe non solo un drastico ridimensionamento 
        delle attività all’estero, ma anche del ruolo Nato ed europeo. Ormai la 
        statura internazionale di un Paese si misura anche con il numero di 
        divisioni (vere) che può mettere in campo, una retrocessione sarebbe 
        perciò inevitabile. Mi rendo conto che tutto ciò è difficile da 
        accettare, e mi auguro davvero che le condizioni economiche consentano 
        di realizzare tutti gli ambiziosi obiettivi, ma se così non sarà, il 
        “nuovo modello” dovrebbe prenderne onestamente atto, perché nel nuovo 
        contesto barare è molto pericoloso, la realtà si svela non in una parata 
        o in una delle vecchie e care esercitazioni “vasetto”, ma su un campo di 
        battaglia.
 
 28 febbraio 2003
 
 (da Ideazione 6-2002, novembre-dicembre)
 |