La Nuova Europa sorge ad Est
di Pierluigi Mennitti

Nelle giornate ventose di Varsavia, due bandiere garriscono di fronte al bianco Palazzo del presidente della Repubblica, al numero 50 della centralissima Krakowskie Przedmieście: quella biancorossa della Polonia e quella azzurra della Nato. Per i polacchi, come per tutti i cittadini degli paesi dell’ex Europa dell’Est, l’ingresso nell’Alleanza Atlantica è stato il simbolo della fine del comunismo più del lungo e tormentato ingresso nell’Unione Europea. L’Europa come anticamera dell’Occidente, che da queste parti continuano a individuare nell’America, quel mito a stelle e strisce cui gli europei centro-orientali attribuiscono la vittoria sul comunismo nella Guerra Fredda. Se a Varsavia, a Bucarest, a Praga e a Budapest oggi si può girare a testa alta, dire liberamente quello che si vuole e assaporare quel benessere tanto agognato negli anni dell’autarchia, lo si deve a Ronald Reagan, non a Romano Prodi.

Ecco perché la prepotente irruzione sulla scena dei paesi post-comunisti rischia di cambiare gli equilibri europei. Mentre ad Ovest sembra prevalere la stanchezza sociale ed economica e i paesi che hanno costruito l’Unione Europea ripiegano sul proprio ombelico domestico fatto di sicurezza, benessere, sedentarietà (di welfare insomma, pagato anche dagli Stati Uniti che in cinquant’anni si sono preoccupati della difesa militare dell’Europa), ad Est c’è una vitalità nuova espressa da paesi che devono conquistarsi la scena della politica e dell’economia e ai quali sarebbe ingeneroso rinfacciare l’accusa di servilismo americano, come ha fatto il presidente francese Jacques Chirac. Con tutto il denaro che l’Europa occidentale ha incamerato dagli Usa (dal Piano Marshall in poi) ci vuol davvero faccia tosta (o una grande dose di snobismo da grandeur perduta).

Tanto più che le cancellerie centro-orientali non capiscono. Cosa è accaduto all’Europa? Quali misteriosi motivi spingono paesi di sicura tradizione occidentale come Francia e Germania ad approfondire il solco con Washington? Se pensiamo che la gran parte dei paesi dell’Est sono oggi governati da coalizioni di centrosinistra, si intuisce con maggior evidenza che siamo di fronte a un rimescolamento geopolitico e non ideologico dell’Europa. Può così apparire meno provocatoria la frase del segretario alla Difesa americano Donald Rumsfeld che ha contrapposto la “Nuova Europa” dell’allargamento a quella “Vecchia” rinsaldata nel bunker di Bruxelles.

La frizione tra le due metà del Continente si è evidenziata in due momenti: lo scorso settembre, con il documento dei Dieci del Gruppo di Vilnus (Slovacchia, le tre Repubbliche Baltiche, Romania, Bulgaria, Croazia, Slovenia, Albania, Macedonia) in appoggio alla politica estera americana e a febbraio, in piena crisi irachena, con l’Appello degli Otto, nel quale è stata siglata la convergenza tra Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca e Slovacchia da un lato e Gran Bretagna, Spagna, Italia e Danimarca dall’altro. Un ponte Est-Ovest che si propone ufficialmente di riequilibrare la posizione di Germania, Francia e Belgio sulla guerra all’Irak ma che potrebbe rappresentare un contraltare importante di lungo periodo all’asse franco-tedesco che ha tradizionalmente rappresentato il cuore della politica europea. A questo lavora soprattutto Londra. La Germania in particolare vede sfuggire il vantaggio geopolitico conquistato con l’apertura ad Est: alla crisi economica, duratura e strutturale, somma oggi l’isolamento politico, tanto più grave in quanto subito da quei paesi che avevano rappresentato il naturale giardino di casa di Berlino. Un altro capolavoro del cancelliere Gerhard Schröder.

28 febbraio 2003

pmennitti@ideazione.com
stampa l'articolo