A Washington c’è chi pensa (e lavora) ad un
nuovo Iran
di Alessandro Gisotti
Prossima fermata Teheran. Se qualcuno nutrisse ancora dei dubbi sulle
intenzioni dell’amministrazione americana nei confronti dell’Iran
basterebbe ascoltare quanto va affermando, in questi ultimi tempi, il
segretario alla Difesa, Rumsfeld, sempre più metronomo della politica
estera americana. L’Iran, ripete ad ogni occasione, offre rifugio ad al
Qaeda e sta sviluppando un programma di armi proibite. Insomma, gli
stessi capi d’accusa contestati all’Iraq di Saddam Hussein. E sappiamo
come è andata a finire. Dichiarazioni, che si accompagnano a quelle
sulle armi di distruzione di massa irachene. “Forse - ha dichiarato -
sono state distrutte prima dell’inizio del conflitto”, facendo intendere
che, in definitiva, è la detronizzazione del raìs ciò che conta.
Affermazioni accolte come un pugno nello stomaco a Downing Street, dove
il premier britannico Blair, in grave difficoltà sullo scottante
argomento, mantiene il punto: le armi ci sono e verranno trovate. Ancora
una volta, dunque, Rumsfeld mostra di trovarsi a suo agio nei granitici
corridoi del Pentagono, ma di muoversi come un pachiderma nella
cristalleria della diplomazia internazionale. Che guarda con apprensione
alle prossime mosse degli Stati Uniti.
Da un po’ di tempo, infatti, la formula “regime change” è
particolarmente in voga nei discorsi che si fanno a Washington sulla
sorte dell’Iran. Progetto corroborato dal montare della protesta degli
studenti contro i vertici della Repubblica Islamica. Proprio, però,
quando la Gran Bretagna è, invece, impegnata in uno sforzo
politico-diplomatico per favorire, senza scosse, il movimento
riformatore delle istituzioni, lascito della rivoluzione khomeinista. Il
futuro dell’Iran, secondo Tony Karon del Time, potrebbe rivelarsi allora
una nuova fonte di fibrillazione nei rapporti tra l’America e i suoi
alleati. Scontro, che per il magazine, potrebbe deflagrare a causa
dell’impazienza dei “falchi” neoconservatori nei confronti del corso
riformista del presidente Khatami. Apostrofato con ironia dai “neocon”
quale “il sempre sorridente che cita Tocqueville” e ritenuto, nella
migliore delle ipotesi, come un ostaggio della “mullahcrazia”
dell’ayatollah Khamenei.
In effetti, nelle ultime settimane, si sono moltiplicate le voci nel
campo dell’intellettualità repubblicana, che chiedono di cogliere il
momento per dare una spallata al regime di Teheran. Nella convinzione
che la democrazia sia contagiosa, i neoconservative ritengono che per
l’Iran sia solo una questione di tempo. Stretta tra Iraq ed Afghanistan
– ieri “Stati canaglia”, oggi laboratori per la democrazia, sotto
protettorato americano – la Repubblica Islamica sarebbe in fase di
implosione. E c’è già chi, nei think thank a stelle e strisce,
preconizza un dissolvimento stile Unione Sovietica. Processo che, ça va
sans dire, dovrebbe essere incoraggiato (guidato) dagli Stati Uniti.
D’altro canto, che la democrazia, intesa come deterrente contro il
terrorismo, sia ritenuta la stella polare dei nuovi “consiglieri del
principe” è un dato di fatto, che solo ad osservatori disattenti può
sfuggire.
Nell’ultimo numero della prestigiosa rivista conservatrice Policy
Review, Larry Diamond (in un saggio dal titolo “Universal Democracy?”)
afferma: “La guerra all’Iraq è stata sferrata per disarmare Saddam
Hussein, ma per molti tra coloro che l’hanno sostenuta, l’obiettivo
primario era quello di determinare un cambio di regime”. Che favorisse
“un cambiamento politico radicale” in quel paese, “volto a conseguire
qualcosa che lì non è mai esistita prima: la democrazia”. Diamond si
augura, dunque, che questo processo democratico investa gli Stati
confinanti con l’Iraq. Particolarmente prolifico sulla questione,
Micheal Ledeen, esponente di punta dei “neocon”, che, in un editoriale
sul Wall Street Journal, si sofferma sulla voglia di democrazia, così
forte in tanta parte del popolo iraniano. Paradossalmente, o forse no,
il più filoamericano del Medio Oriente, a fronte di un governo, che, da
Khomeini in poi, considera l’America il “Grande Satana”. Con le
manifestazioni studentesche che in Iran crescono nell’approssimarsi
dello sciopero generale del 9 luglio prossimo, avverte Ledeen, si
avvicina il “momento della verità”. Titolo, quest’ultimo, di un altro
suo articolo su National Review, che richiama il governo americano ad
appoggiare senza remore la spinta democratizzante viva ed attiva nella
società iraniana. Innanzitutto, con la straordinaria potenza della
comunicazione. Segnala, per esempio, il ruolo che possono giocare in
questa partita le numerose radio che dagli States trasmettono in lingua
farsi in Iran.
D’altro canto, Ledeen – autore del libro “The War Against Terror
Masters” – non tralascia di mettere l’accento sul sostegno che l’Iran,
“cuore della struttura jihadista” fornisce al terrorismo islamico nelle
sue diverse forme, dagli hezbollah libanesi ad Hamas, appunto ad al
Qaeda. Connivenze, che, sommate al programma nucleare iraniano (targato
Russia) sul quale anche l’Aiea di El Baradei ha espresso preoccupate
riserve, non lasciano spazio a tentennamenti. Per questo, il docente
dell’American Enterprise Institute critica aspramente il segretario di
Stato, Powell, e il suo vice, Armitage, rei di essersi mostrati
favorevoli ad un approccio dialogante con le classi dirigenti iraniane.
Un errore imperdonabile secondo Ledeen. Posizione, la sua, rinvigorita
sulle riviste “neocon” dalle sempre più frequenti lettere di studenti
iraniani, che chiedono aiuto al presidente Bush. Su National Review On
Line (significativamente nella sezione At War, “in guerra”) Koorosh
Afshar – pseudonimo di un giovane di Teheran – scrive: “Non abbiamo
bisogno di un vostro intervento militare, ma della vostra
determinazione. Dateci una mano e noi penseremo al resto. Come? Non
trattate con i mullah”.
Sul “regime change” iraniano non poteva mancare il contributo di Weekly
Standard, rivista leader dei neoconservatori, che vanta tra i suoi
lettori l’attuale inquilino della Casa Bianca. Il settimanale di Bill
Kristol ha dedicato un intero numero all’Iran che verrà, concentrandosi,
soprattutto, sulla futura minaccia nucleare iraniana. In un lungo
articolo (The Mullahs’ Manhattan Project), Reuel Marc Gerecht esorta
l’amministrazione Bush a scegliere la linea dura verso Teheran, in
controtendenza rispetto alla presidenza Clinton e, come già sostenuto da
Ledeen, abbandonando l’approccio soft del Dipartimento di Stato. Secondo
Gerecht, anche se l’intelligence statunitense non trovasse prove
inoppugnabili del sostegno iraniano ad Al Qaeda, è comunque inevitabile
una qualche forma di collisione tra la Repubblica Stellata e la
Repubblica Islamica. Causa scatenante? La corsa dell’Iran agli armamenti
nucleari. Armi di cui vorrebbero disporre tanto i conservatori raccolti
attorno a Rafsanjani e Khamenei, quanto i riformisti del presidente
Khatami. La leadership iraniana, infatti, è stata molto colpita dal
diverso atteggiamento americano nei confronti dell’Iraq e della
nuclearizzata Corea del Nord. Per eliminare la minaccia di una bomba
atomica khomeinista - puntata in primis su Israele - Bush avrebbe
davanti a sé una difficile e impopolare decisione da prendere. Dopo aver
scartato l’ipotesi di azioni spionistiche (troppo dispendiose in termini
di tempo, imbarazzanti e controproducenti in caso di fallimento),
Gerecht indica l’opzione, che in molti - da Mosca a Parigi - paventano:
“Attacco militare preventivo contro i siti nucleari iraniani”. A
sostegno della sua tesi, l’editorialista del Weekly Standard rammenta il
bombardamento “preventivo” da parte israeliana del reattore nucleare
iracheno di Osirak. Era il 1981 e il programma per la “Bomba di Saddam”
veniva riportato a zero. Un precedente che oggi viene studiato con
attenzione a Washington. Ma quello di Osirak era il mondo cristallizzato
dei due Blocchi. Davvero un’altra Storia.
20 giugno 2003
gisotti@iol.it
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