| Se l’Atlantico torna a dividere di Andrea Marcigliano
 
 Dopo oltre cinquant’anni l’Atlantico sembra essere tornato – o rischiare 
        di tornare – un Oceano che separa due mondi. Cinquant’anni in cui le due 
        sponde, l’America e l’Europa, di fatto, non sono state mai veramente 
        divise dalle distese marittime, e l’Oceano era, di fatto, divenuto un 
        mare interno che le univa. Due sponde, dunque, unite da un modello 
        politico e sociale sostanzialmente comune; unite in forza dello sviluppo 
        economico; unite, infine, da un’alleanza che dal nome dell’antico Oceano 
        prendeva nome. Ed è proprio quest’alleanza, questo Patto atlantico ad 
        essere oggi in crisi, in seguito a quella crisi irachena che sembra 
        avere avuto un effetto deflagrante sui pilastri del mondo. E’ in crisi 
        il Patto atlantico, è in crisi la Nato, è in crisi l’Onu... è in crisi, 
        infine, la stessa Unione europea, incapace, una volta di più, di 
        un’unità d’intenti politica che trascenda la mera unione economica e 
        monetaria. Sono entrati in crisi, insomma, tutti quegli istituti, 
        vorremmo dire quelle certezze, sui quali sembrava fondarsi il nostro 
        mondo, o meglio la nostra visione di esso, dal 1945 in poi. Stiamo 
        vivendo, dunque, un’epoca di trasformazioni radicali, di mutamenti, se 
        si vuole anche di rivoluzione. Dopo Baghdad il mondo non sarà – comunque 
        vadano gli eventi – più quello di prima. Ma Baghdad e la crisi irachena 
        non sono la causa di tale sconvolgimento nei rapporti e negli equilibri 
        internazionali. Piuttosto, solo il punto d’arrivo di un processo 
        politico e culturale, le cui radici e ragioni reali vanno ricercate più 
        lontano e, soprattutto, molto più in profondità.
 
 Vanno ricercate, innanzi tutto, nella rottura degli equilibri e delle 
        logiche di Yalta, le logiche su cui si era fondato, di fatto, il mondo 
        dopo l’ultima grande guerra, stabilite dalle potenze che avevano 
        trionfato in questa; quelle stesse potenze – alcune delle quali, in 
        verità, assai usurate – che ancor oggi siedono come membri permanenti 
        del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e detengono il famoso diritto di 
        veto. Tali logiche erano, però, quelle di un mondo destinato ed essere 
        bipolare, diviso sin dall’inizio in due diverse sfere d’influenza: da un 
        lato l’Occidente, con gli Usa ed i loro alleati ben presto riuniti sotto 
        l’ombrello della Nato, dall’altro l’Urss e il patto di Varsavia, 
        l’Oriente comunista. Due blocchi, dunque, e, soprattutto, due 
        superpotenze che per oltre mezzo secolo si sono fronteggiate giocando 
        sullo scacchiere mondiale una lunga, estenuante, partita a domino. 
        Partita che non è mai sfociata in scontro diretto in forza di 
        quell’equilibrio del terrore o, se si preferisce, di quella strategia 
        del contenimento teorizzata dalla scuola classica del realismo politico 
        statunitense. La scuola alla quale si rifacevano i Kissinger ed i 
        Brezynski, che, come segretari di Stato degli Usa, furono artefici di 
        decenni di politica internazionale. Poi, quell’equilibrio si è infranto. 
        Non oggi, però, ma oltre un decennio fa, con la crisi irreversibile dei 
        sistemi socialisti e, in particolare, della superpotenza sovietica, 
        implosa per l’incapacità di reggere il confronto sul piano economico e 
        sociale con la rivale occidentale. Implosa per il fallimento dei suoi 
        modelli di sviluppo, della sua economia dirigistica e programmata. 
        Implosa per la crescente disaffezione interna verso un sistema avvertito 
        dalla maggioranza dei cittadini come ostile, oppressivo, incapace di 
        garantire libertà e sviluppo.
 
 E’ storia vecchia, ormai. E, tuttavia, è da qui che dobbiamo partire. 
        Perché con il fallimento dell’Urss – nonostante l’ultimo, disperato ed 
        evanescente, tentativo della glasn’ost gorbacioviana – ci siamo trovati 
        di fronte ad un mondo nel quale di fatto resta un’unica superpotenza, 
        un’unica potenza egemone: gli Stati Uniti. Tanto che qualcuno – Francis 
        Fukuyama – parlò all’inizio degli anni Novanta, addirittura di fine 
        della storia, riprendendo – in modo un po’ sommario – la lettura di 
        Hegel di Kojéve. Un’unica superpotenza, un unico modello politico e 
        sociale vincente, un unico modello economico. La storia, dunque, come 
        l’avevamo sempre conosciuta, poteva dirsi conclusa. Molti, soprattutto 
        in Europa, vi credettero. O meglio vi vollero credere, ché sembrava che 
        una tale lettura potesse preludere, finalmente, alla pace universale, ad 
        un mondo senza tensioni, senza conflitti, o, per lo meno, nel quale 
        tutti i conflitti sarebbero stati, nel tempo, risolti positivamente in 
        forza proprio della fine di quell’equilibrio del terrore su cui ci 
        eravamo, sino ad allora, dovuti basare. Potevamo, insomma, finalmente 
        smettere di vivere con la vertigine – per riprendere il titolo di un 
        saggio di André Glucksmann degli anni Ottanta, dedicato, appunto, alla 
        condizione di un mondo perennemente sotto minaccia di annientamento a 
        causa di una guerra atomica globale. Seguì, in Europa soprattutto, un 
        momento di ubriacatura collettiva: gli anni in cui si sognava la società 
        aperta globale e si elevava Popper a unico maestro dei nuovi tempi.
 Poi, la crisi Balcanica, le guerre della ex Jugoslavia, quelle 
        mediorientali, nonché i focolai di tensione che si accendevano di 
        continuo in ogni parte del mondo, suonarono la sveglia.
 Hobbes governa a Washington
 
 Negli Usa, a partire dall’era Reagan, ma con un’accelerazione 
        progressiva negli anni Novanta, ha cominciato ad affermarsi una nuova 
        scuola di pensiero politico e strategico, quella che, anche se forse un 
        po’ sommariamente, abbiamo preso recentemente a definire come 
        neoconservative. Una scuola, anch’essa sostanzialmente di matrice 
        realista – che, a ben vedere, affonda le sue radici, comunque, nel 
        pensiero di Hans J. Morghentau e, per suo tramite, nel realismo 
        novecentesco europeo di Carl Schmitt. E, tuttavia, di un realismo 
        diverso, che non incentra più la strategia politica sull’uso 
        convenzionale della deterrenza e sulla politica del contenimento. Un 
        realismo, piuttosto, offensivista come qualcuno ha voluto definirlo, che 
        costituisce oggi, di fatto, il substrato ideologico dell’amministrazione 
        statunitense e, più, in generale, della visione strategica del mondo 
        secondo Washington.
 
 E’ una concezione rigorosamente hobbesiana. A suo modo essenziale. Il 
        mondo del dopo Guerra Fredda è un mondo caotico e pericoloso, perché è 
        venuto a mancare uno dei due riferimenti su cui si fondava il, pur 
        precario, equilibrio precedente. La fine dell’impero sovietico – per 
        quanto auspicata e salutata come una vittoria della democrazia e del 
        modello occidentale – ha comportato l’inizio di un’età caotica, nella 
        quale l’assenza di controllo sta portando al moltiplicarsi dei focolai 
        di crisi, delle guerre, delle tensioni, aggravate, fra l’altro, dalla 
        proliferazione incontrollata degli armamenti, specialmente di quelli con 
        potenziale distruttivo di massa. Una situazione di confusione ed 
        incertezza che riverbera negativamente sull’economia mondiale e che, 
        soprattutto, può mettere a serio rischio lo stesso standard di vita 
        occidentale, lo stesso modello democratico, del quale gli Stati Uniti 
        rappresentano il cuore ed il motore propulsore. Di qui la necessità di 
        una politica tesa a riorganizzare il mondo, a ridargli un ordine sotto 
        l’egida di quella che è l’unica potenza rimasta sulla scena globale. 
        Anche a costo di intraprendere una serie di interventi, di guerre e di 
        operazioni atte a riordinare lo scacchiere internazionale. La pax 
        americana, se così piace chiamarla, della quale il first strike, 
        l’attacco preventivo, teorizzato da Paul Wolfowitz – che, prima di 
        essere il vice di Rumsfeld alla Difesa, è un esponente di punta dei 
        think tanks neoconservatives – non è altro che, necessario, portato 
        secondario. Di qui, soprattutto, la decisione dell’amministrazione Bush 
        di intervenire militarmente in Iraq per ridisegnare gli equilibri 
        geo-strategici di tutta l’area medio-orientale. Decisione dietro alla 
        quale è, dunque, individuabile una precisa scelta culturale, o, se si 
        vuole, un’ideologia, purché si intenda questa nella sua accezione 
        originaria,un sistema di idee con il quale interpretare – e di 
        conseguenza ordinare – gli eventi ed il mondo che ci circonda.
 
 L’America di Bush, e la sua politica, non sono semplicisticamente 
        riducibili all’America di Fortebraccio, come l’ha 
        ironicamente/irosamente definita Marc Fumaroli, dando, una volta di più, 
        voce alla distanza, ed anche al sostanziale disdegno, 
        dell’intellighenzia neutralista francese – ed europea – per i cow boys 
        del Nuovo Mondo. Una distanza culturale e, al tempo stesso, ideologica. 
        Che è poi la vera distanza che separa, oggi, le due sponde 
        dell’Atlantico. Un solco, anzi una fossa che si è venuta scavando ed 
        approfondendo proprio nel corso dei decenni in cui, apparentemente, la 
        società europea e quella statunitense sembravano vieppiù avvicinarsi ed 
        assimilarsi. I decenni del secondo dopoguerra, che hanno visto una 
        crescente influenza dei modelli di vita americani sull’Europa, anzi, 
        l’imitazione, sovente pedissequa e ottusa, di modi e mode propugnati da 
        un’industria mediatica sempre più pervasiva ed invasiva e che hanno 
        portato, almeno in apparenza, ad una sostanziale omologazione culturale 
        delle nuove generazioni sulle due sponde dell’Atlantico. In apparenza 
        soltanto, però. Ché una differenza fondamentale restava, anzi andava 
        proprio in quegli stessi decenni, marcandosi sempre più. Una differenza 
        radicale nel modo di vedere/concepire il mondo, che si è accentuata 
        ancor di più dopo la fine della Guerra Fredda, e che oggi è, finalmente, 
        esplosa, palesandosi drammaticamente proprio in concomitanza con la 
        crisi irachena.
 
 Una differenza di cui gli ideologi della Nuova America, i 
        neoconservatives riuniti intorno ad una serie di influenti think tanks, 
        ed in particolare nel Project for the New American Century diretto ed 
        ispirato da William Kristol, sono perfettamente e lucidamente coscienti. 
        E che, di conseguenza, finisce con l’ispirare le scelte politiche 
        dell’attuale amministrazione di Washington, che da tale movimento è 
        fortemente influenzata, in forza della presenza nei suoli ranghi di 
        esponenti di primo piano del neoconservatorismo, dal già citato 
        Wolfowitz a Richard Perle, sino a Condoleezza Rice, già docente di 
        Scienze politiche – nonché rettore – a Standford, e oggi vera anima 
        della strategia internazionale di George W. Bush. Quella stessa Rice che 
        ha, tra l’altro, dettato, nel settembre 2002, i lineamenti essenziali 
        del The National Security Strategy of the United States of America, il 
        documento ufficiale con cui la Casa Bianca ha delineato la sua strategia 
        internazionale per gli anni futuri. Documento fondamentale, che, dopo 
        l’11 settembre, ha ridefinito la politica americana e, tra l’altro, 
        ridisegnato i futuri rapporti degli Usa con le nazioni europee, 
        lasciando intuire tanto l’imminente crisi della vecchia Nato – ancora 
        fondata su modelli strategici legati al tempo della Guerra Fredda – 
        quanto delineando le ragioni di quella willings’ coalition di cui oggi, 
        per la prima volta, si è fatta l’esperienza in occasione della guerra 
        all’Iraq. Willings’ coalition che, tuttavia, non è semplicemente un 
        espediente occasionale, bensì un disegno strategico d’ampio respiro, 
        teso, nel tempo, a sostituire il vecchio sistema d’alleanze – in 
        particolare quello Atlantico – con una nuova coalizione saldata da una 
        comune visione del mondo, dei suoi problemi e dei passi necessari per 
        governarli e, almeno parzialmente, risolverli.
 
 Ed è proprio su questa comune visione che si è palesata la differenza 
        tra Usa e vecchi alleati europei. Quella differenza che ha portato alla 
        crisi dei rapporti tra Stati Uniti da un lato e Francia e Germania 
        dall’altro; ma che, in modo ancor più marcato, è stata resa evidente 
        dalla reazione negativa delle opinioni pubbliche europee di fronte 
        all’evoluzione della politica americana e, in particolare, in occasione 
        della guerra all’Iraq. Reazione che ha visto le principali capitali 
        d’Europa invase da folle di manifestanti contro la guerra; che hanno 
        palesato un’opposizione profonda – ancorché sovente confusa e 
        ideologicamente composita – alla politica imperiale degli Usa, trovando 
        alimento nelle prese di posizione di gran parte dell’intellighenzia 
        continentale e mettendo, di conseguenza, in seria difficoltà quei leader 
        politici e capi di governo che – come Blair, Aznar e lo stesso 
        Berlusconi – sembrano maggiormente orientati a sostenere la strategia 
        dell’alleato americano. E che ha, tra l’altro, determinato e rafforzato 
        le prese di posizione di Chirac e, soprattutto di Schroeder, incalzato 
        da pressanti esigenze elettorali. Opposizione dell’opinione pubblica, 
        che va letta, però, ben al di là delle pur rumorose e variegate folle di 
        manifestanti pacifisti, e che ha reso palese una profonda frattura 
        culturale. Opposizione, soprattutto, delle élite culturali e, in buona 
        parte almeno, politiche del Vecchio Continente, e che, per altro, gli 
        ideologi neoconservatives statunitensi avevano previsto con largo 
        anticipo, ed anzi analizzato e spiegato sul piano teorico. Già nel 
        giugno 2002, infatti, Robert Kagan – tra i neoconservative il più 
        attento e sensibile agli umori ed alle direttrici della cultura profonda 
        degli europei – ha delineato questa opposizione culturale tra Usa ed 
        Europa in un saggio “Power and Weakness”, pubblicato su Policy Review, 
        che ha messo a rumore il mondo della filosofia politica – e non solo 
        quello – divenendo una sorta di sintesi imprescindibile del problema.
 
 Kagan ha, infatti, ricondotto tutte le divisioni presenti tra Europa e 
        Usa, destinate, a suo avviso, ad accentuarsi nell’immediato futuro – e 
        in questo è stato buon profeta –, ad un’insanabile dicotomia culturale. 
        Una dicotomia che trova le sue radici profonde in due diverse visioni 
        del mondo, riconducibili da un lato a Hobbes, dall’altro a Kant. Da un 
        lato, quindi, la visione drammatica della storia come conflitto, l’homo 
        homini lupus trasposto sul piano dei rapporti tra popoli e nazioni; la 
        necessità, ineludibile, di cercare di porre ordine in un mondo caotico. 
        Necessità che richiede, obbligatoriamente, l’uso della forza. Correre, 
        quindi, dei rischi, assumersi oneri e responsabilità per garantire – in 
        primo luogo all’Occidente – un modello di vita, un modello sociale, la 
        prosperità economica. Dall’altro l’utopia kantiana della pace 
        universale, del governo mondiale capace di trascendere la realtà di 
        nazioni e popoli e, soprattutto, quella dei loro conflitti. Utopia che è 
        divenuta, dopo la seconda guerra mondiale, la sostanza fondante della 
        visione del mondo degli europei – o per lo meno della loro maggioranza – 
        e, soprattutto, il sogno dorato in cui si sono adagiate le élite 
        politiche e culturali del nostro continente. Due visioni diverse ed 
        inconciliabili. Ma, come avverte Kagan, il diffondersi dell’utopia 
        kantiana in Europa è stato possibile proprio perché gli Stati Uniti 
        hanno, per decenni, coperto con il loro ombrello politico e militare il 
        Vecchio Continente, proteggendolo e garantendone la sicurezza interna. 
        Così governi e popoli hanno potuto adagiarsi nell’illusione di uno 
        spazio di pace, che in verità è esistito solo in Europa occidentale ed è 
        stato reso possibile solo dal fatto che vi erano gli Usa, che 
        affrontavano le crisi e combattevano in tutti i quadranti del mondo in 
        difesa del modello occidentale.
 
 Ed in difesa, anche, della pace europea. La seconda metà del Novecento 
        non è stata un’era di pace se non per gli europei; nel resto del mondo è 
        stata, invece, contrassegnata da una serie interminabile di conflitti 
        sanguinosi e, soprattutto, dal confronto/scontro con l’impero sovietico. 
        Ovvero con un modello sociale, economico e politico radicalmente 
        alternativo a quello occidentale. La crisi dell’Urss è stata, poi, 
        erroneamente interpretata dalle élite europee – e quindi presentata ai 
        popoli dell’Europa – come la possibile fine di ogni conflitto, dell’era 
        delle guerre e delle contese. Al contrario, ha aperto – come teorizzato, 
        appunto, dai politologi statunitensi e segnatamente dai neoconservatives 
        – un nuovo periodo di incertezza e di disordini per certi versi ancor 
        peggiore di quello che lo ha preceduto. Di qui la necessità 
        dell’assunzione di nuove responsabilità globali, per le quali, però, le 
        élite europee sembrano essere poco attrezzate. Mancando loro, innanzi 
        tutto, una chiara visione del mondo: la capacità di leggere la realtà 
        per quella che è, violenta, aspra, pericolosa. E di agire di 
        conseguenza. Per scelta culturale, dunque, l’Europa preferisce ancora 
        adagiarsi nella speranza che tutte le tensioni possano venire risolte 
        occasionalmente in sede internazionale, attraverso organi sovranazionali 
        come l’Onu e con nuovi istituti come il Tribunale internazionale.
 
 Per Kagan e per i neoconservatori, invece, è palese che proprio l’Onu – 
        e con esso la Nato – e tutti i vecchi istituti costruiti negli anni 
        della Guerra Fredda si sono rivelati impotenti a governare questo nuovo 
        mondo pericoloso e violento. La crisi jugoslava lo ha dimostrato in modo 
        lampante. Di fronte alle emergenze della Bosnia e del Kosovo – che 
        avvenivano, tra l’altro, sulla soglia di casa loro – gli europei non 
        sono stati assolutamente capaci di trovare una qualche unità d’intenti e 
        d’azione, affidandosi solo alle parole ed alle deprecazioni formali 
        delle Nazioni Unite. Fino all’inevitabile, necessario, intervento 
        umanitario degli Usa di Clinton. Ma, per Kagan, la politica clintoniana 
        dell’intervento umanitario – sperimentata anche in Somalia – non era di 
        per sé sufficiente, essendo fondata sull’occasionalità. Necessitava, 
        anzi necessita di una strategia organica: una strategia che ridisegni 
        gli equilibri globali, individuando le aree del mondo a maggior rischio 
        e procedendo a disinnescarle attraverso una serie di interventi mirati. 
        Interventi che richiedono l’uso della forza, certo, ma che hanno anche 
        lo scopo di veicolare il primato del modello occidentale. L’unico 
        modello politico e sociale che ha sino ad oggi dimostrato di poter 
        garantire la democrazia, la libertà individuale e lo sviluppo.
 
 Gli europei, a questo punto, possono solo fare due cose. O rendersi 
        conto della realtà e, quindi, uscire dal loro spazio di pace kantiano e 
        gettarsi nel vasto e pericolo mondo hobbesiano, cooperando con gli Usa a 
        ridisegnare l’ordine del mondo; o continuare a vivere nella loro isola 
        felice, sperando che questa continui a venire garantita dalla forza 
        americana contro le minacce che provengono dal resto del globo. Kagan, 
        tuttavia, affettando comprensione per gli europei e le loro recenti 
        tradizioni culturali, ritiene che alla fin fine l’Europa, o meglio le 
        sue élite non siano pronte ad affrontare questa nuova realtà, e 
        soprattutto non siano capaci di sfidare l’impopolarità e la rivolta 
        delle loro opinioni pubbliche cresciute per decenni in una, 
        inconsapevole e, sostanzialmente, irresponsabile, isola kantiana di 
        pace. Di qui la necessità, per l’America di fare da sola La 
        teorizzazione, dunque, di quell’unilateralismo che ritroviamo inverato 
        nella politica dell’amministrazione di George W. Bush. Un tema quello 
        dell’unilateralismo, ripreso, poi, da altri politologi statunitensi. 
        Come Ronald D. Asmus e Kenneth M. Pollack che, in “The new Transatlantic 
        Project” – sempre in Policy Review dello scorso ottobre/novembre – hanno 
        tuttavia auspicato da parte degli europei una maggior comprensione della 
        situazione, affermando la necessità di una riedizione in termini moderni 
        della strategia di Truman. Strategia che andrebbe riletta in una nuova 
        chiave, fondata sulla comprensione del fatto che è in atto, oggi, uno 
        scontro con un nuovo nemico, identificabile con tutte quelle forze – e 
        quindi non solo e non tanto Stati, quanto, piuttosto, movimenti, 
        organizzazioni, fermenti culturali – avversi al modello occidentale. Un 
        nemico, quindi, comune sia agli Usa che all’Europa che, pur con i 
        necessari distinguo, su tale modello si fondano e che di tale modello 
        rappresentano la matrice. E poiché l’identificazione di un comune nemico 
        comporta la conseguente definizione dell’amico, il destino dei paesi 
        europei è quello di comprendere la necessità di un nuovo patto con i 
        cugini americani, volto a garantire i comuni interessi internazionali. 
        Una tesi nella quale si possono riscontrare, tra le altre, suggestioni 
        del famoso civilisations’ clash, teorizzato già all’inizio degli anni 
        Novanta da Huntington, e che gli avvenimenti recenti, in particolare 
        l’11 settembre, sembrano avere tragicamente confermato.
 
 Al di là dei due esempi citati – due fra i molti di una letteratura 
        politica statunitense straordinariamente ricca e fertile – è possibile 
        constatare come negli Usa si sia decisamente affermata una scuola di 
        pensiero politico fortemente innovativa e che, soprattutto, influenza 
        ormai in modo determinante la realtà della politica statunitense. Una 
        scuola, dunque, le cui teorie non restano chiuse nei pensatoi accademici 
        – come troppo spesso avviene nelle nostra Europa – ma finiscono con il 
        determinare i destini della maggior potenza mondiale. Una scuola, come 
        dicevamo, di impronta nettamente realistica, e quindi sostanzialmente 
        hobbesiana nella sua lettura della politica. E tuttavia nettamente 
        distinta dal vecchio realismo statunitense in forza di una ,originale, 
        sintesi tra realismo politico e messianismo democratico. Messianismo 
        democratico che ha le sue radici da un lato nell’incontro con alcuni 
        filoni particolarmente radicali del fondamentalismo protestante 
        trasferito sul piano politico, dall’altro nella radicata convinzione che 
        la missione dell’America sia quella di portare all’affermazione del 
        modello di democrazia occidentale – e quindi anche di società e di 
        economia – concepito come il migliore ed il più giusto possibile. Una 
        sintesi, secondo alcuni abnorme, di idealismo wilsoniano e di spietato 
        realismo, che può essere, certo, discussa. Ma non facilmente liquidata, 
        come tendono a fare troppi intellettuali europei, affetti da un, sempre 
        più ingiustificato e snobistico, complesso di superiorità. Intellettuali 
        che ricordano i raffinati ateniesi – o che ne sembrano, piuttosto, la 
        parodia – che guardavano con malcelato disprezzo i barbari romani. 
        Mentre i romani, però, conquistavano ed ordinavano il mondo conosciuto 
        secondo le loro leggi ed i loro schemi culturali.
 
 Un’unica cosa appare oggi certa. Da Baghdad in poi, la cultura europea 
        deve e dovrà sempre più misurarsi con questa nuova visione strategica e 
        filosofica della politica che viene d’oltre Oceano. Un confronto nel 
        quale si giocherà la possibilità di ridare all’Europa un ruolo 
        internazionale e, soprattutto, quella di permettere che un, eventuale, 
        nuovo ordine mondiale sia disegnato su schemi multilaterali e non 
        unilaterali. Ma per far questo le nazioni ed i popoli europei, con, in 
        primo luogo, le loro élite politiche ed intellettuali dovranno 
        scrollarsi di dosso molti pregiudizi e molti schematismi mentali ormai 
        frusti e sterili. E trovare il coraggio di uscire allo scoperto, 
        riportando la politica europea a navigare nel vasto, pericoloso Oceano 
        del Mondo, lontano da quell’isola di pace kantiana che rappresenta, 
        certo, l’altro volto dell’Occidente. Ma che, oggi, rischia di divenire 
        un’isola dei lotofagi, cechi di fronte ai segni dei tempi.
 
 4 luglio 2003
 
 (da Ideazione 3-2003, maggio-giugno)
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