| La svolta americana di Aldo G. Ricci
 
 Nessuna persona ragionevole può, onestamente, nutrire dubbi sul 
        carattere del regime che è scomparso in Iraq. Né sul perché la 
        resistenza sia stata superiore alle previsioni iniziali e inferiore ai 
        timori dei primi giorni di conflitto. Il carattere tribale del potere 
        spiega la battaglia, a volte disperata, dei non pochi privilegiati, 
        timorosi di perdere potere e vita, e l’inerzia impaurita della 
        maggioranza, umiliata comunque da un’invasione straniera. Pronta al 
        saccheggio e alla vendetta piuttosto che alla lotta di liberazione. 
        Saccheggio e vendetta che sono andati a di là delle previsioni, ma anche 
        di ogni altra esperienza precedente di crollo di una dittatura, ponendo 
        interrogativi e problemi sui quali occorrerà che gli specialisti dei 
        nuovi conflitti riflettano con attenzione. Ancora una volta le 
        preoccupazioni per un incendio del mondo arabo si sono dimostrate, 
        almeno per ora, infondate e l’unica risorsa che questa realtà è stata in 
        grado di mettere in campo si è ridotta al terrorismo suicida, per il 
        momento, fortunatamente, inferiore agli annunci apocalittici.
 
 Detto questo, tuttavia, rimane del tutto aperto il problema delle 
        prospettive che si aprono all’Occidente in questo avvio di dopoguerra. 
        Non è solo la tabula rasa che è stata fatta dei punti di riferimento 
        tradizionali: Onu, Nato, Ue. Si tratta di qualcosa di più, e cioè del 
        carattere destinato ad assumere l’unilateralismo americano, alla luce 
        della nuova strategia messa in atto dai registi della politica 
        dell’intervento preventivo. Una politica, lo abbiamo appreso dagli 
        specialisti, che era stata già enunciata da gruppi ristretti nel corso 
        degli anni Novanta, ma che solo dopo l’11 settembre ha trovato i 
        presupposti per diventare la linea operativa della Casa Bianca. Abbiamo 
        vissuto gran parte del periodo successivo al 1989, forse ingenuamente, 
        nella convinzione che ci si stesse avviando verso una politica di 
        concertazione basata sul diritto internazionale. In questa prospettiva, 
        la piaga palestinese e il mattatoio dei Balcani sembravano più delle 
        code del passato che delle anticipazioni dell’avvenire. Le decine di 
        guerre sparse per il mondo, dimenticate, non sembravano influire sulla 
        prospettiva di fondo. Ora dobbiamo, invece. prendere atto con 
        costernazione che le cose non stanno così. Ma qual è la nuova 
        prospettiva? E cosa comporta per quello spicchio di mondo dal quale 
        guardiamo gli avvenimenti sul più vasto palcoscenico? Su questi punti le 
        risposte divergono e mancano degli elementi oggettivi per trovare 
        conferme che vadano al di là delle posizioni di principio.
 
 Gli Stati Uniti d’America nuovo soggetto “imperiale”
 
 Cominciamo dal principale attore della nuova politica internazionale, 
        gli Stati Uniti. E proviamo a chiederci dove vada collocata la svolta e 
        quali ne siano le ragioni fondamentali. Ma anche se la svolta abbia 
        delle radici oggettive o sia interamente dipendente dalla natura della 
        maggioranza che ha, pur malamente, vinto le ultime presidenziali. E' un 
        terreno scarsamente esplorato, sul quale ci si deve necessariamente 
        muovere per tentativi, ma è un passaggio obbligato. Cominciamo 
        dall’ultima domanda. A mio giudizio, la natura della maggioranza ha 
        aggiunto un di più ideologico alla svolta, ma quest’ultima poggia su 
        basi oggettive, che vanno al di là della contingenza politica. Si 
        tratta, in termini rovesciati, di una situazione simmetrica a quella 
        dell’epoca del mondo bipolare. Allora la cortina di ferro e l’equilibrio 
        del terrore imponevano confini precisi all’iniziativa politica, che 
        entrambi i protagonisti conoscevano e non superavano. C’era una zona 
        franca all’interno della quale c’era spazio per le iniziative, che 
        potevano, queste sì, risentire dell’imprinting delle diverse leadership, 
        ma era una zona limitata.
 
 Tutto questo è saltato con l’89, ma dopo quel tornante simbolico non ci 
        si è avviati verso un nuovo ordine internazionale, magari sotto l’egida 
        di organismi internazionali rafforzati, come molti hanno in un primo 
        momento ritenuto, quanto piuttosto verso un disordine internazionale, 
        con molte variabili e incognite aperte, alcune delle quali 
        particolarmente pericolose. In questo nuovo scenario gli Stati Uniti si 
        sono trovati in una condizione di superiorità sul piano mondiale quale 
        non avevano mai conosciuto nella loro storia. Una condizione di 
        superiorità e di forza circondata tuttavia da un contesto estremamente 
        mutevole e ricco di realtà potenzialmente pericolose, dove i grandi 
        protagonisti del futuro, a cominciare dalla Cina, non risultavano però 
        ancora in grado di rappresentare un pericolo concreto per il colosso 
        americano. Il quale, inoltre, pur mantenendo un primato economico 
        indiscusso sul piano quantitativo, mostrava tuttavia chiari segni di 
        difficoltà su quello del rinnovamento del sistema produttivo, dove non 
        risultava più all’avanguardia, come era stato invece per decenni.
 
 Tutti questi fattori postulavano in qualche modo un’iniziativa su scala 
        mondiale che desse sbocco a questa potenzialità egemone (economica, 
        militare, politica), che traducesse la globalizzazione del mercato 
        all’insegna del made in Usa (anche se magari realizzata altrove) in un 
        rafforzamento delle sue posizioni sul piano strategico, in particolare 
        nelle aree dove il tempo rischiava di giocare a suo sfavore, a 
        cominciare dal Medio Oriente, ad alto rischio d’instabilità e sottoposto 
        alla pressione crescente di un integralismo sempre più aggressivo, 
        capace di usare alternativamente politica e terrore. Questi elementi 
        oggettivi configuravano, quindi, una sorta di direzione obbligata 
        d’intervento, pena altrimenti subire, in futuro, iniziative altrui in 
        condizioni di maggior debolezza. Per queste ragioni credo che si possa 
        sostenere che la strategia dell’iniziativa preventiva, anche militare, 
        abbia trovato una base oggettiva in questa situazione di disordine 
        internazionale e di mancanza, temporanea, di una partnership per l’unica 
        superpotenza sopravvissuta, e nella necessità quindi, per gli Stati 
        Uniti, di approfittare di una condizione di superiorità. Non 
        necessariamente destinata a prolungarsi indefinitamente, per assicurarsi 
        posizioni di sicurezza dalle quali affrontare in condizioni migliori le 
        incognite, questa volta davvero tali, del futuro quadro internazionale. 
        Un rafforzamento che, riguardando una realtà essenzialmente democratica, 
        non può non esser visto con favore dalle altre democrazie, spesso gelose 
        nei suoi confronti oltre il consentito.
 
 In questo contesto l’11 settembre, se sono esatte le considerazioni 
        svolte in precedenza, ha agito come punto di svolta, sufficiente per 
        varcare il Rubicone delle convenzioni internazionali, ma anche 
        acceleratore di una dinamica che aveva comunque, nel Dna del nuovo 
        disordine planetario, le condizioni oggettive per la nuova politica 
        dell’intervento preventivo. La vulnerabilità emblematica rivelata dal 
        crollo delle torri ha rappresentato l’inveramento della necessità di una 
        svolta nella politica internazionale degli Stati Uniti, che fosse in 
        grado di neutralizzare potenziali forze ostili evidenziate dal nuovo 
        terrorismo internazionale, anche superando i confini di Stati che 
        avevano intrattenuto rapporti di ambiguo collateralismo con le 
        organizzazioni terroristiche, o fornendo basi e ospitalità, o 
        alimentando proprie reti del terrore.
 
 In qualche modo, la tragedia dell’11 settembre ha mostrato che gli Stati 
        Uniti stavano correndo il rischio di perdere il treno della Storia, non 
        cogliendo le opportunità offerte dal momento egemonico che si trovavano 
        a vivere e subendo un attacco simbolico che avrebbe potuto (così era 
        nella strategia dei suoi registi) rappresentare un modello per Stati e 
        organizzazioni. Ma quella tragedia ha messo anche in evidenza che non 
        sarebbe stato sufficiente eliminare i responsabili diretti. Occorreva 
        anche mettere mano a un’area mediorientale che rischiava di diventare 
        terreno di coltura dell’integralismo estremistico. Mai come nelle 
        condizioni sopra descritte ci si trovava quindi di fronte a premesse 
        tali da richiedere una svolta radicale della situazione dell’area, 
        questione palestinese compresa.
 
 Tutto questo, al di là di accentuazioni ideologiche, potrebbe quindi 
        spiegare la svolta americana, fornendole una base oggettiva legata alla 
        necessità di difendere non solo i suoi interessi nazionali, ma anche la 
        sua stessa sicurezza. E tuttavia i limiti operativi di questa svolta 
        strategica sono macroscopici, sia sul piano tattico, nella gestione 
        dell’operazione Irak, sia nei confronti degli alleati tradizionali degli 
        Stati Uniti, europei in testa, trascurati nella fase di formulazione 
        della nuova strategia. Gli alleati del Vecchio Continente, da parte 
        loro, hanno la responsabilità di non aver colto, negli anni passati, le 
        novità del quadro internazionale, la necessità di un rafforzamento delle 
        posizioni in alcune aree a rischio, il pericolo evidenziato dall’iceberg 
        che stava sotto la punta dell’11 settembre.
 
 Per le modalità con cui è stata gestita l’operazione Iraq sarebbe 
        necessario un lungo discorso, da riservarsi ad altra occasione. Qui 
        basti dire che una strategia d’intervento come quella americana avrebbe 
        dovuto necessariamente comportare una migliore analisi delle possibili 
        variabili che si sarebbero potute aprire (e si sono poi effettivamente 
        aperte) sul terreno nel corso del conflitto e delle misure che avrebbero 
        dovuto comportare. Pur nell’eccezionalità imprevedibile del caos 
        iracheno successivo al crollo del regime, non è possibile che una forza 
        d’occupazione non metta in conto i problemi di ordine pubblico 
        successivi al crollo di un regime tribale e oppressivo (nel quale 
        partito e apparati s’intrecciavano a rivalità etniche e religiose), e 
        quelli della gestione dei rifornimenti e della sanità. Senza parlare 
        della politica dei due pesi e due misure con cui è stata gestita la 
        protezione degli impianti petroliferi e delle altre strutture del Paese. 
        La libertà lasciata a distruzioni devastanti di alto contenuto 
        simbolico, come quelle del Museo nazionale di Archeologia o della 
        Biblioteca nazionale denunciano un limite di strategia politica 
        evidente. Si tratta, infatti, di due catastrofi per la memoria storica 
        del paese difficilmente recuperabili e devastanti sul piano della 
        ricostruzione di un qualsiasi futuro.
 
 Il disordine di questi giorni dovrebbe comunque mettere in guardia sui 
        rischi di una balcanizzazione dell’area, con il pericolo di una guerra 
        strisciante di tutti contro tutti che andrebbe in una direzione 
        esattamente opposta agli obiettivi dell’intervento. Sarà su questo 
        punto, al di là di una indispensabile svolta nella gestione del ritorno 
        alla normalità, che si dovrà misurare la capacità politica di gestire la 
        fase non militare, e ben più difficile, dell’intera operazione.
        Lo strappo iracheno ha mostrato, anche a quanti ne avevano ancora 
        bisogno, la fragilità dell’Onu, questa sigla mitica dietro alla quale 
        tanti si nascondono, ma che ancora oggi vede e si muove sul pianeta 
        secondo quanto viene deciso altrove che si debba vedere o si debba fare. 
        E l’Onu potrà, quindi, anche svolgere un ruolo collaterale e umanitario, 
        o legittimare con la propria sigla una qualche sua presenza, ma nessuno, 
        almeno per un periodo indefinito, potrà più vedere nella sua 
        approvazione una discriminante della legittimità o illegittimità delle 
        operazioni internazionali.
 
 L’Europa dopo Baghdad: l’ora dell’esercito comune?
 
 Ma è soprattutto nei confronti dell’Europa che lo strappo ha avuto un 
        ruolo dirompente che è difficile sottovalutare. Un ruolo dirompente che 
        non vuol dire necessariamente negativo. Perché si tratta comunque di un 
        ruolo chiarificatore. Impegnati a discutere le formule della futura 
        Costituzione, come se ad essa stesse per corrispondere davvero un 
        prossimo Stato federale, gli europei, che pensavano di essersi salvati 
        l’anima con gli invii a cose fatte nei Balcani o in Afghanistan, di 
        fronte a una crisi vera si sono improvvisamente scoperti profondamente 
        divisi tra loro, legati esclusivamente alle proprie dinamiche nazionali. 
        Nel momento in cui hanno cominciato a suonare per davvero le trombe 
        della guerra ed è diventato inutile alternare viaggi tra le capitali o 
        riunioni pletoriche, ma bisognava rispondere con semplicità: sì sì, no 
        no, tutti o quasi hanno risposto a mezza bocca, e soprattutto con voci 
        singole, mai corali.
 
 Tra le tante ragioni per cui sarà ricordata la guerra dell’Iraq, una 
        sarà certamente per aver chiuso un capitolo del processo di unificazione 
        europea e averne aperto un altro ancora tutto da scrivere. Non serve in 
        questa sede tornare sulle ragioni che hanno indotto l’Inghilterra, 
        legata storicamente agli Usa, a condividerne fin dall’inizio la nuova 
        strategia globale; o Francia e Germania a muoversi d’anticipo e 
        autonomamente per bloccare l’iniziativa americana e un ulteriore 
        rafforzamento del suo primato nell’area mediorientale. Sono realtà su 
        cui già si è detto quasi tutto e alle quali non si può pensare di 
        rimediare con una ricucitura, per usare la formula che qualcuno ha 
        utilizzato. All’Europa tutto serve meno che una ricucitura che lasci 
        immutate le differenze tra le parti. Quello che serve davvero è un esame 
        di coscienza politico da parte delle componenti storiche fondanti 
        dell’Unione europea sulle ragioni del loro stare insieme nel nuovo 
        quadro internazionale che si è aperto dopo la fine del mondo bipolare. 
        Un esame politico quindi, che lasci da parte quote latte o formule più o 
        meno accattivanti della nuova costituzione, o ancora allargamenti 
        iperbolici dell’Unione europea nelle direzioni più imprevedibili, in 
        quanto tutta la storia recente dell’organizzazione è la dimostrazione 
        provata che il numero nel nostro caso non è potenza, per usare un 
        vecchio adagio.
 
 Un esame politico vuol dire ragionare sugli interessi 
        nazionali di ciascun paese nel nuovo contesto internazionale creatosi 
        dopo la fine della divisione del mondo in due blocchi. Sul volto della 
        nuova Europa caratterizzata dai paesi ex sovietici che non sanno se 
        coagularsi nell’Unione o saltare direttamente sul carro americano. Sul 
        futuro del Medio Oriente e in particolare dell’area mediterranea, 
        essenziali per qualunque Europa futura. Ma soprattutto sui rapporti con 
        l’alleato americano all’ombra del quale si è goduto per decenni di una 
        sicurezza senza oneri, ma che oggi potrebbe presentare un conto politico 
        che non tutti sembrano disposti a pagare.
 
 Sono alcuni degli interrogativi, appena abbozzati, ai quali occorre dare 
        risposte chiare, senza le quali non servirebbe neppure unificare la 
        politica estera, o avviare un timido abbozzo di esercito comune, perché 
        qualsiasi organismo, anche operativo, sarebbe impotente se non avesse 
        alle spalle una strategia politica comune, fondata su scelte esplicite e 
        condivise, motivate da identità di interessi, materiali e ideali. In 
        mancanza di tutto questo, come ho avuto modo di scrivere qualche mese fa 
        su questa rivista a proposito di identità europea; in mancanza insomma 
        di un salto qualitativo vero dell’Unione basato su una svolta politica 
        all’altezza delle sfide dei tempi, alcune stelle della bandiera europea 
        finirebbero per aggiungersi alla chetichella, anche se non 
        ufficialmente, a quella della bandiera a stelle e strisce. Quale che sia 
        la conclusione del processo che si è messo in moto dopo la svolta 
        impressa dalla guerra in Iraq, essenziale è comunque che le scelte 
        vengano fatte nella chiarezza, perché i tempi non consentono 
        bizantinismi e ambiguità, in particolare per l’Europa che si trova in 
        grave ritardo rispetto ai ritmi di cambiamento della scena 
        internazionale. Il ritardo più drammatico è quello politico, nel senso 
        sostanziale e crudo del termine. Ma altrettanto grave è quello militare.
 
 Il lusso di una democrazia disarmata, come gran parte dell’Europa ha 
        potuto consentirsi sotto l’ombrello Nato ormai non è più in sintonia con 
        i tempi, quali che siano le risposte che verranno date dall’Ue agli 
        interrogativi sopra citati, rapporti con gli Usa compresi. Il futuro che 
        abbiamo davanti, almeno per un lungo periodo, non è, insomma, quello di 
        un mondo regolato dagli organismi internazionali, ai quali basta 
        appellarsi per far valere il proprio buon diritto. E' un futuro in cui i 
        rapporti di forza saranno determinanti e le democrazie, che tra loro, 
        pur polemizzando, non hanno mai combattuto, dovranno sacrificare parti 
        elevate dei loro bilanci (come fanno da sempre gli Usa) per risultare 
        sempre e comunque più forti dei ben più numerosi paesi non democratici 
        che le circondano. La Pace perpetua, giustamente indicata da Kant come 
        un progetto di riferimento di una politica fondata sul rispetto dei 
        diritti civili e politici, non è dietro l’angolo, e solo la forza delle 
        democrazie, con i sacrifici che comporta, può far sì che questa 
        prospettiva non si riduca a mera utopia, ma resti un obiettivo per il 
        quale operare, pur con il realismo che la dimensione politica impone.
 
 4 luglio 2003
 
 (da Ideazione 3-2003, maggio-giugno)
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