Le tre vittime del fuoco amico
di Sergio Romano
Sapevamo che la guerra irachena avrebbe avuto molte ripercussioni
sull’ordine mediorientale. Ma non potevamo immaginare che avrebbe avuto
effetti ancora più rapidi sull’ordine internazionale, e in particolare
sull’ordine europeo. Il Consiglio di sicurezza è stato teatro di duri
scontri fra opposte strategie ed è divenuto, alla fine, irrilevante. La
Nato ha accolto la tesi americana sull’obbligo dei suoi membri di
proteggere la Turchia dalla minaccia irachena, ma dopo discussioni che
hanno paralizzato per alcuni giorni il funzionamento del Consiglio
atlantico e lasciato tracce di reciproco risentimento. L’Unione Europea
si è irrimediabilmente spaccata, non tanto sulla minaccia irachena (a
cui neppure gli inglesi, probabilmente, attribuivano grande importanza),
quanto sul problema dei rapporti con gli Stati Uniti. Il maggiore
compito dei prossimi anni non è la ricostruzione dell’Iraq, ma delle tre
organizzazioni internazionali che sono state per molto tempo, in misura
diversa, i maggiori contrafforti della società internazionale. Il lavoro
è già cominciato. In un vertice a Bruxelles, verso la fine di marzo, i
leader dell’Ue hanno cercato di concentrarsi su prospettive di interesse
comune. In Irlanda del Nord, durante un incontro con George W. Bush, il
primo ministro britannico ha ottenuto una dichiarazione congiunta in cui
si assicura che l’Onu avrà, nella ricostruzione dell’Iraq, un ruolo
“vitale”. E a Bruxelles, sede del Consiglio atlantico, qualcuno pensa
addirittura che la Nato potrebbe intervenire in Iraq, dopo la fine delle
operazioni, per presidiare il territorio e garantire la pace. Peccato
che ciascuno di questi tentativi affronti i sintomi del male piuttosto
che le sue cause. La guerra poteva essere evitata, ma ha avuto il
merito, paradossalmente, di portare alla luce i vizi e i difetti
dell’Onu, della Nato e dell’Ue. Li conoscevamo, ma sapevamo che gli
uomini politici non amano affrontare i problemi con preveggenza e non
cercano quasi mai di aggiustare una macchina finché non si accorgono che
è rotta o inceppata. Oggi le macchine delle tre maggiori organizzazioni
internazionali sono certamente inceppate, e nessuna riparazione potrebbe
restaurarne la credibilità. Proviamo a esaminare i mali da cui sono
afflitte.
Cominciamo dall’Onu. A me parve che la posizione francese fosse giusta.
Ma se gli Stati Uniti avessero corso il rischio di un voto sulla
risoluzione britannica e se la Francia si fosse servita, per impedirne
l’approvazione, del diritto di veto, la situazione sarebbe stata
politicamente assurda. In una tavola rotonda alla Facoltà di scienze
politiche dell’Università di Genova, nello scorso marzo, Boris Biancheri
osservò che nel 1945, quando fu approvata la Carta delle Nazioni Unite,
la Francia e la Gran Bretagna avevano un impero coloniale e
controllavano, insieme, più di due terzi del pianeta. Avrebbe potuto
aggiungere che l’Unione Sovietica, nel frattempo, ha cessato di esistere
e che l’India (una potenza nucleare, abitata da più di un miliardo di
persone) non è meno importante della Cina. E’ giusto che, sessant’anni
dopo, la composizione e le procedure del Consiglio di sicurezza
riflettano ancora gli equilibri e le gerarchie dell’immediato
dopoguerra? Aggiungo, a scanso di equivoci, che la situazione sarebbe
stata altrettanto assurda se l’America avesse moralmente neutralizzato
il veto francese con una maggioranza composta, tra l’altro, dal Messico,
dall’Angola e dalla Guinea. Può una risoluzione di tale importanza avere
una rilevanza politica quando è votata da piccoli paesi africani, non
particolarmente democratici, o da Stati che hanno modesti rapporti con
la regione in cui scoppierà la guerra?
A cosa servono oggi le Nazioni Unite?
L’Onu diverrà credibile soltanto quando avrà risolto il problema della
rappresentanza del Consiglio di sicurezza. Le soluzioni, in teoria,
esistono. E’ possibile, ad esempio, creare la categoria dei membri
semipermanenti (una proposta in tal senso fu avanzata dall’Italia negli
anni Novanta) e garantire così una maggiore presenza ai colossi
demografici: India, Indonesia, Brasile. E’ possibile sopprimere il
diritto di veto e introdurre maggioranze qualificate o ponderate con cui
si tenga conto di alcuni fattori: popolazione, prodotto interno lordo,
rilevanza della questione per il paese che dovrà dare il suo voto. I
tentativi riformatori si scontreranno con molti ostacoli e, in primo
luogo, con la diffidenza dell’amministrazione Bush per la maggiore
organizzazione internazionale. Ma i fautori della riforma potranno
servirsi di un buon argomento. Potranno sostenere che la guerra
preventiva, teorizzata dagli Stati Uniti, può essere effettivamente in
alcuni casi l’unica risposta possibile alla nuova minaccia rappresentata
dalle organizzazioni terroristiche e dagli Stati irresponsabili. Ma
rende l’Onu ancora più necessaria di quanto non fosse in passato. Senza
un notaio internazionale, autorizzato a certificare l’esistenza di una
minaccia, ogni Stato si riterrebbe autorizzato, prima o dopo, a farsi
giustizia da sé. Anche nel dibattito al Consiglio atlantico, la
posizione della Francia, della Germania e del Belgio mi sembrò giusta.
Quando sostennero che i soci della Nato avevano l’obbligo di difendere
la Turchia dall’Iraq, gli Stati Uniti cercavano di ottenere
dall’organizzazione un implicito avallo delle tesi che non potevano
imporre al Consiglio di Sicurezza.
Proviamo a immaginare uno scenario improbabile, ma allora teoricamente
possibile. Dopo avere incassato la garanzia della Nato, gli Stati Uniti
ottengono dalla Turchia il diritto di stanziare le loro truppe nel suo
territorio e di attaccare l’Iraq da Nord. La guerra scoppia e le forze
americane entrano nel paese da due direzioni. Ma l’Iraq reagisce,
respinge gli americani al di là della frontiera e lancia un
contrattacco. Tutti i membri della Nato, indipendentemente dalla
posizione che alcuni di essi hanno assunto all’Onu, sono da quel momento
in guerra contro l’Iraq. Le cose, come sappiamo, sono andate molto
diversamente. Ma è giusto pretendere che l’Alleanza atlantica divenga lo
strumento della politica americana per scopi che non hanno nulla a che
vedere con le ragioni storiche della sua esistenza e le finalità del
trattato?
Ciò che è accaduto a Bruxelles alla vigilia della guerra irachena, del
resto, non è che l’ultimo sussulto della crisi che ha colpito l’Alleanza
dopo la fine della Guerra Fredda e la morte del nemico per cui era stata
creata. Gli americani decisero di conservarla perché legittimava la loro
presenza in Europa e faceva degli Stati Uniti, a tutti gli effetti, una
potenza europea. Gli europei rifiutarono di prendere in considerazione
l’ipotesi del suo scioglimento perché la scomparsa dell’organizzazione
li avrebbe costretti ad accettare la responsabilità della propria
sicurezza: una prospettiva a cui molti di essi erano politicamente ed
economicamente impreparati. Più tardi, in Bosnia e in Kosovo, la Nato
cercò d’interpretare una nuova parte e divenne un’organizzazione per la
sicurezza collettiva del continente europeo. Ma in Kosovo scavalcò il
Consiglio di Sicurezza e non tenne alcun conto della volontà della
Russia.
Può un’organizzazione per la sicurezza collettiva prescindere dalla
volontà dell’Onu e, soprattutto, tenere fuori della porta una delle
maggiori potenze del continente di cui vuole essere il gendarme?
L’errore fu parzialmente corretto al vertice di Pratica di Mare nel
luglio del 2001 quando la Russia fu invitata a far parte di un nuovo
consiglio della Nato. Ma da quel momento l’organizzazione ebbe due
vertici e divenne un Giano bifronte: per metà alleanza, per metà
organizzazione di sicurezza collettiva. Non era difficile immaginare che
le due missioni sarebbero divenute, prima o poi, difficilmente
compatibili. Più tardi, dopo gli attacchi terroristici dell’11
settembre, la Nato ebbe finalmente un nuovo nemico, il terrorismo, e
dichiarò guerra all’Afghanistan, di fatto, invocando a vantaggio degli
Stati Uniti l’applicazione dell’art. 5 del trattato (una guerra contro
uno è una guerra contro tutti). Ma l’America, dopo avere ottenuto questa
dimostrazione di lealtà, preferì agire da sola, con l’aiuto dei cugini
britannici. Non aveva alcuna intenzione di ripetere l’esperienza del
Kosovo, allorché gli europei avevano “preteso” di decidere
collegialmente i bersagli che gli aerei americani avrebbero colpito
nelle ore seguenti. La diffidenza americana per questi comitati era
comprensibile.
La colpevole e rassegnata latitanza dell’Europa
Ma è giusto che un’organizzazione certifichi la legittimità di una
guerra e non abbia il diritto di pronunciarsi sul modo in cui è
combattuta? Più recentemente, in una situazione in cui il ricorso alla
guerra era ancora più discutibile, gli americani hanno tentato la stessa
operazione e hanno dimostrato ancora una volta che la Nato è utile, per
Washington, soltanto quando si adatta docilmente alle esigenze del
momento. Potrà sopravvivere e dimostrare ancora una volta la sua
utilità. Ma soltanto se i suoi soci si accorderanno con maggiore
chiarezza sulle sue nuove funzioni. E veniamo così all’Unione Europea,
vale a dire all’organizzazione che maggiormente ci concerne e da cui
dipende il nostro futuro. Dopo la creazione del mercato unico e
l’adozione dell’euro, sapevamo che il processo d’integrazione era ormai
entrato in una fase nuova. Non è possibile avere tanti beni comuni (il
mercato, la moneta, l’agricoltura, la politica commerciale con il resto
del mondo, l’assistenza alle regioni meno sviluppate dell’Unione) e
mancare al tempo stesso di almeno due fondamentali strumenti: il
ministro dell’Economia e il ministro degli Esteri. Non basta: i paesi
candidati non potevano restare indefinitamente in sala d’aspetto e
occorreva prepararsi ad affrontare i problemi politici e istituzionali
di una “entità” (il termine generalmente usato quando si vogliono
evitare parole più impegnative come Stato o Federazione) che avrebbe
avuto ben presto venticinque soci. La somma di questi due fattori
(completare il lavoro fatto, neutralizzare gli inconvenienti
dell’allargamento) ha prodotto, come sappiamo, la Convenzione europea,
vale a dire, se gli europei non avessero paura delle parole,
un’Assemblea costituente.
Su questa fase critica è caduta come un fulmine, negli scorsi mesi, la
guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq. La Gran Bretagna ha obbedito
alle sue scelte storiche e si è schierata immediatamente a fianco degli
Stati Uniti. La Francia ha temuto di perdere la propria influenza nel
mondo arabo e si è servita del pacifismo tedesco per rimettere in scena
una versione nuova, particolarmente arrogante, dell’asse franco-tedesco.
Spagna e Italia hanno fatto a gara per conquistare il titolo di “miglior
partner” degli Stati Uniti nel continente. E i paesi candidati,
proclamando il loro appoggio all’America, hanno dimostrato la verità di
un vecchio broccardo della politica internazionale secondo cui i paesi
piccoli o velleitariamente nazionalisti preferiscono un padrone lontano
a un protettore vicino. Ma l’aspetto più interessante di questa
cacofonia europea è la straordinaria omogeneità delle società dei paesi
dell’Unione, tutte preoccupate dalla guerra e poco convinte della
necessità della scelta americana. Mentre i governi avevano atteggiamenti
diversi, dettati da specifici orientamenti o convenienze, i “popoli”
parlavano tutti, più o meno, la stessa lingua. Il risultato di questa
frattura è stato così, paradossalmente, più unitario di quanto non fosse
lecito prevedere. Tutti i paesi dell’Unione a Sud della Manica si sono
comportati come “non belligeranti” e hanno adottato la stessa linea.
Quelli che avevano deciso di stare con gli Stati Uniti hanno concesso
agli americani l’uso delle basi e il diritto di sorvolo, ma non hanno
mandato soldati. E quelli che avevano criticato l’America hanno finito
per concedere le basi o il diritto di sorvolo. Lo stesso governo
britannico si è visto costretto a tener conto degli umori del paese e ha
cercato di dare una Dailyvalenza europea alla sua partecipazione al
conflitto. Secondo Tony Blair occorre affidare all’Onu il compito di
sovrintendere alla ricostruzione economica e politica del paese; e, in
secondo luogo, rilanciare rapidamente, con un calendario preciso, il
processo interrotto per la costituzione di uno Stato palestinese. Il
ritorno dell’Onu, dopo le spaccature del Consiglio di Sicurezza nelle
scorse settimane, servirebbe a gettare un ponte verso i paesi che si
sono maggiormente opposti alla politica americana. La promessa di uno
Stato palestinese servirebbe a disinnescare la bomba dell’indignazione e
delle frustrazioni arabo-musulmane. Sono obiettivi ragionevoli, a cui
gli americani non sembrano particolarmente sensibili. Quanto diversa
sarebbe stata probabilmente la politica degli Stati Uniti nel Vicino
Oriente se queste esigenze fossero state prospettate da un ministro
degli Esteri europeo, autorizzato a parlare per tutti i paesi
dell’Unione.
Le recriminazioni sono inutili. Ma la convinzione che tutto, alla fine,
“si aggiusterà”, sarebbe pericolosa. Valgono per l’Unione europa le
stesse conclusioni a cui siamo giunti per l’Onu e la Nato. Rattoppare,
ricucire, medicare e addolcire sono ricette inutili o, peggio,
pericolose. Dopo la guerra irachena nessuna delle tre maggiori
organizzazioni internazionali potrà attaccare alla porta il cartello
“business as usual”.
4 luglio 2003
(da Ideazione 3-2003, maggio-giugno) |