| Do you remember Baghdad? di Fabio Angelicchio
 
 Gli iracheni, senza ombra di dubbio, hanno accolto con entusiasmo 
        l’ingresso dei marines a Baghdad. Dopo ventiquattro anni di regime 
        oppressivo e sanguinario il loro Paese è stato liberato dal temutissimo 
        e brutale rais e dal suo apparato di potere che aveva contaminato con i 
        suoi gangli anche ogni più remoto aspetto della vita quotidiana. La 
        paura, la tortura, la censura avevano creato una prigione psicologica 
        dalla quale era impossibile sfuggire e che loro stessi pensavano sarebbe 
        stato impossibile abbattere. Quando ancora mi trovavo nella capitale 
        irachena, una mattina fermai una macchina chiedendo al suo conducente di 
        condurmi fino all’albergo. Il mio intento in quei giorni non era quello 
        di trovare un taxi, ma di determinare ogni occasione di contatto con la 
        popolazione per poter comprendere meglio il reale stato d’animo degli 
        iracheni rispetto a un evento dalla portata storica come quello 
        dell’arrivo degli americani a Baghdad. A darmi un passaggio con la sua 
        vecchia Fiat fu Salman, un ingegnere di cinquantadue anni. Mentre 
        chiacchieravamo a bordo della sua auto – senza freni, mi spiegò, per via 
        dell’impossibilità di reperire pezzi di ricambio – passammo davanti ad 
        uno degli edifici della polizia segreta, allora in fiamme dopo essere 
        stato colpito dalle bombe americane. “Lo sai cos’è quello?“ mi chiese. 
        “E’ uno dei palazzi della polizia di Saddam. Chi entrava lì non usciva 
        più. Ma io ci sono entrato tante volte, e ne sono uscito, perché mi 
        occupavo della manutenzione dell’impianto dell’aria condizionata” mi 
        disse ridendo. Gli chiesi allora esplicitamente, adesso che poteva 
        esprimere liberamente la sua opinione, cosa pensasse realmente della 
        caduta di Saddam. Mi rispose che il rais “era un uomo che meritava di 
        essere scacciato”, ma mi confidò anche che per tenere unito un paese 
        come quello era necessario che alla guida dell’Iraq ci fosse “un uomo 
        carismatico e forte come Saddam”. Purché non fosse più Saddam. Questo 
        breve episodio raccolto tra la gente dà il senso del rapporto che gli 
        iracheni avevano con il loro dominus assoluto. Ma fin dai pirmi giorni 
        il vero problema iracheno è stato la presenza di soldati stranieri 
        occidentali nel paese.
 
 Il coprifuoco leggero
 
 Quando, dopo avere preso il controllo di Baghdad, le autorità 
        statunitensi hanno decretato il “coprifuoco leggero”, nelle righe 
        conclusive del volantino distribuito agli abitanti è stato 
        esplicitamente sottolineato il carattere “temporaneo” della loro 
        presenza sul territorio, in quanto “ospiti”. Ma se andiamo a leggere 
        quanto dispone la risoluzione 1483, la terza, votata ed approvata 
        all’unanimità in sede Onu lo scorso 22 maggio – con la sola astensione 
        della Siria – proprio a proposito della durata dell’occupazione delle 
        forze della coalizione in Iraq, è scritto testualmente che durerà “sino 
        a quando non sarà insediato un nuovo governo riconosciuto a livello 
        internazionale”. Ovvero si è di fatto superato il carattere temporale 
        che configurava un mandato di dodici mesi – rinnovabile – come invece 
        inizialmente prospettato. A distanza di oltre due mesi dalla fine delle 
        ostilità, il segretario alla Difesa statunitense, Rumsfeld, ha avvertito 
        però che la transizione a un governo democratico in Iraq non può essere 
        fatta in fretta: “Quanto tempo ci vorrà, non lo so”. Dopo il fallimento 
        di un’intesa tra l’opposizione irachena e il responsabile per gli Usa, 
        Paul Bremer, il clero sciita ha chiamato la popolazione alla 
        mobilitazione. Una delle principali guide spirituali degli sciiti, 
        Mohammed Fartousi, intervenendo nella preghiera del venerdì ha detto 
        esplicitamente di “non volere che uno straniero guidi il paese”. La 
        replica di Bremer e del rappresentante inglese, Sawers, è stata netta: 
        “Non ci sarà nessun governo provvisorio iracheno e noi resteremo al 
        comando finché lo riterremo opportuno”. Sulla polemica è intervenuto 
        anche il presidente degli Stati Uniti. Bush ha ricordato che “gli 
        iracheni sono stati liberati grazie a noi. Trovo ingiusto perciò che si 
        usi il termine occupazione. Gli Stati Uniti ed i loro alleati hanno 
        fatto la guerra perché gli iracheni possano darsi un loro governo, 
        perché il petrolio consenta di finanziare la ricostruzione dell’Iraq. Ma 
        queste cose – ha concluso Bush – sono cose per cui serve tempo”. Ma è 
        forse questo il punto che gli iracheni non riescono ad accettare. Molte 
        delle persone con le quali ho avuto occasione di parlare all’indomani 
        della caduta di Saddam mi hanno detto che immaginavano che una volta 
        deposto il rais, anche le truppe della coalizione avrebbero lasciato il 
        paese in quanto sarebbe venuto meno il motivo della loro presenza. 
        Certamente però non risiede unicamente in questa “occupazione” il motivo 
        degli attacchi che ancora adesso vengono portati contro i soldati 
        americani, provocando quotidianamente la morte di alcuni di loro. Non va 
        dimenticato infatti che in Iraq la componente etnico-religiosa ha un 
        grosso peso. Ci sono gli sciiti, i curdi, i sunniti. Ed ognuno di questi 
        gruppi vorrebbe, in realtà, prendere il controllo del territorio per 
        poterlo amministrare sotto l’egida della rispettiva autorità religiosa.
 
 Le Nazioni Unite, nel frattempo, a dispetto del ruolo marginale avuto 
        nell’intervento armato in Iraq, hanno ripreso pienamente la loro 
        autorevolezza riconoscendo lo status di “potenza occupante” agli Stati 
        Uniti ed alla Gran Bretagna, riuscendo ad ottenere il rientro degli 
        ispettori e l’abolizione delle sanzioni oil for food – petrolio in 
        cambio di cibo – imposte all’Iraq dopo l’invasione del Kuwait 
        nell’agosto del 1990. All’indomani dell’approvazione della 1483, 
        l’amministratore statunitense della regione, Paul Bremer, ha annunciato 
        lo scioglimento dell’esercito nazionale e la riorganizzazione dei 
        ministeri, azzerando di fatto l’organizzazione “istituzionale” del 
        paese. La risoluzione delle Nazioni Unite ha anche previsto la creazione 
        di un fondo speciale che gestirà i proventi delle esportazioni 
        petrolifere del paese fino all’insediamento di un nuovo governo. 
        Naturalmente non è rientrata tra le sanzioni abolite quella sul 
        commercio delle armi; così come resta il divieto di commerciare con ex 
        membri del partito Baath, peraltro sciolto.
 
 Proprio la questione del petrolio, di cui l’Iraq è il terzo paese al 
        mondo per quanto concerne le riserve, e delle relative concessioni, 
        merita particolare attenzione. La Casa Bianca da sempre aveva sostenuto 
        che l’intervento nel paese aveva come unico obiettivo quello di 
        scacciare Saddam Hussein e di rimuovere il suo regime privandolo delle 
        armi di distruzione di massa; mentre a proposito del petrolio, è stato 
        più volte detto che è “dell’Iraq e appartiene al popolo iracheno”. In un 
        editoriale di qualche settimana fa, il giornale governativo di Damasco, 
        Al Thawra, tra l’altro scriveva che il testo presentato in consiglio di 
        sicurezza Onu intende “controllare la ricchezza dell’Iraq e gestirla 
        contro la volontà del popolo. Ed è lo stesso motivo per cui l’Iraq è 
        stato occupato”. E per la verità anche il capo degli ispettori dell’Onu, 
        Hans Blix, in un’intervista alla Bbc ha puntato il dito contro la Casa 
        Bianca, affermando che “a giudicare dalla discussione in corso negli 
        Usa, c’erano diversi altri motivi, oltre a quello delle armi di 
        distruzione di massa, che hanno spinto gli alleati a intraprendere 
        l’azione militare”. L’amministrazione Bush ha sempre respinto al 
        mittente le accuse di volersi impadronire dei pozzi di greggio della 
        regione. Il deputato democratico Henry Waxman ha innescato negli Usa una 
        polemica rovente, segnalando che la compagnia statunitense Halliburton, 
        che aveva tra i suoi dirigenti l’attuale vicepresidente degli Usa, Dick 
        Cheney, ha ottenuto, senza gara d’appalto, un contratto che nei prossimi 
        due anni frutterà alla società proventi per sette miliardi di dollari. 
        Per contro sono stati cancellati o sospesi tre diversi contratti per 
        diritti di esplorazione petrolifera per i pozzi di West Qurna e per i 
        campi di Al Ahdab, siglati dal regime di Saddam con compagnie russe e 
        cinesi. Il ministro del Petrolio, Thamir Ghadhban, ha comunque 
        assicurato che nell’assegnazione dei nuovi contratti tutte le compagnie 
        internazionali saranno considerate in modo “onesto e giusto”; comprese 
        le compagnie di quei paesi che si erano opposti alla guerra. 
        Paradossalmente proprio in questi giorni l’Iraq è costretto ad importare 
        benzina e gas per uso domestico dai paesi arabi limitrofi con file ai 
        distributori che arrivano anche a tre giorni di attesa.
 
 Il confinante iraniano
 
 Tra i paesi che la Casa Bianca ha inserito nell’asse del male, oltre 
        all’Iraq (ed alla Corea del Nord), c’è adesso l’Iran. Esistono una serie 
        di analogie ed elementi comuni tra il deposto regime di Saddam e quello 
        di Khatami. Il petrolio, la posizione strategica, l’accusa di possedere 
        armi biologiche, il programma nucleare e la presunta ospitalità concessa 
        ad esponenti di spicco dell’organizzazione terroristica di Al Qaeda, 
        gettano un’ombra inquietante sugli scenari futuri. Ma la questione Iran 
        costituisce anche uno dei principali nodi nei rapporti tra le 
        superpotenze cinese, russa ed americana. Gli Stati Uniti sono stati 
        costretti a imporre un bando commerciale al colosso industriale cinese 
        Norinco, accusato di fornire tecnologia missilistica all’Iran. Pechino 
        si è difesa definendo “irragionevole” l’iniziativa statunitense. Anche 
        con Mosca, Washington ha espresso tutto il suo disappunto per la vendita 
        di tecnologia a Teheran; in particolare per la collaborazione che la 
        Russia ha offerto a Khatami nella costruzione della centrale nucleare di 
        Boucher, nel Sud del paese. Il Cremlino, attraverso il ministro 
        dell’Energia atomica, Rumiantsev, ha replicato proponendo agli Usa di 
        collaborare nella realizzazione del sito. Ma nonostante Washington abbia 
        chiesto del tempo per riflettere sull’offerta, tutto lascia intendere 
        che difficilmente la proposta russa potrà smontare le accuse americane 
        di usare la costruzione di Boucher come copertura per un programma di 
        armamenti nucleari, proibito dal Trattato di non proliferazione firmato 
        anche da Teheran. E’ dovuto scendere in campo anche il presidente russo 
        per tranquillizzare la Casa Bianca. Putin ha infatti ammonito Khatami 
        che sospenderà tutte le consegne di combustibile nucleare fino a quando 
        l’Iran non sottoscriverà un accordo che consenta l’ingresso degli 
        ispettori dell’Aiea, l’agenzia internazionale per l’energia atomica.
 
 L’amministrazione Bush appare comunque divisa rispetto al problema-Iran. 
        Da una parte il vicepresidente Cheney e il ministro della Difesa, 
        Rumsfeld, appoggiano la linea dura, dall’altra il Dipartimento di Stato 
        ed il Consiglio per la Sicurezza nazionale, propendono per un appoggio 
        più morbido. Certo è che l’Iran si trova in una posizione scomoda quanto 
        strategica; e soprattutto come l’Iraq, è ricchissimo di petrolio. La sua 
        collocazione geografica rende il paese geopoliticamente importante non 
        soltanto perché viene ad essere una sorta di cerniera tra il Medio 
        Oriente e l’Asia Centrale, ma in particolare perché il suo territorio 
        costituisce il percorso ottimale e naturale per l’attraversamento degli 
        oleodotti e dei gasdotti asiatici. Secondo indiscrezioni raccolte dalla 
        Cnn alla fine di maggio, nell’amministrazione Bush si starebbe facendo 
        sempre più largo l’ipotesi che l’Iran possa rappresentare in futuro un 
        grave pericolo per gli equilibri politici mondiali e la sicurezza degli 
        stessi Stati Uniti. Per questo, rivela una fonte del Pentagono, starebbe 
        prendendo piede l’ipotesi di mettere in atto una serie di mosse tese a 
        disinnescare e destabilizzare il regime di Teheran nella speranza di una 
        sollevazione interna. “Gli Stati Uniti – ha però tenuto a precisare il 
        segretario di Stato Colin Powell – non hanno, per il momento, alcun 
        piano per intraprendere un intervento militare contro l’Iran”. Ma 
        certamente le anticipazioni fatte in proposito dalla stampa russa, 
        secondo le quali si starebbe già lavorando ad un piano di intervento, 
        suscitano qualche legittima perplessità. L’autorevole Nezavissimaia 
        Gazeta, citando fonti diplomatiche, ha rivelato che Washington avrebbe 
        preparato un’operazione militare contro l’Iran da sferrare a partire dal 
        territorio iracheno, e che prevederebbe anche l’uso di basi militari 
        della Georgia e dell’Azerbaidjan. L’azione militare dovrebbe sommarsi ad 
        un’insurrezione popolare sulla quale farebbe affidamento il Pentagono. 
        Washington starebbe anche lavorando ad una legge ad hoc, l’Iran 
        Democracy Act, sulla base del quale verrebbero stanziati oltre 50 
        milioni di dollari per finanziare i gruppi interni dell’opposizione e 
        consentirgli di promuovere un referendum sulla democrazia.
 
 Le cronache, recentemente come non mai, stanno puntando sempre più la 
        loro attenzione sull’Iran, dando forte risalto ad eventi che pur essendo 
        parte della vita quotidiana di Teheran già da prima della guerra a 
        Saddam, non erano noti al mondo occidentale. Alcuni esempi ripresi nelle 
        ultime settimane dalle agenzie di stampa internazionale possono aiutare 
        a comprendere meglio. 13 maggio, Sistan Balucistan, Sud-Est dell’Iran: 
        “Quattro iraniani sono stati giustiziati pubblicamente, tre per 
        impiccagione ed il quarto per decapitazione, per reati di omicidio, 
        rapimento, stupro e sodomia…”. 14 maggio, Mashhad, Iran dell’Est: “Nove 
        uomini sono stati impiccati per avere rapito e violentato diverse 
        ragazze, avviandone poi alcune alla prostituzione. Un altro uomo è stato 
        impiccato dopo essere stato condannato per traffico internazionale di 
        stupefacenti…”. 15 maggio, Teheran: “Quindici dissidenti 
        islamico-liberali iraniani, condannati nei giorni scorsi dalla corte 
        rivoluzionaria di Teheran a pene fino a 13 anni di reclusione, hanno 
        protestato con una lettera aperta in cui affermano che il verdetto è 
        stato illegale…”. 20 maggio, Isfahan, Iran centrale: “Una ragazza 
        iraniana è stata decapitata da uno zio in una strada di Isfahan perché 
        sorpresa in compagnia di un ragazzo…”. 21 maggio, Teheran: “Una ferma 
        opposizione ad ogni tirannia religiosa e soppressione delle libertà 
        legali del popolo è stata espressa in Iran in un documento firmato da 
        116 attivisti politici e culturali. I firmatari esprimono la loro forte 
        insoddisfazione per la gestione degli affari del paese…”. 22 maggio, 
        Teheran: “Il ministro dei Trasporti iraniano, Ahmad Korram, ha avvertito 
        che due sciagure aeree sono probabili ogni anno nel paese a causa dei 
        velivoli obsoleti della flotta nazionale. Il 19 febbraio scorso 302 
        persone erano morte nello schianto di un Ilyushin…”. 30 maggio, Gonabad, 
        Iran orientale: “In uno scontro tra due autobus ed un camion sono morte 
        22 persone e almeno 25 sono rimaste ferite in modo grave. Nello scorso 
        anno gli incidenti stradali nel paese sono stati oltre duecentomila ed 
        hanno provocato la morte di oltre ventimila persone. Le principali cause 
        sono imputabili a veicoli vecchi ed insicuri, alla mancanza di rispetto 
        del codice stradale ed all’insufficienza dei servizi di emergenza…”. 31 
        maggio, Oslo: “Un gruppo di persone ha attaccato l’ambasciata iraniana 
        ad Oslo dando alle fiamme un’automobile e spargendo all’interno 
        dell’edificio della polvere bianca…”. Attendendosi a queste e altre 
        notizie, ne viene fuori il quadro di un paese soggiogato ad un regime 
        religioso, lontano dalle classiche regole democratiche e dal rispetto 
        integrale dei diritti umani e politici; un paese dove la prostituzione, 
        la corruzione e la droga stanno inquinando la società. Insomma una 
        nazione che neanche la rigida legge islamica riesce a preservare dalla 
        contaminazione del “male”. Quella, per intenderci, dell’asse nel mirino 
        di George W. Bush.
 
 12 settembre 2003
  
        
        (da Ideazione 4-2003, luglio-agosto) |