| Israele-Siria, un fronte di conflitto sempre 
        aperto di Stefano Magni
 
 Paura che il conflitto si estenda. Questa è stata la reazione più 
        diffusa, all’Onu e nei media, in seguito al raid israeliano in Siria del 
        5 ottobre. L’effetto shock è comprensibile. La dinamica di tutta la 
        seconda intifada ci aveva abituati a limitate risposte israeliane agli 
        attentati suicidi: rastrellamenti nelle aree occupate dai terroristi in 
        Cisgiordania, chiusura delle vie di accesso a Israele o “omicidi mirati” 
        contro leader terroristi, condotti dall’aviazione israeliana nella 
        striscia di Gaza. Sentire le deflagrazioni dei missili alla periferia di 
        Damasco, ha rappresentato una novità assoluta. Era da quasi vent’anni, 
        dal 1985, che aerei israeliani non entravano nello spazio aereo siriano. 
        Il giorno dopo, ecco la notizia di uno scontro a fuoco al confine con il 
        Libano, fra gli Hezbollah e la fanteria delle Israeli Defence Force. Poi 
        le accuse, anche ufficiali, israeliane contro i regimi di Damasco e 
        anche Teheran.
 
 E’ lecito parlare di escalation? Di estensione del conflitto oltre i 
        confini di Israele? A partire dal Libano, non si può negare che la 
        guerra degli Hezbollah contro Israele non sia mai finita. Lo scontro a 
        fuoco del lunedì 6 ottobre non rappresenta alcuna novità. Da quando il 
        premier israeliano Barak aveva ordinato il ritiro unilaterale dal Libano 
        meridionale, sperando di ottenere una cessazione delle ostilità, gli 
        Hezbollah hanno lanciato i loro missili contro Israele per una trentina 
        di volte. La loro artiglieria ha aperto il fuoco, in direzione della 
        Galilea, per più di 80 volte. Ed è anche molto probabile che queste 
        azioni siano state anche molto più frequenti, dato che la maggior parte 
        di esse non fa notizia. Basti pensare all’ultimo caso, l’estate scorsa: 
        l’11 agosto si è saputo, anche dai nostri telegiornali, che gli 
        Hezbollah avevano lanciato i loro missili contro la Galilea, ma 
        testimonianze locali affermano che i lanci siano continuati anche per 
        tutta la settimana successiva, nel silenzio dei nostri media.
 
 Gli Hezbollah, che occupano il Libano meridionale, non si limitano a 
        colpire a distanza. Entrano in azione direttamente, anche in territorio 
        israeliano. A soli cinque mesi dalla ritirata unilaterale israeliana, 
        quasi a mo’ di ringraziamento, i guerriglieri filo-iraniani rapirono tre 
        soldati e un civile. I cecchini Hezbollah, molte volte, si affiancano 
        alle azioni dell’artiglieria. Quella fra Israele e gli Hizbollah, 
        dunque, è una vera e propria guerra in corso. Che senso ha, allora, 
        parlare di “rischio di allargamento del conflitto al Libano”?
 
 Certo, si potrà dire che, escludendo il Libano meridionale, almeno la 
        Siria, fino al raid israeliano, era fuori dalla guerra e ora rischia di 
        esserne coinvolta. Ma quanto era realmente fuori dalla guerra? Il Libano 
        è, di fatto, un protettorato siriano. Il presidente, da Beirut, ha 
        recentemente ribadito la sua intenzione di non ostacolare il lavoro 
        degli Hezbollah: in aperta violazione alla Risoluzione 425, ha 
        confermato che non invierà truppe regolari nel Sud del Libano per 
        ripristinare la legge e l’ordine, attualmente amministrate, a modo loro, 
        dagli Hezbollah stessi. Tutto l’apparato logistico degli Hezbollah 
        dipende dalla Siria, che costituisce una sorta di enorme retrovia. Il 
        conflitto libanese, quindi, è qualcosa di completamente estraneo a 
        Damasco, o non è forse una guerra per procura?
 
 Questo solo per quanto riguarda le responsabilità indirette del regime 
        di Assad. Perché c’è anche un altro, più diretto, livello di 
        coinvolgimento del regime, nel conflitto israelo-palestinese. Hamas e 
        Jihad Islamica, i movimenti che si ripromettono di colpire Israele fino 
        alla sua cancellazione dalla carta geografica e che non vogliono sentir 
        parlare di trattative con lo “Stato sionista”, hanno i loro uffici a 
        Damasco. Non si tratta di uffici clandestini, ma di rappresentanze 
        ufficiali. In territorio siriano si trovano basi, come quella di Ein 
        Tzaha, appena bombardata, dove si addestrano i guerriglieri della Jihad 
        Islamica e di Hamas, gli stessi che poi organizzano gli attentati contro 
        i civili israeliani. Anche in questo caso: non si tratta di covi 
        segreti, ma di vere e proprie basi militari, conosciute e tollerate dal 
        regime di Damasco: la base di Ein Tzaha era a soli 50 km dalla capitale. 
        E l’atteggiamento del governo di Assad non è solo di tolleranza, per 
        quieto vivere, di gruppi terroristici all’interno del suo territorio, ma 
        offre una vera e propria copertura, dimostrata dalle numerose volte in 
        cui la Siria ha ufficialmente respinto la richiesta statunitense di 
        chiudere le basi dei terroristi. D’altra parte, la Siria non nasconde 
        neppure le proprie intenzioni. “Gli ebrei sono pochi milioni: se ogni 
        arabo uccidesse un ebreo, non ce ne sarebbero più” disse nel 2000 
        l’attuale ministro della difesa siriano Mustafa Tlass, autore di testi 
        quali la “Matzah di Sion”, quello che parla dei riti ebraici con il 
        sangue dei bambini arabi sgozzati, tanto per dire. E nelle carte 
        geografiche siriane, lo Stato di Israele non appare nemmeno. Che senso 
        ha, allora, parlare di “rischio di allargamento del conflitto alla 
        Siria”?
 
        
        10 ottobre 2003
 stefano.magni@fastwebnet.it
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