| Iraq, quando 
        il gioco si fa duro di Alessandro Gisotti
 
 Al Pentagono lo chiamano “test Dover”. La volontà dell’America di 
        sopportare la vista dei propri ragazzi impegnati in operazioni militari 
        all’estero, che tornano in patria dentro una bara, abbracciata dalla 
        bandiera a stelle e strisce. Spoglie che si fermano appunto nella base 
        aerea di Dover, prima di ricevere l’ultimo saluto da parte dei propri 
        cari. Fu questo test ad influenzare l’amministrazione Clinton nella 
        decisione di condurre solo dal cielo, senza truppe di terra, la campagna 
        contro Milosevic nel 1999. Sei anni prima, infatti, le immagini dei 
        soldati americani uccisi e brutalizzati nella battaglia di Mogadiscio 
        avevano spinto l’opinione pubblica statunitense a chiedere ed ottenere 
        l’abbandono della Somalia. Un nome, questo, che evoca dolorosi fantasmi, 
        l’unica sconfitta patita dalle forze armate americane dai tempi 
        dell’inferno vietnamita.
 
 Già, il Vietnam. Il senatore repubblicano John Mc Cain, che quella 
        guerra l’ha combattuta, ha sollevato un polverone sostenendo che, come 
        in quel caso, anche per l’Iraq la Casa Bianca descrive una situazione 
        completamente diversa dalla realtà. Parole pronunciate proprio mentre 
        infuriava la polemica innescata dalla pubblicazione su Usa Today di un 
        memorandum riservato del segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, sulla 
        guerra al terrorismo. Documento inviato a quattro membri di rango del 
        Pentagono in cui il “duro e puro” dell’amministrazione Bush esprime non 
        pochi dubbi sull’effettiva riuscita di “Enduring Freedom”. Rumsfeld 
        arriva perfino a ventilare l’ipotesi dell’istituzione di una nuova 
        agenzia federale, con buona pace di Cia ed Fbi, per affrontare Al Qaeda 
        con maggiore efficacia.
 
 Il memorandum della discordia
 
 I Democratici hanno salutato il “memo” come la dimostrazione che 
        l’esecutivo non ha un piano di lungo periodo per sconfiggere il 
        terrorismo, mentre il Washington Post ha chiesto a Rumsfeld di “parlare 
        chiaro”. Per molti, desta, infatti, scalpore che il “superfalco” formuli 
        in privato quegli stessi interrogativi a cui in pubblico si rifiuta di 
        rispondere, perché - a suo modo di vedere - indice di disfattismo. 
        Crescono così i malumori nei confronti di chi, più di ogni altro, ha 
        messo il proprio sigillo sulle campagne militari in Afghanistan ed Iraq. 
        D'altronde, quando la musica è stonata, tutti puntano il dito verso il 
        suonatore. E le note stridenti, in questo momento, non mancano. 
        Impietoso un sondaggio on line della MSNBC: al 5 novembre - con 11590 
        votanti - il 76 per cento riteneva che Rumsfeld dovesse lasciare 
        l’incarico per aver ingannato l’opinione pubblica e lo stesso 
        presidente. Il Time si è chiesto se “l’uomo giusto per tutte le guerre” 
        sia anche capace di vincere la pace; Newsweek, dal canto suo, ha 
        sottolineato come, per la prima volta, Rumsfeld si trovi a combattere 
        battaglie in casa propria. Sì, perché quella del memorandum non è stata 
        l’unica vicenda che, ultimamente, lo ha visto costretto a difendersi, 
        piuttosto che ad attaccare come gli capita normalmente.
 
 Il generale crociato
 
 Infischiandosene dei continui appelli lanciati da Bush in questi due 
        anni per convincere i musulmani che la lotta al terrorismo non è un 
        guerra all’Islam, il generale a tre stelle, William G. Boykin, – stretto 
        collaboratore di Rumsfeld – l’ha invece descritta come lo scontro finale 
        tra il Cristianesimo e Satana. E l’ha fatto, indossando l’alta uniforme, 
        dal pulpito di una chiesa. Il presidente americano ha preso le distanze 
        dal “crociato in divisa”. Tuttavia, lo ha fatto con toni sfumati. 
        Secondo Karl Rove - il guru della Casa Bianca - i quattro milioni di 
        voti degli evangelici, che subito sono corsi in aiuto di Boykin, 
        potrebbero rivelarsi decisivi alle presidenziali del prossimo anno. 
        Rumsfeld, però, si è spinto oltre un limite, giudicato inaccettabile 
        anche dal suo stesso partito. Prima ha taciuto, poi ha glissato, infine 
        ha causato una delle peggiori fratture degli ultimi tempi tra governo e 
        Congresso.
 
 In seguito ai tentennamenti di Rumsfeld, il senatore repubblicano John 
        Warner, presidente della potentissima Armed Services Committee ha preso 
        carta e penna e gli ha spedito una lettera per chiedere una tempestiva 
        indagine sul generale Boykin. Il capo del Pentagono non ha risposto. 
        Anzi, in perfetto stile Rumsfeld, ai giornalisti che chiedevano lumi, ha 
        dichiarato: “Forse sarà da qualche parte nel palazzo del ministero, ma 
        non ne so niente”. Il senatore Warner, un peso massimo della politica 
        statunitense, è andato su tutte le furie. Solo allora - anche per 
        placare l’ira della Casa Bianca, che certo non ha bisogno di nuovi 
        nemici sul fronte iracheno - Rumsfeld ha incontrato Warner per 
        concordare una tregua, che in molti giudicano temporanea. E armata.
 
 Quando il gioco si fa duro
 
 Non mancano, peraltro, voci che difendono l’operato del tetragono 
        settantenne, già campione di wrestling negli anni ’50, quando prestava 
        servizio come pilota della marina militare. Per il neoconservatore 
        Richard Perle, uno dei consiglieri più ascoltati di Rumsfeld, gli 
        interrogativi posti nell’ormai celebre memorandum “sono proprio quelli 
        che la nazione si aspetta da un leader”. Dal canto suo, la rivista 
        conservatrice National Review On Line, nei giorni della tempesta, ha 
        pubblicato un’intervista con Midge Decter – autrice del libro “Rumsfeld: 
        a personal portrait” – che lo ritrae come persona perfettamente in grado 
        di parare anche i colpi più insidiosi e strenuamente impegnato nel 
        tentativo, non facile, di riformare le Forze Armate per adeguarle alle 
        sfide del dopo Guerra Fredda.
 
 Insomma, Rumsfeld è un osso duro. E questo non è in discussione. 
        Sicuramente, conosce bene i meccanismi che regolano la vita del 
        Pentagono: nel 1975, sotto la presidenza Ford, divenne il più giovane 
        segretario alla Difesa della storia americana. Tuttavia, l’evidente 
        fallimento della gestione postbellica in Iraq (anche se, a onor del 
        vero, come dimostra un reportage di Time-AbcNews, la situazione sta 
        migliorando sensibilmente al di fuori del famigerato triangolo sunnita) 
        è un macigno che Rumsfeld porta per intero sulle sue spalle. E’ stato 
        lui infatti – contro il parere dei suoi generali e di Colin Powell – a 
        volere una forza leggera per la guerra in Iraq, sebbene ora le truppe 
        d’occupazione si dimostrino troppo esigue per disarmare e pacificare il 
        Paese. E’ sempre lui a non aver tenuto nella giusta considerazione gli 
        studi, promossi dal Dipartimento di Stato, sulle reali esigenze del 
        popolo iracheno, una volta deposto il dittatore. Un contrasto, quello 
        tra Powell e Rumsfeld, che, come prevedibile, si è riverberato sulla 
        scelta del “viceré” a Baghdad: prima Garner, per poco più di un mese, 
        quindi Bremer.
 
 Bush, che pure nutre profonda stima nei confronti di Rumsfeld, sa che 
        non può permettersi di rimanere impantanato nelle sabbie del deserto 
        iracheno. Soprattutto ora che l’economia americana è tornata a crescere 
        a ritmi reaganiani, allontanando lo spettro di un destino comune al 
        padre, che, nel 1992, pur reduce dalla vittoria nella prima guerra del 
        Golfo, fu bocciato dall’elettorato americano a causa della negativa 
        contingenza economica. Ad inizio ottobre, la Casa Bianca ha così cercato 
        rimedio affidando al Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Condoleezza 
        Rice, il coordinamento per l’Iraq. Decisione che certo Rumsfeld non ha 
        gradito, pur nicchiando nelle dichiarazioni al riguardo. Del resto, in 
        pochi credono che, seppure vera donna d’acciaio della politica 
        americana, Condi possa tener testa allo stesso tempo a Rumsfeld, Powell 
        e al vicepresidente Cheney.
 
 Non stupisce, allora, che sempre più americani si chiedano - assieme a 
        Thomas Friedman sul New York Times - se un’amministrazione così divisa 
        sia davvero all’altezza della sfida. Purtroppo, intanto, nella base di 
        Dover, l’attività non sembra conoscere pause.
 
        
        5 novembre 2003
 gisotti@iol.it
 
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