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              Musica. Beck è tornato ed è sempre lo 
              stesso, anzi nodi Andrea Mancia
 
 Beck è uno dei pochi artisti 
              della scena pop-rock contemporanea in grado di sorprendere, allo 
              stesso tempo, critici musicali e pubblico. Dai giorni del suo 
              singolo d'esordio ("MTV 
              Makes Me Want To Smoke Crack", 1992) la sua traiettoria 
              professionale ha avuto soltanto una caratteristica costante: non 
              avere alcuna caratteristica costante. Con lo straordinario 
              successo di
              
              Loser
              (1993), Beck ha praticamente inventato un ibrido tra folk e 
              hip-hop che in molti, anzi in troppi, hanno cercato inutilmente di 
              imitare. Con album come
              
              Mellow Gold (1994),
              
              Odelay (1996) e
              
              Midnite Vultures (1999), si è 
              conquistato la stima di appassionati di ogni genere, miscelando 
              con maestria suoni, ritmi e melodie di epoche e latitudini così 
              diverse che nessuno - prima di lui - aveva osato neppure accostare 
              tra loro: funk, punk, country, blues, rock e perfino discomusic 
              d'annata.
  
              
              Ma c'è anche un Beck più intimista ed insondabile, forse meno 
              apprezzato dal mercato e certamente più sottovalutato dalla 
              critica. E' quello che con
              
              Mutations (1998), aveva ancora 
              una volta disorientato il mondo dando vita ad un capolavoro di 
              folk purissimo soltanto "sporcato" da qualche ricamo digitale 
              inventato dal produttore Nigel Godrich, lo stesso mago 
              dell'elettronica che aveva contribuito - appena un anno prima - a 
              rendere inconfonbile il sound dei Radiohead nell'acclamatissimo
              
              
              OK Computer. 
              E lo stesso che, senza alcun preavviso, è stato chiamato da Beck a 
              produrre il suo nuovo
              
              Sea Change, album inciso in sole 
              due intense settimane di studio (dopo una tremenda delusione 
              sentimentale dell'autore).  
              "Sea 
              Change" è, contemporaneamente, il lavoro più insolito e più 
              diretto di un artista che pure ci aveva ampiamente abituato a non 
              abituarci a nulla. Insolito perché dopo il grande successo 
              commerciale del funk-pop di "Midnite Vultures" era legittimo 
              prevedere che Beck avrebbe continuato a navigare, se non nello 
              stesso oceano sonoro, almeno in acque limitrofe. Diretto perché, a 
              differenza che in tutti i suoi album precedenti, il chitarrista 
              californiano abbandona qualsiasi velleità di ironia e cinismo 
              lessicale per presentarci testi in cui il suo attuale stato di 
              travaglio romantico si espone, nudo, in tutta la sua tragica 
              normalità.  
              Il 
              disco parte con la tristissima ballata "The Golden Age" per poi, 
              in perfetto stile-Beck, disorientarci con il crescendo incalzante 
              (ma sempre malinconico) di "Paper Tiger", esaltato da un 
              arrangiamento a tratti sinfonico e da un ritornello irresistibile 
              che potrebbe farne il punto di riferimento radiofonico per tutto 
              l'album. Ma dopo questa parentesi quasi-rock, si torna nel vortice 
              della depressione con il folk di "Guess I'm Doin' Fine" e con due 
              episodi ("Lonesome Tears" e "Lost Cause") che ricordano quasi gli
              
              Eels più acustici. Molto riuscite 
              (e sempre tristissime) anche l'electro-country "Nothing I Haven't 
              Seen", l'eterea "Round the Bend", la dylaniana "Already Dead" e 
              soprattutto "Little One", uno degli episodi più in stile-Beck reso 
              però particolare da un'interpretazione vocale che fa il verso al 
              Kurt Cobain di
              
              Unplugged in New York. Con la non 
              irrilevante differenza che il leader dei Nirvana è fuggito dalla 
              sua angoscia esistenziale cercando scampo nel suicidio, mentre 
              Beck ha reagito regalandoci uno spendido e tristissimo album. E 
              adesso (almeno secondo le cronache rosa) sta molto meglio di 
              prima.  
              22 novembre 2002  
              
              mancia@ideazione.com |