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              Teatro. L’uomo al centro della scena
              di Myriam D’Ambrosio
 
 Ventotto anni e ha già alle spalle una buona semina. Dopo la 
              maturità ha lasciato la luce di Napoli per salire a Milano, la 
              città più madre (adottiva) di tutte, che accoglie nel silenzio e 
              conquista nel tempo. L’obiettivo era quello di frequentare la 
              Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi per uscirne con il diploma 
              di regia teatrale. Antonio Pizzicato ha avuto subito le idee 
              chiare e le idee si schiariscono quando la passione per la scelta 
              compiuta è forte. I primi cinque anni milanesi li ha vissuti in un 
              monolocale di venti metri quadri in uno di quei quartieri di 
              periferia dove non è consigliato passeggiare. Mentre racconta i 
              primi tempi da “immigrato” Antonio sorride e ricorda: “Non c’erano 
              i termosifoni e per scaldarmi accendevo tutti i fornelli del gas”.
 
 L’amore per il teatro era nato già a scuola (dove frequentava una 
              piccola compagnia), per “colpa” del professore di lettere Umberto 
              Serra. Poi, il volo dal nido, l’incontro fondamentale con Gabriele 
              Vacis, la responsabilità di dirigere la prima edizione del 
              Festival teatrale di Paduli, nell’estate del 1997, proponendo lo 
              spettacolo itinerante “La città antica”, la scoperta della voce e 
              i numerosi seminari sul canto corale. Nel 2000, la nascita di una 
              compagnia sua, chiamata “Malfornita Teatro”, gli dà modo di 
              esprimersi pienamente e di creare qualcosa che gli appartenga. 
              Riccardo Tordoni, Fabrizio Pagella, Diana Hobel, Carlo Gabardini e 
              Antonio Pizzicato, cinque ragazzi, quattro attori e un regista, 
              progettano i loro spettacoli, li scrivono, li studiano, li 
              propongono, li ritoccano, li mettono in scena. Una crescita 
              comune, un’intesa come poche.
 
 Il lavoro della scorsa stagione è stato “In prima persona, tre 
              specchi per guardarsi fuori”, un progetto composto da tre 
              monologhi, tre storie indipendenti l’una dall’altra ma con un filo 
              conduttore: la consapevolezza dell’età adulta raggiunta attraverso 
              il ricordo, il dolore, il sogno. “Io, Riccardo, Fabrizio, Diana e 
              Carlo ci siamo riuniti e abbiamo studiato un’azione teatrale con i 
              mezzi che avevamo a disposizione”, racconta Antonio. “A Riccardo 
              chiesi: ‘Se tu ti trovassi di fronte al pubblico, cosa vorresti 
              dire?’. Ecco, tutto è nato da quella domanda. E’ venuta fuori 
              un’esigenza profonda di comunicazione unita al modo personale di 
              stare a contatto con gli spettatori. Dall’inizio è stato un lavoro 
              collettivo. Ognuno è andato in scena mettendo in campo le proprie 
              competenze”. Ora, il gruppo ha altro in cantiere. “Ho in mente tre 
              cose che sento dentro prepotenti – confida il giovane regista – la 
              prima è un lavoro su Galileo, un personaggio sconvolgente per la 
              sua attualità e il suo rapporto con la Chiesa. La seconda è un 
              testo da scrivere con Carlo e Riccardo sui diritti civili negati a 
              chi deve abbandonare la propria terra per sfuggire al massacro 
              della guerra. Infine, sono le relazioni con la figura paterna che 
              mi interessano. L’odio, il perdono, l’assenza. E’ sempre l’uomo ad 
              essere al centro di tutto, al di là della dimensione temporale in 
              cui è inserito”.
 
 17 gennaio 2003
 
 mirid2@libero.it
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